Pietro e Paolo che discutono, dipinto di El Greco, attualmente all'Ermitage diSan Pietroburgo |
«
Ma
tu, uomo di Dio, fuggi queste cose» (1Tim 6,11): così inizia l’esortazione di
Paolo a Timoteo che costituisce la seconda lettura della XXVI domenica del
tempo ordinario.
Le
cose da fuggire sono accuratamente elencate nelle righe precedenti della
lettera (6,3s).
Sono
la ricerca di novità anziché la fedeltà alle «sane parole del Signore»;
La
febbre di «cavilli e questioni oziose», che generano invidie, litigi e
sospetti;
L’orgoglio
e l’attaccamento al denaro.
L’insistenza
è su queste ultime due cose.
L’orgoglio
rende ciechi, cioè «corrotti nella mente e privi della verità».
Il
verbo è al tempo perfetto, e dunque si tratta di una cecità permanente.
L’orgoglio
non solo rende invidiosi e litigiosi, ma ottenebra la conoscenza.
E
accanto all'orgoglio, l’attaccamento al denaro, che è «la radice di tutti i
mali» (6,10). Si può persino giungere al punto – a volte con buone intenzioni!
– di considerare la pietà come strumento di guadagno, mentre invece la pietà
deve sempre accompagnarsi alla sobrietà: «Quando abbiamo di che mangiare e di
che coprirci contentiamoci di questo» (6,8). Senza una vita sobria ogni forma
di servizio e di testimonianza impallidisce, qualsiasi posizione si occupi e
qualsiasi ministero si svolga.
Da
tutte queste cose – che tratteggiamo la figura di un cristiano falso o illuso -
si deve fuggire. Come suggerisce il verbo all’imperativo presente, sono cose da
fuggire continuamente. Non si risolve il problema una volta per tutte,
e nessuna situazione può ritenere di essere immune da queste tentazioni. Sono
tentazioni che tornano sempre con lo stesso fascino.
Il
vero discepolo deve sapere che ci sono cose da continuamente fuggire, ma anche
cose da continuamente rincorrere: anche qui il verbo e nella forma
dell’imperativo presente (6,11). Rincorrere è più che cercare: sottolinea la
tensione verso qualcosa che non ha mai afferrato abbastanza, che non possiede
mai del tutto. Lo rincorri sempre. Si tratta infatti di rincorrere una maturità
cristiana che non può mai dirsi terminata. Le sue qualità sono così elencate:
giustizia, pietà, fedeltà, amore, pazienza (che non è soltanto la forza di
resistere, ma anche la forza di attendere), mitezza. Tutto questo è
l’uomo di Dio. È la descrizione di un uomo solido e maturo, forte, generoso e
pacato. Un uomo ricco non soltanto di fede, ma anche di solidità umana. Le due
cose stanno sempre insieme.
Ma
non basta fuggire e rincorrere, occorre anche “lottare”. Una lotta incessante,
come dice anche qui l’imperativo presente. Vivere la fede, confessarla
coraggiosamente davanti a tutti, tener fermo lo sguardo in direzione della vita
eterna alla quale il cristiano sa di essere chiamato, tutto questo richiede il
coraggio di una lotta. Paolo parla di «una buona battaglia della fede» (6,12).
Ha ragione. Il difficile, infatti, non è soltanto abbracciare la fede, ma ancor
più custodirla e mantenerla viva, qualsiasi cosa succeda. Può anche bastare il
monotono logorio della vita, giorno dopo giorno, a indebolire la fede e
renderla abitudinaria è il pericolo che Paolo sembra temere molto, più di ogni
altro, tanto che non si accontenta qui di ricorrere all'imperativo, come ha
fatto sopra, ma esprime la sua raccomandazione con un «ti scongiuro», che è molto
più pressante del semplice imperativo. La fede abitudinaria è il pericolo più
insidioso. Ci si può cadere anche senza avvertirlo.
Non
sfugga da ultimo in questa esortazione di Paolo un inciso molto illuminante:
l’allusione al processo di Gesù davanti a Pilato. È qui che si vede con
particolare limpidezza che cosa Paolo intenda parlando della «bella confessione
di fede». Il suo modello di riferimento è la testimonianza di Gesù di fronte a
Pilato continua la storia del mondo. E qui sono direttamente coinvolti i
discepoli, che si pongono dalla parte di Gesù contro il mondo, senza paura
delle conseguenze. Difendendo Gesù, il discepolo viene coinvolto nello stesso
rifiuto. La credibilità della testimonianza cristiana sta proprio nella disponibilità
a condividere a condividere il destino di Gesù: lo stesso rifiuto, le stesse
motivazioni, la stessa condanna. Questa è la «bella battaglia della fede», la
sua forma più alta e più convincente, certamente non tutti i cristiani sono
chiamati al vero e proprio martirio. Tutti però sono chiamati a percorrere una
strada nella stessa direzione: quella cioè di un’esistenza che pone Dio, la
verità e la giustizia al di sopra di ogni altra cosa, disposti a pagare il
prezzo. [1]
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