«La Misericordia senza Giustizia diventa buonismo... La Giustizia senza Misericordia diventa
giustizialismo».
Crediamo che sia questa, in ultima analisi, la sintesi della XXV domenica del Tempo Ordinario, anno C.
Non
faremo analisi sociologiche sull'attuale situazione sociale e economica, ci lasceremo trasportare dalla Parola e faremo un cammino a ritroso, indietro nel
tempo, fino a giungere nell’anno 784-744 a. C., in quella terra a nord della
Palestina che dopo aver compiuto lo scisma con Gerusalemme, era in quel momento
attraversata da profonde trasformazioni sociali ed economiche. Siamo nel secolo
VIII e Israele passava da una vita seminomade ad una agricoltura stabile, a un
inedito insediamento urbano, all'introduzione del potere regale e con esso alla
creazione di un più complesso e costosissimo apparato statale, sia militare che
amministrativo. Tutto ciò aveva contribuito a creare una stabilità politica e
una certa prosperità economica, ma a prezzo di rovinosi rapporti sociali, di
una malvagia corruzione nell'amministrazione pubblica, di insopportabili
ingiustizie nei confronti delle classi più povere perpetrate dai nuovi
arricchiti, latifondisti, padroni di mezzi di produzione, commercianti.
È
contro questi risvolti negativi del progresso sociale che si leva forte la voce
di Amos. Egli non si pronuncia, né avrebbe la competenza per farlo, sulle leggi
economiche e sulle strutture sociali. La sua grandezza è altrove: da profeta
scomodo quale lo furono gli uomini di Dio del IX secolo (Elia ed Eliseo), egli
mette alla gogna la più elementare e conclamata ingiustizia quella dei palazzi
e dei mobili di lusso (3,15; 6,4), delle orge e del culto sfarzoso. Nella sua
predicazione la componente orizzontale, quella dei rapporti interpersonali e
sociali, s’intreccia necessariamente con quella verticale-religiosa. Amos
scuote la coscienza dei ricchi, ricorda loro che, mentre scardinano
l’ordinamento sociale sfruttando i poveri, non fanno che gettare discredito sul
piatto di alleanza tra il Signore e il suo popolo. Per questo la lotta del
profeta si estende ad una pratica religiosa più preoccupante della formalità
dei riti che della genuinità della fede, ad una religione connivente con il
potere, ad ogni uso magico o strumentale del nome di Dio (9,10).
Il
passo odierno è una requisitoria profetica. Leggiamolo insieme:
PRIMA LETTURA (Am 8,4-7)
Contro coloro che comprano con denaro gli indigenti.
Dal libro del
profeta Amos
Il Signore mi disse:
«Ascoltate questo,
voi che calpestate il povero
e sterminate gli umili del paese,
voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio
e si potrà vendere il grano?
E il sabato, perché si possa smerciare il frumento,
diminuendo l’efa e aumentando il siclo
e usando bilance false,
per comprare con denaro gli indigenti
e il povero per un paio di sandali?
Venderemo anche lo scarto del grano”».
Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe:
«Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere».
Il
profeta mette poi impietosamente a nudo i sentimenti di questi oppressori dei
poveri riferendo la loro argomentazioni cariche di insipiente avidità.
Sopportano con insofferenza giorni del riposo liturgico in quanto vengono a
spezzare il ritmo frenetico del loro commercio: il sabato, giorno di assoluto riposo (es 20,8-11; Dt 5,12-15; Ger
17,19-27), il novilunio, anch’esso
giorno di interruzione del lavoro dai tempi remoti fino all’esilio babillonese.
Non hanno pudore a conclamare la propria disonestà nel «vendere anche lo scarto
del grano», nel falsificare bilance, pesi e misure – nella fattispecie l’efa, contenitore di 40 litri e il
siclo, peso di 11,5 grammi -, una frode stigmatizzata dai testi sacri (Lv
19,35s; Dt 25,13-16; Pr 11,1) che ben conoscevano le disoneste manomissioni che
in tale materia si perpetravano a scapito dei poveri. Dunque, una sorta di
criminalità organizzata affliggeva – allora come oggi – la società “civile”,
con la tacita connivenza dei gestori del potere (legislatori, giudici,
governanti) ai quali spetterebbe la responsabilità di tutelare l’ordine e di
promuovere il bene comune.
Il
testo ricorda poi una prassi selvaggia, tollerata in Israele e regolata da
disposizioni di legge: sul povero che non poteva pagare il grano necessario per
la sopravvivenza personale e della sua famiglia, incombeva il sequestro di
oggetti (es 22, 25 s; Dt 24,6.10 -13) o addirittura la riduzione in schiavitù
nel senso che l’indigente e i suoi familiari potevano forzatamente essere
costretti a prestazioni servili in sostituzione del denaro che non erano in
grado di versare. L’immagine dei “sandali” - forse in modo proverbiale per
indicare un contratto di minima entità – pesa come un’aggravante su chi, per
così poco, ha costretto un uomo a vendere la propria libertà.
A
conclusione del breve testo, il profeta Amos lascia la parola direttamente a
JHWH che con solenne giuramento «per il vanto di Giacobbe» - vale a dire per
Colui del quale il popolo va fiero, cioè il Signore stesso – annuncia un severo
giudizio: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere». E come potrebbe
dimenticare Colui che si è proclamato «padre degli orfani e difensore delle
vedove» (Sal 68,6), che ha preso a cuore il diritto dei poveri, che ascolta il
loro grido (Es 22,22) e sceglie il debole per confondere il forte (1 Cor 1,27).
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