lunedì 14 marzo 2011

Il Quotidiano Osservatore Romano del 15 Marzo 2011




All'Angelus il Papa esprime la sua vicinanza alle popolazioni del Giappone colpite dal terremoto e dallo tsunami

Questi tremendi eventi


Si aggrava di ora in ora il bilancio delle vittime mentre resta vivo l'allarme per la tenuta delle centrali atomiche danneggiate dal sisma

TOKYO, 14. Con il passare delle ore, stanno assumendo contorni catastrofici le conseguenze dello tsunami indotto dal terremoto di magnitudo 9 che venerdì ha investito il Giappone nordorientale.
Dopo aver praticamente inghiottito decine di cittadine e villaggi, l'onda anomala (alta più di 10 metri) si è ritirata, lasciando dietro di sé una scia di distruzione e di morte. Le immagini trasmesse in queste ore da tutte le televisioni del mondo sono inequivocabili. Anche oggi sono stati rinvenuti altri 2.000 cadaveri nella sola prefettura di Miyagi, una delle più colpite dal maremoto. Lo ha riferito l'agenzia di stampa giapponese Kyodo, precisando che circa un migliaio di corpi sono stati rinvenuti sulla costa della penisola di Ojika, gli altri nella città di Minamisanriku, dove manca all'appello più della metà della popolazione. La polizia locale e i vigili del fuoco, riporta l'agenzia, sono all'opera per recuperare ulteriori 200 cadaveri ritrovati a Sendai. Finora, i morti accertati da quella che il primo ministro giapponese, Naoto Kan, ha definito la peggiore crisi dalla fine della seconda guerra mondiale sono 5.000, ma si teme che possano essere più di 10.000. Lo hanno confermato le autorità.
E per scongiurare la paralisi del mercato finanziario, la Banca centrale del Giappone ha immesso sui mercati 15.000 miliardi di yen, pari a circa 182 miliardi di dollari, praticamente raddoppiando i livelli di acquisto di asset. L'intervento straordinario è stato deciso per fermare la caduta della Borsa di Tokyo e per cercare di rassicurare i mercati. Ma l'immissione di liquidità non ha impedito alla Borsa giapponese di perdere oltre il 6 per cento nel primo giorno di contrattazioni dopo il devastante sisma dell'11 marzo. Sono crollati tutti i titoli automobilistici (la Toyota ha deciso che gli impianti riapriranno solo mercoledì, mentre Honda e Nissan hanno sospeso la produzione fino al 20 marzo), elettronici e delle raffinerie. Si tratta, in pratica, di tutte le aziende costrette a chiudere i battenti dopo il terremoto. La Banca Centrale - che oggi ha tenuto la riunione mensile del suo comitato esecutivo - ha anche elevato di altri 5.000 miliardi il totale degli interventi autorizzati di sostegno all'economia. All'unanimità i membri del consiglio hanno deciso di mantenere fra lo 0 e lo 0,1 per cento il tasso principale di interesse. L'agenzia di rating Standard and Poor's ha assicurato che il terremoto non avrà effetti immediati sul debito sovrano del Giappone.
Tokyo - dove la terra continua a tremare - si è svegliata stamane in un'atmosfera di surreale normalità, con la gente che ha ripreso le solite attività nel pieno dell'emergenza nazionale. Nelle strade della capitale - informano i reporter delle varie agenzie di stampa internazionali - sembra un lunedì mattina come tanti altri: studenti in uniforme che si recano a scuola, tanti colletti bianchi che raggiungono il posto di lavoro nei quartieri centrali e i corrieri espressi che riforniscono gli esercizi commerciali. Allo stesso tempo, è stato notato qualcuno con la valigia sul marciapiede, pronto ad abbandonare la città, e numerosi gruppi di persone che trasportano da una parte all'altra cartoni di acqua, altre bevande e cibo preconfezionato. Anche oggi è stata registrata una forte scossa di magnitudo 6,3 sulla scala Richter, con epicentro nell'Oceano Pacifico, di fronte alle coste delle prefetture di Miyagi e Iwate e a circa 10 chilometri di profondità. Il movimento tellurico è stato avvertito anche a Tokyo. L'Agenzia meteorologica giapponese ha avvertito che nei prossimi giorni sono possibili ulteriori scosse di assestamento di una magnitudo che potrebbe raggiungere i 7 gradi. La paura è palpabile. L'iniziativa più visibile è quella dell'Ambasciata della Francia, che ha invitato i suoi cittadini a lasciare Tokyo e tutta l'enorme area metropolitana del Kanto. I grandi magazzini della capitale hanno annunciato che anticiperanno la chiusura per risparmiare la sempre più preziosa energia elettrica, che da ieri è stata razionata. Molti Paesi del mondo si sono attivati per sostenere il Giappone. Tokyo ha già accettato l'assistenza di Stati Uniti, Cina, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda e Germania.


(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

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Mentre la comunità internazionale disserta, le truppe fedeli a Gheddafi marciano verso Bengasi

Verso il tramonto della rivolta in Libia


TRIPOLI, 14. Mentre la comunità internazionale seguita a discutere - dopo la riunione sabato della Lega araba al Cairo e dei capi della diplomazia dell'Ue a Budapest oggi a Parigi ci sarà un incontro tra i ministri degli Esteri del G8 - le forze armate fedeli a Muammar Gheddafi hanno ripreso Al Zawiyah a ovest di Tripoli, riconquistato i pozzi petroliferi, accerchiato Misurata e ora marciano verso Bengasi. Nella città di Tobruk poi, annunciano i soldati, in quattro quartieri periferici è stata issata la bandiera verde.
Quattro obici sono caduti oggi vicino all'uscita ovest della città di Ajdabiya che si trova a 80 chilometri a ovest di Brega e a 160 chilometri a sud di Bengasi. I giornalisti dell'Afp presenti sul posto hanno visto due crateri di quattro metri di diametro. Inoltre, riferiscono di molti civili che questa mattina lasciavano Ajdabiya in direzione est a bordo di camionette cariche di valigie, borse e materassi. Il timore è che le forze lealiste sferrino un attacco contro la città per poi muovere in direzione di Bengasi.
Il Governo di Tripoli - che oggi ha offerto un'amnistia ai soldati che hanno disertato passando con i rivoltosi - invita le compagnie petrolifere a tornare a caricare il greggio e i lavoratori degli impianti a tornare al lavoro, e si dice favorevole all'ingresso nel Paese di un comitato dell'Unione africana che aiuti la soluzione della crisi che per un mese ha attanagliato il Paese. Sul fronte diplomatico, Gheddafi incassa il sostegno di alcuni Paesi vicini, e bolla come inaccettabile la risoluzione approvata a maggioranza dalla Lega araba, che ha invitato il Consiglio di sicurezza dell'Onu a imporre una no-fly zone sulla Libia. La Russia vuole maggiori informazioni sull'eventuale zona di non volo mentre la Turchia si è detta contraria a qualsiasi operazione della Nato sul territorio libico. A rendere più incandescente la situazione ci ha pensato anche Al Qaeda, che per bocca di uno dei suoi leader ha esortato gli insorti in Libia a proseguire la lotta.


(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

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La decisione della Corte dei conti statunitense per frenare la corsa del deficit federale

Goodbye Washington


Lo storico biglietto con l'effigie del primo presidente sarà sostituito dalla moneta

WASHINGTON, 14. L'America alle prese con una profonda crisi di bilancio potrebbe dire addio alla banconota da un dollaro e sostituirla con una moneta di uguale valore. L'annuncio shock è arrivato ieri: la Corte dei conti statunitense ha reso noto in un rapporto che il cambiamento permetterebbe un risparmio di 5,5 miliardi di dollari in trent'anni, una cifra considerevole tenuto conto degli sforzi dell'Amministrazione per ridurre il deficit e il debito. Ma, al di là del fatto monetario, c'è anche un cambiamento più profondo, culturale e sociale: è la fine di una tradizione secolare.
Il documento del General Accountability office (Gao), la corte dei conti americana, mette in evidenza come anche Gran Bretagna e Canada in passato abbiano optato per soluzioni analoghe, a dispetto delle critiche e delle polemiche, ottenendo notevoli vantaggi. La moneta offre infatti un vantaggio essenziale rispetto alla banconota: ha una vita più lunga e non dev'essere sostituita. Non saranno più necessarie le ristampe e il Governo federale potrà risparmiare. I primi quattro anni dell'introduzione della nuova moneta - osserva il Gao - comporteranno costi elevati, anche se nel lungo termine i benefici saranno superiori ai costi. Le autorità britanniche e canadesi "ci hanno detto che nell'arco di pochi anni la resistenza pubblica a un tale cambiamento svanisce se le alternative a disposizione del pubblico saranno inferiori, ovvero se si provvederà progressivamente a eliminare dal mercato la banconota da un dollaro". Una transizione di questo genere - mette in evidenza il Gao - "è essenziale per il successo dell'operazione". Per ogni dollaro di carta in circolazione dovranno essere prodotti in media 1,5 monete: queste dovranno essere di più per mantenere i volumi in circolazione corrente. Nel lungo termine - fa sapere il Gao - "questo potrebbe tradursi in una maggiore propensione alla spesa, per il fatto che il consumatore presta meno attenzione alle monetine".
I primi anni saranno i più duri: il Governo dovrà fare i conti con un aumento delle spese a causa della produzione delle monete. Il ritiro del biglietto da un dollaro, inoltre, non è ben visto da molte imprese, preoccupate d'incorrere in spese elevate per ricostituire le riserve liquide. Molti analisti, infine, restano scettici: il biglietto è in circolazione da troppo tempo, difficile abituare gli americani a farne a meno. Dal 1979 al 2009 ne sono stati prodotti 4,2 miliardi. L'operazione è riuscita per l'Unione europea, ma non è detto che funzioni altrove. È anche vero, però, che altri Governi nazionali hanno avuto successo, come ad esempio il Giappone e l'Australia.
Non è la prima volta che il Gao suggerisce alle autorità di mandare in pensione la banconota da un dollaro, diversi tentativi erano stati fatti negli anni scorsi. L'averla avanzata ora, però, potrebbe consentire alla proposta di incassare un maggiore appoggio: l'Amministrazione Obama si trova a dover delineare un piano per risanare i conti pubblici e in Congresso lo scontro con i repubblicani è acceso sulla riduzione delle spese. Gli ultimi dati dimostrano che il prodotto interno lordo (pil) ha accelerato meno del previsto. Pesa l'alto tasso di disoccupazione, il rallentamento dei consumi e i tagli alla spesa pubblica. E la crisi petrolifera rischia di peggiorare la situazione. Negli ultimi mesi le spese del Governo federale sono scese dello 0,2 per cento. Le spese dei Governi statali e locali del 2,4. Le importazioni sono calate del 12,4 per cento e le esportazioni sono salite del 9,6.


(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

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Scontri nello Yemen, in Marocco, in Bahrein e in Tunisia

Ancora proteste nei Paesi arabi

Sisma, tsunami e allarme nucleare: cosa è accaduto e cosa sta accadendo in Giappone

Se Kashima lotta
col pesce gatto


SAN'A, 14. L'effetto domino provocato in tutto il mondo arabo dalla rivolta tunisina del gennaio scorso non accenna a esaurirsi e l'ondata di proteste antigovernative in corso dal Nord Africa al Golfo Persico, ha infiammato di nuovo ieri numerosi Paesi arabi. Ad Aden, capitale dell'ex Yemen del sud e roccaforte del movimento secessionista sudista, un altro giovane è stato ucciso da colpi di arma da fuoco sparati da agenti delle forze di sicurezza, dopo che decine di manifestanti avevano tentato di assaltare un commissariato di polizia, considerato il simbolo del regime del presidente Ali Abdallah Saleh, al potere da 32 anni. A San'a, da vent'anni capitale dello Yemen unificato, cecchini hanno sparato contro migliaia di dimostranti pallottole dai tetti dei palazzi circostanti al campus dell'università statale, dove da tre settimane sono accampati i manifestanti anti che chiedono la caduta del regime. Nella città yemenita sono almeno cento i feriti a causa dell'aggressione armata portata da centinaia di lealisti.
Anche in Marocco decine di persone sono state ferite, alcune gravemente, a Casablanca dopo che la polizia ha cercato di fare irruzione nella sede di un partito di sinistra dove si erano rifugiati gruppi di manifestanti. Nella stessa città, in precedenza un centinaio di persone, per la maggior parte militanti fondamentalisti, erano state disperse ieri dalle forze dell'ordine, che hanno impedito loro di radunarsi e manifestare. Stessa situazione in Bahrein dove decine di persone sono rimaste ferite ieri a Manama durante il tentativo delle forze dell'ordine di bloccare l'accesso dei manifestanti al centro finanziario della città. La casata sunnita dei Khalifa, che domina da due secoli l'arcipelago indipendente stretto tra le coste saudite e quelle iraniane, è da circa un mese sconvolto dalle proteste da parte di migliaia di sciiti (la maggioranza della popolazione) che chiede una profonda riforma costituzionale. Un'ala minoritaria di oltranzisti, invoca invece la caduta della Monarchia e l'instaurazione della Repubblica. Sempre ieri, il re del Bahrein ha ribadito la volontà di aprire un "dialogo sincero con le opposizioni per trovare una via d'uscita alla crisi, affrontando anche temi delicati come la riforma elettorale e le accuse di corruzione e settarismo.
In Arabia Saudita per la prima volta dall'avvio delle mobilitazioni antigovernative in tutta la regione, poche decine di persone si sono riunite ieri nei pressi della sede del ministero degli Interni a Riad per chiedere il rilascio di una serie di attivisti detenuti dalla polizia, due giorni dopo che un massiccio dispiegamento di forze di sicurezza aveva spinto i sauditi a rinunciare alle manifestazioni cui erano stati chiamati via internet, in quella che doveva essere una giornata della collera. Un giornalista dell'agenzia Reuters ha visto una decina di persone davanti al ministero, sotto gli occhi delle forze dell'ordine che però non sono intervenute. Da circa un mese piccole proteste di sauditi sciiti si svolgono nella provincia orientale petrolifera di Qatif - per chiedere la liberazione di prigionieri che, sostengono, sono detenuti senza processo - malgrado il bando imposto alle manifestazioni dalle autorità del regno.
E mentre oggi al Cairo l'alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza dell'Unione europea, Catherine Ashton, e domani il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, avranno colloqui con le autorità egiziane e la Lega araba, in Tunisia le autorità di Gafsa, capoluogo del più importante distretto minerario del Paese, hanno dichiarato il coprifuoco dopo una serie di scontri tra disoccupati. Secondo la televisione di Stato tunisina, l'esercito ha sequestrato molti fucili. Sabato, a Matlaoui, nel corso di scontri tra gruppi di disoccupati, erano rimaste uccise due persone.


(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

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Secondo una tradizione giapponese, i terremoti sono scatenati da Namazu. un enorme pesce gatto che vive nel fango, sottoterra. Il dio Kashima, che protegge il Giappone, lo sorveglia e ne limita i movimenti con una pietra enorme dai poteri sovrumani. Quando Kashima lascia il suo posto di guardia, Namazu si agita provocando violenti terremoti. Alla fine, però, per quanto sia forte Namazu, Kashima riesce sempre a sottometterlo e ridona vita alle città.
In questi giorni, vedendo le immagini sconvolgenti della devastazione del terremoto e del conseguente terribile maremoto, sembra che Namazu si sia scatenato più orribilmente del solito e che la ripresa da questa tragedia non sarà facile per il Giappone.
Si tratta di uno dei maggiori terremoti da quando si è iniziato a misurarne l'intensità, ossia dalla fine dell'Ottocento. Questo che ha colpito il Giappone è al quarto posto (con circa 9 gradi Richter di magnitudo), mentre quello di maggior intensità mai registrato (9,5 gradi) ha colpito il Cile nel 1960. Fortunatamente la maggior parte dei terremoti più forti si sono scatenati in zone scarsamente popolate.
Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, quando la teoria della tettonica a zolle rivoluzionò le scienze geologiche, i geologi non avevano sufficienti basi concettuali per spiegare il meccanismo dei terremoti. Ma, in seguito, quando gli epicentri di numerosi terremoti furono disegnati su un planisfero, prese forma gradualmente l'immagine di un pianeta in movimento, il cui strato più esterno e rigido, la litosfera, è diviso in zolle tettoniche: le sette più grandi coinvolgono i continenti e i bacini oceanici. Queste zolle sono spostate da forze che si originano all'interno della Terra, dove le rocce sono allo stato fuso. Si muovono lentamente, al massimo alcuni centimetri l'anno, scorrendo su uno strato più molle e più plastico detto astenosfera. Entrano, però, in collisione lungo i margini scatenando gli impressionanti terremoti che deformano la Terra.
Osservando in una mappa gli epicentri sismici relativi all'area dell'Oceano Pacifico si può vedere il loro impressionante affollamento lungo i margini della grande Zolla Pacifica. È questa la "cintura di fuoco del Pacifico": una zona segnata da frequenti terremoti ed eruzioni vulcaniche, estesa per circa quarantamila chilometri tutto intorno all'oceano, con una forma che ricorda grossolanamente un ferro di cavallo. È caratterizzata dalla presenza di numerosissimi archi insulari, tra cui il Giappone, fosse oceaniche e catene montuose vulcaniche.
Sulla "cintura" si verifica circa il 90 per cento dei terremoti del mondo (e quindici tra i sedici più violenti), compreso quello che ha attivato, il 26 dicembre 2004, lo tsunami a Sumatra che ha ucciso circa 230.000 persone. Ma su questa cintura si trovano pure la California, l'Alaska, le Filippine, l'Indonesia. Sul versante ovest dell'Oceano Pacifico, però, si ha la peggiore minaccia di terremoto, lì, dove la zolla gigantesca entra in collisione con l'Asia, lungo la fossa del Giappone.
L'arcipelago giapponese ha circa la stessa superficie della California, ma è cinque volte più popolato. La predisposizione del Paese orientale ai sismi fa sembrare la California un paradiso: le isole giapponesi sono, infatti, sconvolte dal 15 per cento dell'energia sismica della Terra. Ogni anno queste terre sono colpite da più di mille scosse percettibili. Molte di esse, per fortuna, si verificano con danni minimi o di lieve entità, anche grazie a misure preventive tecnologicamente avanzatissime. Ma periodicamente, anche qui, i sismi causano catastrofi.
Sono state due le devastanti scosse dell'11 marzo che hanno messo sottosopra la zona nord-orientale del Paese, causando una serie di crolli. Due frustate dalla durata di ben due minuti. La prima delle due scosse - alle 14.46 locali - ha toccato magnitudo 7,9, fino ad arrivare a 9. L'epicentro è stato registrato a una profondità di 24,4 chilometri, circa a 81 miglia da Sendai, nello Honshu. L'ulteriore scossa di magnitudo 7,8 si è verificata alle 15.15 locali al largo di Ibaraki, alla profondità di 80 chilometri.
Lo tsunami successivo, molto più distruttivo del sisma si è scatenato lungo la costa di Sendai portando con sé onde di circa dieci metri d'altezza e penetrando all'interno della costa per chilometri, È passato oltre gli argini, spazzando via ogni cosa nel suo percorso prima di invertire la direzione e trasportando le automobili, le case e altri detriti fuori nel mare.
Non scendiamo nei dettagli di una cronaca che è già ben conosciuta e che si aggiorna di ora in ora. Ricordiamo solo che un terremoto di simili proporzioni - ha generato una potenza trentamila volte superiore di quella del sisma che ha distrutto L'Aquila - avrebbe potuto, a detta degli esperti, annientare una città come Roma. La diffusione di costruzioni antisismiche sull'intero territorio giapponese ha certamente evitato, per quanto riguarda il terremoto, un disastro di proporzioni immani, ma niente può essere fatto per prevenire i danni dello tsunami, se non abitare molto lontano dalle coste.
Inoltre, tragedia nella tragedia, ci sono i danni provocati alla centrale nucleare di Fukushima, una delle 25 più grandi del pianeta. I reattori si sono spenti subito, ma poi devono essere raffreddati e serve un'enorme quantità di acqua per evitare il rischio di surriscaldamento e fusione.
Gli impianti di raffreddamento di alcuni reattori sono stati, però, gravemente danneggiati, per cui le barre d'uranio, non più raffreddate, si sono, con ogni probabilità, fuse emettendo una grande quantità di gas che ha provocato due esplosioni nel primo e terzo reattore della centrale nucleare di Fukushima.
Sebbene fonti ufficiali facciano sapere che nella deflagrazione fortunatamente non è stata danneggiata la vasca del reattore, l'allarme è fortissimo e all'interno dell'impianto fervono i lavori per impedirne il crollo, che comporterebbe una catastrofe di enorme portata. La situazione ha in effetti raggiunto livelli di una criticità tale da rendere necessaria un'evacuazione di massa per le persone che risiedono in una zona di circa venti chilometri intorno alla centrale.
È stato poi decretato lo stato di emergenza per altre due centrali, quelle di Miyagi e Tokai, quest'ultima a soli 120 chilometri da Tokyo. I reattori sono stati spenti in automatico dai sistemi di sicurezza, ma al momento è stato dichiarato ufficialmente il primo stato (su tre) d'allerta, in quanto i livelli di radioattività risultano superiori a quelli consentiti.

di MARIA MAGGI


(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

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Liutai tedeschi a Napoli tra XVI e XVII secolo

Alabarda e mandolino



C'era un tempo in cui i tedeschi emigravano verso sud, oltralpe. Accadeva quando non esistevano né la Germania né l'Italia, ma due popoli che condividevano alcune tradizioni artistiche. Chi se lo poteva permettere si limitava a un viaggio in Italia quasi obbligatorio per dirsi uomini di cultura, altri si muovevano per lavorare.
È il caso di numerosi artigiani che si spinsero verso le città della penisola tra il medioevo e l'età moderna. La loro storia è ripercorsa da Luigi Sisto nel volume Liutai tedeschi a Napoli tra Cinque e Seicento. Storia di una migrazione in senso contrario (Roma, Istituto italiano per la storia della musica, 2010, pagine 224, euro 20) che presenta per la prima volta un'analisi del fenomeno migratorio, ripercorrendo gli itinerari dell'apprendistato di artigiani costretti all'espatrio prima di tutto dai vincoli statutari della più antica corporazione liutaria d'Europa, quella di Füssen, risalente al 1562.
Il racconto è affidato alle voci stesse dei protagonisti, riportate alla luce grazie allo studio di un considerevole numero di documenti d'archivio. Attraverso una fitta rete di corrispondenze documentarie la ricerca apre uno spaccato sul sistema produttivo, offre un'analisi dei costi di produzione e vendita, e indaga le dinamiche della distribuzione delle materie.
Lo studio si concentra inoltre su alcune particolarità dell'insediamento sul territorio cittadino, sugli aspetti legati alla gestione delle attività, senza tralasciare le scelte dettate dalla committenza e dal mercato. Non si tratta di teorizzazioni astratte, ma della ricostruzione dell'attività degli artigiani tedeschi attraverso la precisa identificazione delle botteghe, dei costi di locazione delle frequentazioni sociali, specie quelle religiose vissute nell'ambito della confraternita di Santa Maria dell'Anima. Ampio spazio è dedicato inoltre alla committenza e all'intreccio delle vicende dei liutai con quelle dei più celebri pittori e musici attivi nella Napoli del tempo.
Ma se ognuno ha uno scheletro nell'armadio, anche gli artigiani teutonici dell'epoca non fanno eccezione: gli stessi artisti del legno che arrotondavano il suono degli strumenti con maestria e dedizione, lasciata la pialla servivano come alabardieri al servizio della Guardia vicereale. Specialmente i bavaresi. Alabarda e mandolino, tipico dei tedeschi.

di MARCELLO FILOTEI


(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

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Nel centocinquantesimo anniversario

Costituzione e unità d'Italia


La Carta vede al centro del sistema non lo Stato ma la persona

Pubblichiamo ampi stralci di una conferenza tenuta all'università telematica internazionale Uninettuno dal presidente emerito della Corte Costituzionale italiana.


di GIOVANNI MARIA FLICK

Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, diventava - per grazia divina e per volontà della nazione - re d'Italia, dando inizio così al lungo percorso dell'Unità d'Italia. Da allora sono passati centocinquanta anni e ci stiamo preparando a celebrarne l'anniversario: quale è il modo migliore per ricordare adeguatamente un evento tanto importante per la storia del nostro Paese?
Innanzitutto, credo che l'anniversario debba essere celebrato cercando di evitare la retorica di solito, purtroppo, consueta in queste occasioni; ma cercando anche di evitare l'approssimazione o l'estremismo secondo cui quello che è capitato in questi centocinquanta anni è tutto bello e positivo (ignorandone gli errori e le ambiguità) o, al contrario, è tutto sbagliato e da rifiutare (ignorandone i successi e le conquiste). Riflettendo con spirito critico sulla situazione attuale, qualcuno si domanda addirittura se abbia ancora senso parlare di Unità d'Italia, e se sia ancora possibile e utile guardare al passato, al fine di trarne qualche insegnamento per il presente e per il futuro, secondo la scritta che sta sull'ingresso del campo di concentramento di Dachau: "Chi ignora il passato è condannato a ripeterlo".
Per rispondere a questi interrogativi, vale la pena di dare uno sguardo retrospettivo ai centocinquanta anni trascorsi: una parabola che ha come momento centrale quella Costituzione che oggi è alla base del nostro modo di vivere insieme. Essa è stata preceduta da una unificazione che si è snodata attraverso quattro guerre di indipendenza; tre l'avevano costruita, mentre la quarta (la guerra del 1915-1918) l'aveva consolidata, completando il primo Risorgimento. Ma in quella stessa parabola si collocano anche il fascismo, la seconda guerra mondiale, la sconfitta, la perdita dell'unità nazionale, quando il Paese tornò a dividersi tra il Regno del Sud e la Repubblica Sociale al Nord. Infine, nella parabola si collocano la Resistenza, la guerra civile, il secondo Risorgimento, per giungere alla scelta repubblicana e alla Costituzione, che rappresenta - anche cronologicamente - il momento centrale e attuale della nostra esperienza e della nostra vita unitaria. Soprattutto alla Costituzione - alla sua origine, alla sua scrittura, alla sua attuazione (certamente incompleta) - bisogna quindi volgere lo sguardo, per celebrare questi centocinquanta anni; e vorrei provare a farlo con le parole - quanto mai attuali - di due miei autorevolissimi predecessori.
Il primo di essi, Enrico De Nicola, era un liberale monarchico, che divenne capo provvisorio dello Stato e poi primo presidente della Corte Costituzionale. Alla prima udienza di quest'ultima, nel 1956, disse: "La Costituzione è poco conosciuta anche da chi ne parla con saccenza. Deve essere divulgata senza indugio prima che sia troppo tardi". Il secondo, Leopoldo Elia, anch'egli presidente della Corte, nel 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della Costituzione, ricordava che "essa è profondamente attuale, ha saputo comprendere fenomeni nuovi, non previsti quando venne scritta". Si riferiva a temi come l'ambiente, la privacy, il mercato e la concorrenza, la dimensione europea; temi che la Costituzione ha certamente saputo cogliere, consentendone lo sviluppo, l'attuazione e la tutela, pur senza averli previsti esplicitamente. A queste due affermazioni - significative, in tempi nei quali si dibatte sulla Costituzione domandandosi se sia ormai superata e se, quindi, vada cambiata - vorrei aggiungerne una terza. Oggi, la Costituzione non solo è conosciuta poco, anche dagli addetti ai lavori; non solo è attuale, a sessant'anni dalla sua nascita; ma è anche la chiave per comprendere il significato dell'unità d'Italia e la sua continuità su basi nuove e attuali, attraverso la prosecuzione e l'evoluzione del patriottismo, nel passaggio dal primo al secondo Risorgimento.
È una costruzione, quella proposta dalla Costituzione, che vede al centro del nostro sistema non più lo Stato come durante il fascismo, ma la persona. Essa si snoda nella definizione di una serie di rapporti civili, sociali, economici e politici, in cui la Costituzione sviluppa i diritti e i doveri che sono tra loro strettamente legati. Credo che i valori, contenuti nei principi fondamentali con cui si apre la nostra Costituzione, possano essere efficacemente riassunti nel principio di pari dignità sociale e nel principio di laicità.
Il primo è un valore di contenuto, di cui parla l'articolo 3 della Costituzione, sottolineando il rapporto tra l'eguaglianza formale di tutti di fronte alla legge e la eguaglianza sostanziale, cui è necessario arrivare eliminando le disparità di fatto che impediscono la piena partecipazione di tutti (non solo i cittadini) alla vita pubblica e sociale. La pari dignità sociale rappresenta la chiave di collegamento tra l'eguaglianza e la diversità (il pluralismo), che è un altro dei valori fondamentali della nostra Costituzione, attraverso la solidarietà.
Accanto al valore della dignità, di contenuto, si colloca il valore della laicità; un valore di metodo (il metodo democratico), non menzionato esplicitamente nella Costituzione, ma che la Corte Costituzionale ha desunto da essa con una sentenza del 1989, dopo la modifica del Concordato con la Chiesa Cattolica nel 1984. La laicità va intesa non soltanto con riferimento al rapporto tra Stato e Chiesa e alla dimensione religiosa; ma altresì con riferimento al rispetto reciproco - nella consapevolezza dei propri valori e allo stesso tempo nel rispetto dei valori dell'altro - e al dialogo, in antitesi alla sopraffazione. È, insomma, quello che Bobbio definiva "accettare l'altro per quello che è". È un valore che nasce dall'eguaglianza e dalla libertà religiosa, dal rifiuto del laicismo, ma anche da quello del radicalismo, del fanatismo e dell'intolleranza; è la prospettiva del dialogo nel rispetto reciproco.
Nel primo Risorgimento la nazione si è fatta Stato attraverso il riferimento a una serie di valori come la storia, la cultura, la lingua, il territorio; anche se, in un secondo momento, questo senso di appartenenza alla nazione è stato turbato dal centralismo, dalla burocrazia, da quella che venne definita la "piemontesizzazione" del Sud, dalle carenze dello Stato, fino ad arrivare al rischio dello scollamento tra nazione e Stato. Nel secondo Risorgimento, il tema della patria si è espresso attraverso il riferimento a valori comuni e condivisi, di appartenenza alla comunità: un patriottismo costituzionale che è fondato su valori nuovi, più attuali di quelli su cui si è giocato il primo patriottismo, capaci perciò di gestire la nostra convivenza nel futuro e di fronte ai problemi della globalizzazione.
I valori del primo Risorgimento costituiscono un patrimonio elitario - affidato soprattutto agli intellettuali, attraverso la cultura, la storia, le tradizioni, la lingua - al quale rimase per lo più estraneo o indifferente il popolo, salvo qualche esperienza isolata: la partecipazione popolare alla Spedizione dei Mille, alle Cinque Giornate di Milano, ai moti insurrezionali. Il secondo Risorgimento ci propone, invece, un'altra serie di valori: l'eguaglianza formale e sostanziale; la solidarietà; la democrazia; la sovranità popolare; il pluralismo; il pacifismo; l'unità e l'indivisibilità dell'Italia e nello stesso tempo l'autonomia.
La Costituzione nasce con il secondo Risorgimento, dopo la dittatura, la sconfitta e la divisione creatasi nuovamente nel 1943 in Italia tra il Regno del Sud, in cui continuava a esistere lo Stato grazie alla presenza alleata, e la Repubblica sociale al Nord; quella che venne definita la morte della patria, ma che in realtà è stata all'origine della sua rinascita.
Uno dei fenomeni sui quali ritengo sia doveroso riflettere di più, per capire meglio la situazione attuale, è rappresentato dalla Resistenza: un fenomeno globale, caratterizzato dalla lotta armata partigiana; dalla fedeltà e dalla testimonianza dei militari (si pensi a coloro che morirono a Cefalonia e a coloro che rifiutarono di giurare nei campi di concentramento) e dalla partecipazione della popolazione civile. Non si possono certamente ignorare gli scontri, le violenze, i torti reciproci che hanno caratterizzato la Resistenza. Qualcuno dubita dell'utilità - se non della possibilità - di avere una memoria condivisa. Io credo che occorra almeno raggiungere la consapevolezza della pluralità e della contrapposizione fra le memorie, ferma restando la consapevolezza di quale doveva essere la parte "giusta" con cui schierarsi, in nome della libertà e contro la dittatura e la sopraffazione. Ma occorre altresì cercare di giungere non tanto alla condivisione, quanto piuttosto alla comprensione per chi ha sbagliato in buona fede.
Dopo la Resistenza, seguirono altri eventi determinanti. In primo luogo, vi fu la scelta del 2 giugno 1946, con il referendum e il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica; momenti caratterizzati da tensioni, da accuse di brogli e dal rinnovato contrasto tra il Nord repubblicano e il Sud monarchico, che fecero nuovamente temere (così De Gasperi) per l'unità morale e territoriale del Paese. Il referendum fu una forma di rispetto della volontà popolare, demandando al popolo la scelta tra Repubblica e Monarchia. Al referendum seguì l'Assemblea Costituente, che rappresentò la prima occasione di suffragio universale e di voto alle donne, e giunse a scrivere e ad approvare - con una larghissima maggioranza - la Costituzione in vigore dal 1? gennaio 1948: una costituzione frutto di un compromesso "alto" tra la componente liberale ed elitaria, la componente cattolica, la componente social-comunista.
Una Costituzione che pone al centro la persona, nel suo valore individuale e nella sua proiezione sociale; e che ebbe un duplice, importantissimo significato. Da un lato, rappresenta il rifiuto del passato, della dittatura, del fascismo e dei suoi valori di riferimento (il corporativismo, il bellicismo, l'autarchia, il razzismo); dall'altro lato, rappresenta il rinnovamento attraverso un patto per il futuro, in cui si sperava di raggiungere un nuovo clima che consentisse la convivenza del nostro popolo.
Dopo l'entrata in vigore della Costituzione, i partiti che avevano svolto un ruolo fondamentale nel collegare la società civile a uno Stato da rivitalizzare, hanno finito poi con l'occupare lo Stato e le istituzioni; al tempo stesso sono ritornati alla carica il centralismo e il burocraticismo, che erano già stati uno dei vizi del primo Stato unitario. La Costituzione, in parte non è stata attuata, in parte è stata attuata con molto ritardo, tanto che qualcuno ha parlato di Costituzione tradita. Quei difetti, quelle ambiguità, quei vizi che avevano segnato il primo Risorgimento, hanno segnato anche il secondo.


(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

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Riflessioni e iniziative ecumeniche nel periodo quaresimale

Per una festa
da celebrare insieme



"Celebrare la Pasqua lo stesso giorno rafforza la testimonianza cristiana": con queste parole il Consiglio Nazionale delle Chiese Cristiane degli Stati Uniti (Ncc) ha rivolto un messaggio a tutti i cristiani per esortare le Chiese a trovare una soluzione alle diverse tradizioni che determinano, spesso, una differente data nella celebrazione della Pasqua. Quest'anno l'invito a cercare un accordo assume un significato particolare perché, per il secondo anno consecutivo, tutti i cristiani celebrano la Pasqua lo stesso giorno. Già l'anno scorso il Ncc aveva sollevato la questione con una lettera rivolta a tutti i cristiani, ma i risultati sono stati così deludenti per una reale soluzione della questione, nonostante le tante parole di apprezzamento da Chiese e comunità nel mondo per questa iniziativa, che l'organizzazione ha deciso di rinnovare l'appello per rilanciare l'idea. Infatti per il Ncc sarebbe veramente importante giungere alla definizione di un'unica data per la celebrazione della Pasqua dal momento che questa scelta sarebbe un gesto concreto di quanto già unisce i cristiani, favorendo così una più efficace testimonianza dell'evangelo. Anche nell'appello di quest'anno, il Ncc ha evocato il Documento di Aleppo del 1997, nel quale erano già state indicate le ragioni che dovevano spingere i cristiani a superare le divisioni nella definizione della data della celebrazione della Pasqua. A distanza di tanti anni, tuttavia, dopo tante dichiarazioni successive a favore di una soluzione, permangono delle difficoltà che impediscono di "proclamare la Resurrezione con una sola Voce", che rappresenta il compito primario e irrinunciabile di tutti i cristiani. Secondo il segretario generale della Commissione Fede e Costituzione del Ncc, Antonios Kireopoulos, è motivo di scandalo la moltiplicazione delle date nella celebrazione della Pasqua, tanto da generare confusione dentro e fuori le comunità che devono "proclamare con una sola voce la vittoria della Pasqua della vita sulla morte che è la salvezza del mondo".
La celebrazione della Pasqua nello stesso giorno, come avviene quest'anno, appare così un'occasione straordinaria per mostrare quanto la festa sia importante per rafforzare il cammino verso la piena e visibile comunione della Chiesa, tanto più che essa offre l'opportunità di condividere il tempo quaresimale. Proprio nella Quaresima la pluralità delle tradizioni cristiane, pur assumendo forme diverse, mostra la centralità che i cristiani attribuiscono a questo tempo che è di "prosperità spirituale" come ha scritto l'arcivescovo Demetrios della Chiesa greco- ortodossa dell'America, nella sua lettera enciclica per la Quaresima. Nel movimento ecumenico si è venuta così sviluppando la consapevolezza della necessità non solo di rimuovere gli ostacoli che impediscono di trovare una data comune per la Pasqua e di conseguenza di vivere la Quaresima negli stessi giorni, ma anche di moltiplicare le iniziative che già indicano la comune volontà dei cristiani di testimoniare la loro unità nella Quaresima, con gesti concreti e con uno stile di vita che richiami alla sobrietà evangelica.
Per questo la Ecumenical Advocacy Alliance (Eaa), che raccoglie cristiani di tradizioni e confessioni diverse, ha indicato un programma in sei punti per iniziare la Quaresima con uno stile che accompagni la preparazione alla Pasqua: dal digiuno dal cibo, come gesto simbolico di solidarietà con le persone che soffrono la fame nel mondo; all'impegno a condividere cibo e risorse per il tempo di Quaresima, così da evitare ogni tipo di spreco e rafforzare il senso comunitario, fino alla sottoscrizione di un appello alla Food and Agriculture Organization (Fao) per un piano concreto contro lo sfruttamento indiscriminato della terra e per la definizione dei diritti dell'acqua.
Non è secondario il fatto che questo cammino sia pensato nel tempo che precede la Pasqua, quando i cristiani, ancora di più, sono chiamati, a testimoniare insieme il loro impegno contro la povertà in nome della fedeltà all'insegnamento evangelico.
Nella prospettiva di un comune impegno contro la povertà appare, inoltre, particolarmente significativo l'appello lanciato dai cattolici in molti Paesi dell'Asia, come le Filippine, Hong Kong, la Corea del Sud, il Myanmar, l'Indonesia, il Pakistan, il Bangladesh, lo Sri Lanka, solo per nominarne alcuni, affinché la Quaresima sia vissuta come un tempo per l'assistenza delle persone più povere e più deboli. E si rivolge l'invito alla ricerca, tanto più quando le comunità cristiane vivono in una situazione di profonda incertezza per i recenti attacchi contro la libertà religiosa, alla piena collaborazione con gli altri cristiani, così come avviene in altre occasioni, nella consapevolezza che i cristiani debbano combattere insieme contro la povertà, contribuendo anche all'affermazione dei valori umani là dove sono messi in discussione o negati. Sullo stesso piano, infine, si colloca l'appello per un mondo di pace, nel quale non trovino più posto le armi di distruzione di massa, che costituisce uno dei temi centrali della Quaresima per il movimento ecumenico in Inghilterra.
Da ventinove anni i fedeli delle diverse confessioni condividono l'idea che la Quaresima debba essere un momento di cambiamento profondo e di preparazione spirituale alla vita che è manifestata dalla Pasqua di Resurrezione che i cristiani, tutti insieme, devo proporre al mondo, annunciando la la pace e rifiutando la guerra.
Tra i molti interventi che hanno invitato i cristiani a porre al centro della propria vita la preparazione alla Pasqua, si ricordano le parole del Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I. Nell'omelia per l'apertura della Quaresima il Patriarca - pur rivendicando la peculiarità della tradizione ortodossa nel sostenere e nel guidare i fedeli nella lotta spirituale che i cristiani sono chiamati a compiere per testimoniare l'evangelo - ha ricordato che "si deve essere coraggiosi e forti così da purificare l'anima e il corpo per raggiungere il Regno di Dio che è donato, già in questa vita, a tutti coloro che lo cercano con sincerità e con tutta la loro anima".

di RICCARDO BURIGANA


(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

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Solidarietà delle comunità cristiane con le popolazioni colpite dal sisma

Il Giappone non è solo


TOKYO, 14. Dopo lo choc per una tragedia dalle dimensioni inimmaginabili, si è messa in moto la macchina della solidarietà per prestare soccorso e conforto alla popolazione giapponese. In prima linea la piccola comunità cattolica del Sol levante - appena lo 0,4 per cento del Paese - che ieri, tramite Caritas Giappone, ha lanciato in tutte le chiese un raccolta di fondi da destinare agli sfollati. L'iniziativa, che si è aggiunta alla preghiera per le vittime, coinvolge anche scuole, associazioni e istituzioni cattoliche. Per padre Daisuke Narui, direttore esecutivo della Caritas giapponese, "il nostro compito è mostrare amore e solidarietà. Lavoreremo insieme con organizzazioni non governative di altra estrazione. In questo momento siamo chiamati a dare testimonianza di unità e a essere vicini a ogni essere umano sofferente. Sappiamo già che la risposta dei fedeli al nostro appello sarà molto generosa". La Caritas, ha sottolineato, si è messa in moto immediatamente: "Subito dopo il terremoto e lo tsunami, abbiamo organizzato un incontro di emergenza in teleconferenza".
Tra le diocesi più colpite quella di Saitama. Il vescovo, Marcellino Daiji Tani, ha assicurato che "la Chiesa giapponese risponderà alla tragedia del terremoto e dello tsunami con la preghiera e la solidarietà". Per il presule, "questo evento doloroso ci ricorda che la vita è nelle mani di Dio e che è un dono di Dio. Inoltre, sarà per tutti noi una sfida a mettere in pratica e testimoniare il comandamento dell'amore e della carità fraterna".
Sostegno alla popolazione giapponese è stato assicurato dalla rete di Caritas Internationalis e dalle caritas nazionali, tra cui quella italiana, non appena la Caritas nipponica sarà in grado di mettere a punto un piano di primo intervento. Nel frattempo, la Caritas diocesana di Roma ha lanciato una colletta di solidarietà. Mentre particolare vicinanza arriva dall'Asia. Jinde Charities, la Caritas cinese, ha inviato una cifra iniziale di 10.000 dollari. Altri 50.000 dollari sono stati offerti dall'arcidiocesi di Seoul.
Solidarietà anche dai cattolici tedeschi. Il presidente dell'episcopato, l'arcivescovo di Freiburg im Breisgau, Robert Zollitsch, ha scritto ai confratelli nipponici. "Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi i sopravvissuti avranno bisogno urgentemente del nostro aiuto generoso e fraterno. Chiedo ai fedeli del nostro Paese di sostenere la vostra Chiesa e le persone colpite dalla catastrofe con le preghiere ma anche con mezzi finanziari, cercando, per quanto possibile, di mitigare lo stato di necessità dopo il disastro".
Sentimenti di profondo cordoglio con il popolo giapponese sono stati espressi anche dal segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, Olav Fykse Tveit, che ha invitato i cristiani di ogni confessione a unirsi nella preghiera e nell'aiuto alle popolazioni colpite. "Confidiamo che le Chiese di tutto il mondo sapranno dimostrare la loro solidarietà". Parole di conforto e di vicinanza spirituale anche dal Patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo I, che nell'occasione ha anche diffuso un appello agli Stati perché rivedano la loro politica in favore dell'energia nucleare. "Purtroppo, l'esplosione della centrale nucleare di Fukoshima è sopraggiunta come altra conseguenza tragica del terremoto, rendendo più terribile ancora l'incubo del Giappone. E le sue orribili conseguenze si faranno sentire su scala ancora più ampia".


(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

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Appello del vescovo di Man

Il dramma degli sfollati
in Costa d'Avorio


ABIDJAN, 14. A Man (ovest della Costa d'Avorio) le infrastrutture sociali ed economiche già in sofferenza dal 2002, stanno subendo danni enormi a causa delle violenze esplose per la crisi politica originata dal rifiuto del Presidente uscente, Laurent Gbagbo, di riconoscere la vittoria di Alassane Ouattara, nel ballottaggio presidenziale del 28 novembre 2010. "Nella diocesi di Man, a 586 km da Abidjan, la città di Duékoué - sottolinea monsignor Gaspard Béby Gnéba, vescovo di Man - è stata teatro di scontri inter-etnici. Le violenze hanno provocato diversi danni materiali, la perdita di vite umane e creato numerosi movimenti migratori, interni ed esterni".
In particolare - spiega monsignor Gnéba - "nella sola Duékoué tre luoghi hanno accolto dall'inizio più di trentamila sfollati, dei quali quindicimila nella sola Missione Cattolica di Santa Teresa, dei salesiani. Attualmente diversi sfollati hanno raggiunto i loro parenti nel sud del Paese, ma restano ancora più di ventiduemila sfollati nei centri di Duékoué".
Secondo il presule, le altre località che accolgono le persone in fuga dalle violenze sono: Man, che dopo la partenza di diversi sfollati verso i Paesi vicini (Guinea, Mali, Burkina Faso) accoglie 1.013 persone (606 donne e 407 uomini, di questi i bambini al di sotto dei 5 anni sono 223); Danané, dove 3.800 persone sono accolte in 4 centri e presso delle famiglie; nei villaggi nei pressi di Danané, alla frontiera con la Liberia e la Guinea, sono accolti altrettanti sfollati; nei villaggi vicino Zouan Hounien e Bin Houyé (alla frontiera con la Liberia) vi sono infine 10.800 sfollati.
"Gli interventi d'urgenza sono assicurati dalla Caritas diocesana, con i poveri mezzi di cui dispone, in collaborazione con Unicef e Pam. Tuttavia il sostegno volontario non è sufficiente ad attuare tutto l'aiuto umanitario necessario", dice monsignor Gnéba, che lancia un appello soprattutto per i 7.500 sfollati della Missione di Duékoué.
Di recente, i leader religiosi della Costa d'Avorio, cristiani e musulmani, nel condannare la distruzione di due moschee, avvenuta il 25 febbraio a Yopougon, hanno ammonito tutti a non trasformare la crisi politica e sociale che sta vivendo il Paese in "una crisi religiosa".
In una dichiarazione, il Forum delle confessioni religiose della Costa d'Avorio, constata la triste condizione nella quale è sprofondato il Paese: "All'Ovest la situazione ci può condurre all'incendio generalizzato. Al centro rimane sempre preoccupante. Qui al sud, si assiste ogni giorno al passaggio di persone di tutte le età, che fuggono gli orrori della situazione che conosciamo, alla ricerca di un ipotetico rifugio più sicuro". "Gli ultimi avvenimenti - sottolineano i leader religiosi - ci costringono ancora una volta ad attirare la vostra attenzione sulla piega che certe persone vogliono far prendere al conflitto che è puramente politico. Per questo condanniamo con forza i diversi attacchi ai luoghi di culto. Vogliamo ricordare che i luoghi di culto sono santi e sacri e che, come le ambasciate, beneficiano dello statuto della extraterritorialità, le chiese, le moschee e i templi, sono quindi luoghi inviolabili". I luoghi di culto sono diventati dei rifugi per la popolazione in fuga dalle violenze.


(©L'Osservatore Romano 14-15 marzo 2011)

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