Ci sono opere d’arte che ci cambiano la vita: perché sono in grado di svelarci il segreto che è racchiuso in noi di Massimo Recalcati
Un incontro è un evento che taglia il percorso di una vita rendendola differente da com’era prima. Gli incontri sono tali se hanno contribuito a dare una forma nuova alla nostra vita, se hanno partecipato in modo decisivo a trasformarla. In questo senso, ogni vero incontro è un incontro d’amore, se l’amore è, come è, l’evento che più di ogni altro porta con sé il rinnovamento, l’espansione e la trasformazione della vita. Ma la radicalità di un vero incontro non suppone necessariamente un incontro con persone in carne e ossa. Anche l’incontro con le idee, le immagini, i suoni e le parole può essere altrettanto radicale. Sono esistite, per esempio, per ciascuno di noi, letture che hanno effettivamente contribuito a trasformare la nostra vita, che l’hanno resa diversa da com’era prima. La cosiddetta “sindrome di Stendhal” è solo l’espressione più appariscente e, solitamente, la più evanescente, del turbamento, anche traumatico, che l’incontro con un oggetto della cultura può suscitare: smarrimento, estasi, spaesamento, vertigine, rapimento, caduta.
Quello che accade con l’incontro con un’opera d’arte porta con sé sempre qualcosa di indecifrabile. La potenza di un’opera è quella di aprire in seno al soggetto un altro registro della comprensione oltre a quello meramente cognitivo dell’apprendimento. Quale registro? In gioco è un vero e proprio ribaltamento del modo più ovvio col quale siamo abituati a pensare lo schema della fruizione. Quando un’opera si rivela essere un vero e proprio incontro è perché non è più il soggetto che la percepisce attivamente, ma è l’opera che sprigiona una forza inaudita che non potevamo prevedere e che, come direbbe Barthes a proposito dell’arte della fotografia, “mi punge”. Mentre nello schema ovvio della fruizione io leggo il libro che tengo nelle mani appropriandomi progressivamente dei suoi contenuti — lo stesso varrebbe per la contemplazione di un quadro o per l’ascolto di un concerto — quando un libro diviene un incontro, è il libro che mi legge — è la pittura che mi guarda, è la musica che mi ascolta — .
Ma perché sono esistite letture che si sono rivelate indimenticabili, letture che hanno dato una nuova forma alla nostra vita? Queste letture non possono essere catalogate in una lista universale ma, come sappiamo bene, variano profondamente da lettore a lettore. Il loro elenco dovrebbe essere, infatti, rigorosamente singolare. Perché? Perché quando leggo non mi limito ad assorbire cognitivamente il suo mondo narrativo o teorico, ma c’è qualcosa in quel libro che mi legge. Ecco il punto dove i piani dell’attività e della passività si ribaltano: non sono io che leggo il libro ma è il libro che mi legge ( allo stesso modo non sono io che guardo il quadro ma è il quadro che mi guarda; non sono io che ascolto la musica ma è la musica che mi ascolta). Questo significa che nell’incontro con un libro io incontro sempre una parte di me stesso, un punto denso dove l’enigma della mia esistenza più singolare e indecifrabile viene toccato e in parte svelato, come se il “fondo” del soggetto — il suo inconscio — salisse in superficie. Non sono io allora — come ritiene lo schema più ovvio della fruizione — che attraverso la lettura mi approprio del libro, ma è il libro che si appropria di me. Non a caso quando un libro diviene un incontro abbiamo la sensazione che esso ci richiami a continuare la lettura, a portarla il più rapidamente possibile al suo termine: non sono più io che vado verso il libro ma è il libro che viene verso di me. E, solitamente, questo movimento non si esaurisce mai in una sola lettura ma ci costringe a constatare che la superficie del libro è inesauribile. Per questa ragione torniamo a leggere e a rileggere certi libri, ovvero i libri (pochi) che ci hanno davvero letto. Perché accade? Perché in quelle pagine che come calamite potenti mi catturano ho trovato qualcosa di me che non sono mai stato in grado né di dire, né di vedere. Non smettiamo mai di leggere quei libri che ci hanno fatto leggere l’enigma che ciascuno di noi è per sé stesso. Il libro assume allora la forma di una sonda che fa risuonare il mio stesso inconscio. L’incontro col libro diventa un ponte che mi consente di incontrare il segreto che mi abita. Lacan racconta che dopo aver letto la Critica della ragion pratica di Kant rimase per settimane come stordito, senza parole. Lo stesso accadde a Sartre con Essere e tempo di Heidegger, a Beckett con la Recherche di Proust o ad Agostino con i Vangeli. Ma più modestamente è accaduto a tutti noi di incontrare un libro che ci ha, mentre lo leggevamo, letti sino nelle viscere, sino a dove il nostro sguardo non poteva arrivare, che ha fatto salire il nostro “fondo” in superficie. Per questo l’incontro con un libro — come con un qualunque altro oggetto della cultura — porta sempre con sé l’opportunità di una trasformazione, di dare una forma differente alla nostra vita. È questo il potere autenticamente e radicalmente formativo della cultura. Non si tratta solo di istruire cognitivamente la vita, di avviarla all’accumulazione sterile di un sapere morto. Non si tratta solo di erudizione mentale, ma di offrire alla vita l’occasione dell’incontro con la parte più segreta di sé stessa rendendo possibile il suo rinnovamento, la sua espansione inedita, l’acquisizione di una forma nuova. ?
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