martedì 26 luglio 2016

Il cristiano è chiamato a scegliere fra Kronos e Kairos Sguardi e visioni A cura di Andrea Dall’Asta Avvenire 04/07/2013



«La vita fugge, et non s'arresta una hora,/et la morte vien dietro a gran giornate». Con queste parole Francesco Petrarca iniziava uno dei più bei sonetti della letteratura italiana. La vita fugge inesorabilmente, in quanto il tempo inghiotte tutte le cose, segnando la nostra vita come un ineluttabile dirigersi verso l'appuntamento ultimo al quale nessuno può sottrarsi: la morte. Il tempo è implacabile, crudele. Questo è l'unico punto fermo della vita. Con insistenza, il suo scorrere lento e costante ricorda che la morte arriva con la falce in mano, spesso cavalcando un cavallo in corsa, mietendo il proprio raccolto, incurante se alcune spighe sono troppo verdi, se desideravano maturare... È la sua missione. È cieca. Impietosa. Crudele. Tempo, vita e morte sono così indissolubilmente legati in una corsa che nessuno può arrestare.
Ogni uomo fa esperienza del tempo. Anche se ha difficoltà a capire in cosa consista. «Se nessuno me lo chiede, lo so. Se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so», diceva Agostino d'Ippona. Certo, tre sono i tempi: il passato, il presente, il futuro. Tuttavia il "tempo" sembra sottrarsi a qualunque definizione. Potremmo dire infatti che è una strana realtà, in quanto il passato non è più, il futuro non è ancora e non è possibile identificare il presente nell'istante attuale, perché questo è subito trascorso. Nel momento stesso in cui ci concentriamo sull'istante che stiamo vivendo, quello stesso istante è già passato. È nella nostra memoria. Non ritornerà mai più come "presente". In questo senso, il tempo è come il vento. Quando ci accorgiamo della sua presenza, è già volato, lontano. E non possiamo cercare di afferrarlo o di ingabbiarlo tra le mani. Ci è sfuggito. Ma allora quale è il senso del tempo? Quello di ricordare il carattere effimero della vita, che siamo esseri destinati alla morte? Fare esperienza del tempo vorrebbe solo dire prepararsi a quel momento di fronte al quale tutti noi vorremmo fuggire? Certo, l'esperienza del tempo non è separabile da quella della morte. 
Non a caso nella mitologia greca il tempo è un dio (Kronos) rappresentato come un gigante mostruoso, colto nell'atto di mangiare i suoi figli, essendogli stato predetto che sarebbe stato spodestato da uno di loro. E l'immagine di Kronos è archetipica, inscritta nella coscienza umana. Quel mostro abita il cuore dell'uomo, da sempre. Kronos è un dio che divora ciò che genera. Stritola ogni cosa. Incute paura, angoscia. È un tiranno che non vuole condividere con nessuno il proprio potere. È come un predatore in ricerca perenne di una vittima che, una volta identificata, non può sfuggire. Incapace di condividere, riconduce tutto a se stesso, per soffocarlo e annientarlo. Il tempo è nemico. È questa una visione del tempo tipicamente umana. Perché – si chiede l'uomo –, se da un lato ci è donata la vita, dall'altro dobbiamo restituirla? È come se gli fosse stato fatto un dono che in realtà non gli può appartenere. Dio toglie quanto prima aveva donato. Dio "appare" buono ma in realtà è chiuso nel proprio trattenere.
Tuttavia, possiamo interpretare diversamente il tempo. A partire dal battesimo, la chiesa dei primi secoli ha riflettuto a lungo sul senso del rapporto tempo-morte. Questo sacramento, con l'immersione/emersione del neofita nelle acque del fonte battesimale, segna il passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce. L'uomo si immerge nelle acque del non senso, della morte, per diventare una creatura nuova. È questo il tempo per eccellenza del passaggio della grazia, del tempo opportuno, del Kairos, termine con il quale i greci indicavano il tempo di Dio, il momento giusto, propizio, che ci fa interpretare in modo diverso l'esperienza di Kronos. 

Il cristiano era chiamato «colui che non ha paura della morte», perché la propria morte non stava davanti a sé, ma era dietro di sé, nel proprio battesimo. Davanti a sé sta la vita, rivolta verso la casa del Padre. Il tempo che segue il battesimo è dunque quello della gioia, in quanto la "vera" morte è già avvenuta. La fiducia nella buona morte apre all'epifania della vita, all'incontro faccia a faccia con Dio. È la fiducia che la vita assume pienezza di senso, nella gioia di questo incontro definitivo. Questo tempo non distrugge quindi ogni cosa, quanto piuttosto prende per mano, per accompagnare l'uomo verso l'origine stessa della vita, verso un Dio pronto ad abbracciarci. Il tempo si fa amico. In questo senso, il battesimo invita a guardare alla morte di Gesù sulla croce, per proclamare che la vita dell'uomo non finisce con la sua esistenza terrena. Perché quell'uomo è risorto! Vivere l'esperienza del tempo diventa allora attendere la risurrezione. Il tempo diventa quello della fiducia che ci conduce verso qualcuno che ci ama.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.