domenica 11 febbraio 2018

ROBINSON Sì, il male è necessario (anche alla buona letteratura)

Bisogna guardare da vicino i demoni senza farsene incantare.
Perché quando, nella storia, tornano oscuri fantasmi, a rischiarare il buio arriva un amico di nome Balzac, Melville, Leopardi...
di Antonio Moresco La cultura non è un terreno pacificato e bonificato dalla presenza del dolore, della morte e del male, dove stare al sicuro e al caldo. La cultura, la letteratura sono un campo di forze, una terra di confine dove ci può entrare anche il male, la faccia in ombra della vita e del mondo, la parte sommersa dell’iceberg. E lo scrittore non è un propagandista e un edificante cantore del bene, uno che se ne sta al sicuro nel suo posticino moralmente garantito, sulla sua cattedra soprelevata, è anche lui in una zona di rischio. Ma non è neanche un edificante propagandista e un cantore del male. Non deve, a mio parere, compiere la speculare operazione di identificarsi con il male invece che con il bene e diventarne il servo sciocco, lo scriba. È uno che al male deve anche andare maledettamente vicino, ma senza farsi pietrificare dal suo sguardo di Medusa, come succede spesso in molta letteratura di questa epoca, dove viene spacciata per libertà e coraggio questa resa esibita. Ed è così, con questa capacità di fronteggiamento e di rischio che sono stati dentro la letteratura gli scrittori in pensiero del passato: Cervantes, Shakespeare, Leopardi, Melville, Balzac, Dostoevskij, Kafka… Gli scrittori sono delle torce che attraversano lo spazio e il tempo, che accendono altre torce, che ci si può passare di mano in mano per rischiarare il buio. Perché a volte, quando tutto sembra tragicamente bloccato ( e in Italia, in Europa e nel mondo le cose sembrano essere a questo punto), quando fantasmi e demoni riprendono a bollire nelle viscere del mondo, quando tutto sembra sotto la cappa del delirio e del male, quando sembra che non possa venire più nulla da parte di una politica asservita, né da ogni altra parte, è dai territori meno sorvegliati della letteratura ( meno sorvegliati perché si crede che non contino nulla) che può arrivare ancora qualcosa. Dalla sua parola consustanziata e dalla sua invenzione, che possono aprire dei passaggi, delle crune: da una letteratura gravida di pensiero, precognizione, visione; dalla poesia; dalla tracimazione della musica; dal pigmento colorato della pittura che si reinventa il mondo… Come è successo altre volte in passato, quando, da zone che si credevano marginali e da persone sulle quali nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato sono riuscite a passare forze sotterranee e dormienti che hanno rimesso in movimento il pensiero, i sogni, i desideri, che hanno riaperto gli orizzonti delle vite individuali e del mondo.
Non sto pensando a quella postura che nel secolo appena trascorso è stata definita “ impegno”, che si è risolta alla fine in un’ancillarità della letteratura nei confronti dei poteri tirannici dell’epoca e delle loro ideologie, ma a un fronteggiamento, da pari a pari, della letteratura col mondo e con il male del mondo, come gli scrittori e i poeti degni di questo nome hanno sempre fatto, di qualunque cosa parlassero: di guerrieri antichi sotto le mura di Troia, di un viaggio ultraterreno, di una balena bianca, di Napoleone in Russia, di un giovane uomo che si aggira con un’ascia, di uno schizofrenico e adorabile burattino di legno, di un uomo che si sveglia trasformato in insetto… L’Italia di questi anni è un luogo inospitale per gli scrittori che stiano in modo inarreso e insurrezionale dentro la letteratura. Il mondo culturale italiano è intossicato e attraversato dalle stesse miserie che vengono stigmatizzate in quello politico e in ogni altro campo: arrivismo, cinismo, mancanza di elezione e visione, gioco chiuso e truccato, autoposizionamenti, guerra fratricida, una malintesa lotta darwiniana per la sopravvivenza, mentre è certo che è questo il modo migliore per non sopravvivere.
Perciò ne L’adorazione e la lotta continuo a forzare il quadro che viene dato come insuperabile, a tormentare i limiti, parlando di come corre il ghepardo, di come arde e dura una stella, del big bang del dolore, della figura del Testimone e di quella del Diavolo, di santità, dell’estremismo e del sogno della letteratura, di separazione e fusione, di traboccamento, di precognitivi filosofi antichi, di una poetessa americana animisticamente immobile di fronte a un dagherrotipista, di un serial killer epocale di nome Hitler… La cultura di questa epoca non sembra poter fare argine al male. Si potrebbe dire che non lo ha mai fatto, che la cultura non ci rende di per sé migliori ( la Germania colta del Novecento non ha impedito il nazismo e la “ soluzione finale” ecc). Ma c’è anche da dire che da molto tempo, dalla seconda metà del Novecento — questo secolo contrassegnato da due devastanti guerre mondiali — una buona parte della “ alta” cultura e della “ alta” letteratura ha subìto una sorta di identificazione con l’aggressore, si è per lo più rinchiusa in un recinto specialistico e autoreferenziale, mentre è toccato spesso alla migliore letteratura di “ genere” prendere ancora di petto temi importanti e gravi. Nonostante la continua presenza di scrittori forti e capaci di fronteggiamento a tutto campo, che c’erano ieri e che ci sono anche oggi nel mondo, ha prodotto a getto continuo teorie che sancivano la propria presunta irrilevanza: la fine di questo, la fine di quello... Ha divulgato instancabilmente un’idea debole e da ultima spiaggia della letteratura, ha fatto inconsapevolmente il controllo del territorio all’ombra dei nuovi poteri economici e tecnologici e della loro visione orizzontale del mondo. Ha addirittura teorizzato che proprio in quell’autodifensiva e terminale separatezza risiedeva il proprio valore, il proprio status. Oppure, per un’idea al ribasso di democrazia, si è euforicamente consegnata a una dimensione funzionale di puro intrattenimento quantitativo. Da decenni veniamo bombardati da superficiali contrapposizioni di questo tipo: scrittori che stanno nella torre d’avorio e scrittori che stanno vicino al popolo ( dei lettori ridotti a nuove plebi statistiche); scrittori che si guardano l’ombelico e scrittori che invece parlano della “ realtà”; fiction e autofiction; reale e virtuale; letteratura e realtà, parola fossilizzata poi in quella semplicistica idea di comunicazione che replica l’esistente e che è stata chiamata “ realismo”, di rappresentazione “ realistica” di ciò che si vede o si vuole vedere dentro lo specchio. Proprio mentre è la sola dimensione economica e finanziaria a dominare il mondo, come non era mai successo in nessun’altra epoca ( economia da una parte, realismo dall’altra...). Proprio mentre ci sarebbe bisogno — come singoli terrestri umani e come specie — di forzare i possibili, di non limitarsi a descrivere ciò che si vede o si crede di vedere dentro lo specchio del mondo ma di sfondare lo specchio e di passare dall’altra parte. ?
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L’autore e il libro
Antonio Moresco è nato a Mantova nel 1947 e vive a Milano.
Il suo ultimo libro L’adorazione e la lotta (424 pagine, 22 euro), nel quale attraversa opere di autori come Cervantes, Virginia Woolf, Swift e Rimbaud, sarà in libreria per Mondadori dal 20 febbraio.
Tra le altre opere Giochi dell’eternità, in tre volumi ( Gli esordi, Canti del caos, Gli increati) scritti nell’arco di trentacinque anni.
Nel 2017 ha pubblicato Fiabe da Antonio Moresco (Sem)

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