Il Giappone rivive l'angoscia nucleare
A cento chilometri da Tokyo registrati livelli di radioattività dieci volte superiori al normale
TOKYO, 15. Corsa contro il tempo in Giappone per evitare una catastrofe nucleare. Anche oggi - a quattro giorni dal devastante terremoto di magnitudo 9 sulla scala Richter - sono state segnalate due forti esplosioni e un incendio nella centrale atomica di Fukushima, 240 chilometri a nord della capitale.
Dopo una sensibile, ma breve, impennata della radioattività, il pronto intervento degli operai specializzati ha permesso al livello di calare. Secondo fonti governative, il precedente rialzo temporaneo delle radiazioni nell'impianto potrebbe essere stato causato dalle emanazioni delle macerie rimaste contaminate dopo l'esplosione di ieri nel reattore numero due, piuttosto che da una fuoriuscita ininterrotta di particelle radioattive. Nel frattempo, le autorità metropolitane avevano reso noto che anche a Tokyo, dopo un rialzo delle radiazioni al di sopra della norma, nel pomeriggio di oggi se ne stava invece registrando una chiara riduzione. "La situazione sta ritornando alla normalità, ma occorre mantenere una stretta sorveglianza", ha commentato un portavoce dell'assessorato della capitale alla Sanità. A Tokyo, il tasso di radioattività già anteriormente era comunque stato giudicato non pericoloso per l'uomo, a differenza di quello nell'impianto di Fukushima, dichiarato significativamente nocivo per l'organismo.
Livelli di radioattività dieci volte superiori alla norma sono invece stati registrati a Maebashi, città a circa 100 chilometri a nord di Tokyo.
Le esplosioni odierne si sono verificate nei reattori 2 e 4. Nei giorni scorsi erano stati registrati deflagrazioni nei reattori 1 e 3. L'incendio, invece, è divampato nel deposito stagno di combustibile esaurito della centrale. Il gestore della centrale, la Tepco, e l'Autorità giapponese per la sicurezza nucleare e industriale hanno confermato stamane che sono integri i contenitori del nocciolo dei reattori 1, 2 e 3 della centrale di Fukushima. Nonostante ciò, il premier, Naoto Kan, ha detto che la zona di sgombero attorno all'impianto è stata ampliata a 30 chilometri, mentre sono stati fatti allontanare tutti gli abitanti che risiedevano entro un raggio di 20 chilometri da Fukushima. Gli esperti dell'Agenzia internazionale per l'Energia atomica sono quotidianamente in contatto con il Governo nipponico per seguire da vicino l'evolversi della situazione.
Quanto accaduto in Giappone ha avuto immediate ripercussioni in Europa. Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha annunciato la chiusura immediata e per tre mesi dei sette reattori messi in servizio in Germania prima del 1980. Merkel ha deciso inoltre una moratoria di tre mesi sulla decisione dell'anno scorso di prolungare la vita delle centrali tedesche ben oltre la scadenza fissata nel 2001 dall'allora Governo Schröder. Nel mondo, sono 442 i reattori nucleari attivi, concentrati in 29 Paesi. L'Europa occupa un ruolo di primo piano, con 148 impianti in 16 Paesi. La maggiore concentrazione di centrali si trova in Francia, che con 58 è al secondo posto dopo gli Stati Uniti, seguita a distanza dalla Gran Bretagna (19), Germania (17) e Svezia (10). Ai reattori già funzionanti ne vanno aggiunti 65 in fase di costruzione, 8 dei quali in Europa (due in Bulgaria, Romania e Slovacchia, e uno in Finlandia e in Francia). Attualmente, la Cina è il Paese dove è attivo il maggior numero di cantieri, con 27 centrali in costruzione. Intensa anche l'attività nella Federazione russa (11), seguita da India e Corea (5 ciascuno), Bulgaria, Giappone, Slovacchia e Ucraina (2) e, infine, Argentina, Brasile, Finlandia, Francia, Iran, Pakistan e Stati Uniti con una.
Le autorità giapponesi hanno intanto confermato che le vittime accertate del terremoto e del conseguente tsunami sono 2.475, mentre risultano disperse 3.611 persone. Un bilancio, dunque, purtroppo ancora provvisorio, dato che la distruzione seminata dallo tsunami nel nordest del Paese fa ritenere che il conto finale sarà di decine di migliaia di vittime. E a distanza di 96 ore dal sisma, due persone, un uomo e una donna, sono state estratte vive oggi dalle macerie. Un'anziana è stata ritrovata nella città distrutta dal terremoto di Otsuchi, prefettura di Iwate. L'uomo è stato salvato nella città di Ishimaki, nella prefettura di Miyagi, una delle più devastate dal maremoto.
(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)
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Un terremoto anche economico
di LUCA M. POSSATI Hanno ragione gli economisti secondo cui i terremoti in Asia, e soprattutto in Giappone, non sono soltanto fenomeni geologici, ma anche politici. Fenomeni che, nella loro tragicità, acquistano un potente significato simbolico. Il sisma dell'11 marzo ha colpito duramente un'economia in profonda crisi, reduce da un decennio di stagnazione e che solo pochi mesi fa ha perso il titolo di secondo colosso mondiale cedendolo ai rivali di sempre: i cinesi. Ma il terremoto rischia d'innescare una brusca frenata anche per l'intera regione asiatica, aprendo una nuova fase della crisi globale. Difficile dire quali saranno le vere conseguenze.
Per il momento, su tutti i mercati internazionali prevale la paura. La Borsa di Tokyo ha toccato oggi il ribasso record del 14 per cento, chiudendo a meno 10,55 per cento. L'indice allargato Topix ha segnato una caduta del 9,47 per cento: è il calo maggiore dall'ottobre 2008 e uno dei peggiori di sempre. Difficoltà anche a Wall Street, con il Dow Jones che ha ceduto ieri lo 0,43 per cento e il Nasdaq ben oltre lo 0,53. Per rassicurare gli investitori, la Banca centrale giapponese ha immesso nel sistema ulteriore liquidità. Ma l'allarme alla centrale di Fukushima rischia di vanificare ogni misura: dal nucleare dipende un terzo della fornitura elettrica del Paese.
Alla fine degli anni Ottanta Tokyo era il centro motore dell'economia asiatica e correva alla pari con New York. Effetto di una reazione prodigiosa alla sconfitta bellica e alla difficile prova della ricostruzione. I numeri parlano da soli: nel 1950 il pil pro capite era solo il venti per cento di quello americano; quarant'anni dopo, nel 1995, una crescita straordinaria (pari all'otto per cento del pil annuo) portava il dato al 77 per cento. Alla fine degli anni Novanta, tuttavia, l'ingranaggio s'inceppava, fino a registrare tassi di sviluppo fermi allo 0,8 e un debito pubblico alle stelle. Nel trimestre da ottobre a dicembre 2010 il pil giapponese ha subito una flessione dello 0,3 per cento sui precedenti tre mesi e dell'1,1 per cento annuale. A febbraio la produzione industriale ha segnato un rialzo mensile del 2,4 per cento a gennaio, molto al di sotto delle attese degli analisti.
Secondo gli esperti, dopo il sisma dell'11 marzo Tokyo dovrà affrontare perdite per 170 miliardi di dollari: un conto finale superiore a quello del terribile terremoto di Kobe nel 1995. Eppure, non sono pochi gli analisti secondo i quali la catastrofe potrebbe addirittura avere ricadute positive per il Sol Levante. La ricostruzione potrebbe infatti attivare un volano scatenando un "ciclo di ripresa". La storia insegna qualcosa: il disastro di Kobe costò il 2,5 del pil giapponese e nei seguenti sei mesi la borsa crollò del venticinque per cento. Tuttavia, l'attività economica si mostrò molto più resistente e lo spirito nipponico seppe reagire.
(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)
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Chi fermerà il Dragone
Superati gli Stati Uniti che pagano il prezzo della crisi dei mutui
PECHINO, 15. L'avanzata del Dragone non si ferma: dopo il sorpasso del Giappone, che le ha ceduto il secondo posto nell'economia mondiale, la Cina strappa agli Stati Uniti il titolo di maggiore produttore manifatturiero al mondo. Una svolta storica? Forse. Washington deteneva il primato dal diciannovesimo secolo. E tuttavia, le differenze profonde tra le due economie esistono ancora, e si fanno sentire.
A fotografare la nuova realtà è la società Global Insight, che incorona Pechino leader con una produzione manifatturiera pari al 19,8 per cento di quella mondiale a fronte del 19,4 per cento di quella americana. Secondo uno studio, gli Stati Uniti hanno sperimentato una forte accelerazione della produzione nel 2010 dopo la battuta d'arresto subita con la recessione, ma non è bastato: la crescita cinese è stata più forte e "apprezzamento dello yuan verso il dollaro" ha contribuito al successo di Pechino. In termini di produttività, però, gli Stati Uniti primeggiano sulla Cina. "Con 11,5 milioni di addetti - si legge nello studio - il settore manifatturiero americano produce circa lo stesso valore di quello cinese, che vanta cento milioni di addetti". Il calo della produzione manifatturiera statunitense nel 2008-2009 "è in forte contrasto con l'aumento della Cina, la cui crescita della produzione reale è dell'11 per cento nel periodo 2007-2009 e del 20 per cento se misurata in termini nominali". E il rafforzamento dello yuan in rapporto al dollaro amplifica i tassi di crescita, mette in evidenza Global Insight.
La produzione manifatturiera cinese è salita da 1.690 miliardi di dollari nel 2009 a 1.995 miliardi di dollari nel 2010, risultando "più grande dei 1.952 miliardi di dollari degli Stati Uniti, la cui economia è quasi tre volte quella cinese". I settori manifatturieri americano e cinese sono ognuno circa il doppio di quello giapponese, il terzo maggior produttore al mondo, e tre volte la Germania. Alla metà del diciannovesimo secolo gli Stati Uniti si sono affermati come il maggior produttore al mondo e alla fine della seconda guerra mondiale assicuravano la metà della produzione globale. La crescente concorrenza e l'ascesa del terziario hanno indebolito il manifatturiero americano, il cui peso sul prodotto interno lordo è in calo dal 1954 e nel 2009 rappresentava solo l'11,2 per cento della ricchezza prodotta dal Paese a fronte del 28,3 per cento del 1953, quando gli addetti del comparto erano i tre quarti degli occupati americani. La crisi del 2008 ha messo in ginocchio il settore, con il tramonto di General Motors, simbolo dell'industria americana. La Cina potrebbe diventare - secondo alcune stime - la prima economia mondiale nel 2025.
Secondo il premier Wen Jiabao, l'economia cinese continuerà a crescere nel prossimo quinquennio, ma a un ritmo rallentato rispetto agli ultimi anni, con un pil in aumento di "appena" il sette per cento rispetto a risultati a due cifre registrati fino al 2010 (più 10,3 per cento). L'obiettivo primario del Governo è raffreddare un'economia che rischia il surriscaldamento. Una crescita eccessiva, combinata alle recenti fiammate dei prezzi delle materie prime, potrebbe infatti innescare, secondo il Governo, una spirale inflazionistica che metterebbe a rischio la stabilità sociale del Paese. "La rapida crescita dei prezzi - ha sottolineato Wen Jiabao in un recente discorso via internet - ha influito sulla stabilità pubblica e persino sociale; il partito e il Governo hanno sempre considerato una priorità tenere i prezzi a un livello sostanzialmente stabile". Un'economia su di giri, sommata alle impennate delle materie prime energetiche e degli alimentari (più 10,3 per cento a gennaio), potrebbe però rappresentare una minaccia. Da qui la volontà di frenare la crescita degli ultimi anni.
A creare nuovi problemi per il colosso asiatico potrebbe essere la siccità, che sta minando il raccolto del grano. Secondo una dichiarazione di un esperto della Fao ottenuta dal "New York Times", se dovesse tornare la pioggia in tempi brevi almeno una parte dei raccolti potrebbe ancora essere salvata o si potrà procedere con semine tardive. Comunque sia, il Paese possiede uno stock di 55 milioni di tonnellate di grano, circa la metà del suo fabbisogno nazionale annuale. E visto che i due terzi dei terreni arabili dovrebbero essere produttivi, si potrebbe decidere di dar fondo alla riserve in modo da ridurre l'impatto della siccità.
(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)
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L'Egitto crocevia
della diplomazia internazionale
Alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna a Roma Nel raffinato mondo dei preraffaelliti
Il Belpaese era il loro filtro magico attraverso il quale ripensare il linguaggio estetico
IL CAIRO, 15. Importanti missioni in Egitto dei capi della diplomazia dell'Unione europea e degli Stati Uniti, Catherine Ashton e Hillary Clinton. L'alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune dell'Unione europea si è incontrata ieri con il segretario generale della Lega araba, Amr Moussa, con il quale ha discusso anche della crisi in Libia sottolineando che sulla possibile istituzione di una no-fly zone auspicata dal vertice della Lega araba, l'Unione europea sta "aspettando la decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite".
In precedenza la Ashton ha incontrato il capo del Consiglio supremo delle forze armate egiziane, maresciallo Hussein Tantawi, che svolge funzioni di presidenza della Repubblica, e il ministro degli Esteri egiziano, Nabil El Arabi, dichiarando che da parte dell'Ue è stato espresso un "approccio di collaborazione con i Paesi della regione, dei quali vogliamo essere partner" nella fase di cambiamento attuale. Sostegno all'economia, attraverso investimenti e donazioni, sostegno alla società civile, per lo sviluppo della democrazia e il rispetto dei diritti umani, sono uno dei punti chiave del rapporto che l'Europa intende sviluppare con i Paesi della regione, garantendo anche un buon accesso al mercato europeo. Ashton ha inoltre affermato la necessità di mantenere un dialogo con Unione africana e Lega araba anche su questioni relative alle rivolte nei Paesi arabi.
Oggi è giunta al Cairo da Parigi - dove ha partecipato al vertice del G8 - il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, per una visita di due giorni nel corso della quale incontrerà i componenti del Consiglio supremo delle forze armate e il ministro degli Esteri egiziano. Intanto, sono 45 milioni gli egiziani che avranno il diritto di votare nel referendum fissato per sabato 19 marzo sugli emendamenti alla Costituzione elaborati da una commissione nominata dal Consiglio supremo delle forze armate. Lo ha reso noto il giudice Mohamed Atteya, capo della commissione incaricata della supervisione alle operazioni di voto, che sarà svolta da 16.000 giudici.
Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, si recherà in visita in Tunisia il prossimo fine settimana per parlare con le autorità del Paese dopo la rivolta dei gelsomini. Amor Nekhili, portavoce dell'Onu in Tunisia, ha fatto sapere che Ban Ki-moon avrà dei colloqui con il presidente ad interim Foued Mebazaa, il Premier ad interim Beji Caid Essebsi e il ministro dell'Interno Farhat Rajhi. Al termine della sua missione, domenica, il segretario generale dell'Onu si recherà in Egitto.
Nel frattempo, non si fermano le proteste nello Yemen, dove tre soldati sono rimasti uccisi e 44 manifestanti sono stati feriti negli scontri avvenuti nella provincia settentrionale Al Jawf, nella zona centrale di Marib e ad Aden, mentre quattro giornalisti, due inglesi e due statunitensi, sono stati espulsi dal Paese. Ad Al Jawf, al confine con l'Arabia Saudita, la tensione è salita quando la folla ha tentato di assaltare un edificio municipale. Due soldati e un ufficiale sono rimasti uccisi, portando così a trenta il bilancio delle vittime dall'inizio delle proteste.
(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)
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di SANDRO BARBAGALLO Era molto tempo che alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna non si visitava una mostra così emozionante o, forse, così semplicemente bella. La rassegna è dotta quanto sofisticata ed è stata amorosamente ideata e curata da Maria Teresa Benedetti, una storica dell'arte che nel tempo si è rivelata specialista insuperata dei preraffaelliti, sui quali ha già scritto e pubblicato saggi memorabili fin dal 1981.
Per riflettere adeguatamente sui maestri presenti nella rassegna, appartenenti al gruppo dei preraffaelliti, bisogna ricordare il periodo in cui sono vissuti: Edward Burne-Jones (1833-1898), Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), Frederick Leighton (1830-1896), Ford Madox Brown (1821-1893), John Ruskin (1819-1900), Lawrence Alma-Thadema (1836-1912). Come si può notare avevano tutti circa vent'anni quando si riunirono in una confraternita a Londra nel 1848. Intorno a loro stavano esplodendo le prime ricerche fotografiche e quelle sul colore, che sarebbero state il vessillo degli impressionisti. Ma loro erano concentrati in un proprio mondo privato, raffinato ed erudito, in cui l'Italia rappresentava una sorta di filtro magico attraverso il quale ripensare l'arte, esplorarla, farla diventare il luogo privilegiato dell'ispirazione.
Comunque lo scopo della confraternita si basava sull'opposizione all'arte accademica e sulla ricerca del senso etico dell'operare dei primitivi. Al tempo stesso aspiravano a esprimere i contenuti della modernità. Il loro stile è caratterizzato da un linguaggio sempre in bilico tra l'amore per materiali storici, arcaizzanti e suggestioni romantiche. Il termine preraffaellita esprime il rifiuto per Raffaello e per tutta quell'arte che per realizzare la "bellezza" aveva tradito la "verità".
Il taglio originale della rassegna romana intende sottolineare un importante problema storico-artistico che sarà fondamentale per gli esiti del simbolismo europeo.
Come si sa alla fine del Settecento, a causa della Rivoluzione francese e delle campagne di conquista napoleoniche, ci fu un'insolita diffusione di opere d'arte italiane in Inghilterra. Cos'era accaduto? Clero, aristocrazia, grandi collezionisti, mettevano al riparo i propri tesori trasferendoli a Londra. L'Inghilterra però non era preparata a riceverli, perché non esisteva ancora la National Gallery. Così la disponibilità di tanti capolavori creò un boom del mercato artistico internazionale, di cui ovviamente Londra divenne il centro. Tutto questo per spiegare come si diffuse in Inghilterra un amore quasi irrazionale per l'arte italiana. I preraffaelliti avevano però anche altri ispiratori. Si trattava dei Nazareni, monaci-artisti che nel 1810, provenienti da Vienna, si stabilirono a Roma coltivando ideali primitivi e favorendo un interesse per il soggetto e per la descrizione di una pietas in linea con una certa restaurazione religiosa che era nell'aria. La loro presenza in ambito inglese costituì poi un ulteriore contributo all'affermarsi del concetto di arte tipico dei preraffaelliti.
Tra il 1850 e il 1860 opererà in Europa un nutrito gruppo di artisti, riconoscibili per un vago medievalismo di temi e di gusto, per la tecnica da lente di ingrandimento sui particolari, per l'uso dei colori puri, per la tendenza a trattare in modo prosaico soggetti poetici, storici o religiosi. Nonché per la scelta di illustrare episodi tratti dalle pagine più commoventi di Charles Dickens o Anthony Trollope.
Del resto il mondo preraffaellita e la sua arte si nutrono continuamente dei versi di John Keats, Percy B. Shelley, Robert Browning, Alfred Tennyson, per non parlare dell'ombra lunga di Dante, di Geoffrey Chaucer, di Shakespeare.
L'impressione generale che si ha girando per le sale, oltre al senso di armonia che trasmette lo splendido allestimento, osservando come interagiscono le opere dei preraffaelliti e dei nostri primitivi, è che il visitatore impari la grammatica di questi pittori senza accorgersene. Si scopre così l'importanza della linea di contorno, il colore puro, la ricerca di uno spazio simbolico e tutte le suggestioni fondamentali del loro linguaggio. Linguaggio, non dimentichiamolo, che si contrappone sempre al virtuosismo compositivo e alla sensualità della resa cromatica della tradizione tardo rinascimentale.
La mostra si apre con una sala dedicata al modo in cui venne diffuso il gusto dei primitivi italiani, attraverso le cromolitografie della popolare Arundel Society, nonché attraverso tutta una serie di incisioni stampate in migliaia di copie. Queste immagini invasero l'Europa e contribuirono alla formazione di un gusto e della sua suggestione formale.
Certo, in una rassegna di capolavori, molti dei quali ancora inediti in Italia, è arduo, se non imbarazzante, preferire l'uno all'altro. Ci siamo attenuti alla regola di parlare di quelli a nostro giudizio più rappresentativi.
Tra questi spiccano le opere di Dante Gabriel Rossetti. Quest'artista nel tempo è stato considerato una personalità chiave nella svolta del gusto che conduce all'estetismo. Assorbito in una sua cifra stilistica piuttosto stravagante, Rossetti usa il ritratto cinquecentesco per rivisitarlo e reinventarlo. Una manica da Raffaello, uno sguardo enigmatico da Leonardo, un rapporto cromatico da Tiziano, ed ecco una sontuosa rappresentazione dell'eterno femminino.
L'interesse dei preraffaelliti per controverse figure femminili, specie se collegabili a eventi delittuosi, risale al 1860, quando sia Rossetti che Burne-Jones frequentavano l'enigmatico poeta Algernon C. Swimburne, appassionato di vicende scabrose e soprattutto della vita di Lucrezia Borgia. L'amicizia del pittore Rossetti con il poeta lo spingerà a interessarsi a sua volta alla vita di Lucrezia, a cui nel 1860 dedicò un ritratto memorabile. Esposta in questa rassegna, l'opera è su carta, a matita e acquerello, con una tecnica di raro virtuosismo. Dal fondo scuro risalta l'ovale pallido intenso della donna, mentre la massa di capelli fiammanti la incornicia come un cappuccio. Il damasco del vestito, invece, si accende qua e là di bagliori dorati, splendidamente resi con i pastelli.
Per ritrovare l'influenza del cinquecento veneziano conviene avvicinarsi a un altro ritratto di donna, sempre di Dante Gabriel Rossetti. La Venus Verticordia è un ritratto a olio su tela dipinto a più riprese tra il 1864 e il 1868. Il ritratto è stato ispirato al pittore da una sconosciuta incontrata per le vie di Londra e poi adattato alla fisionomia di altre dame. La femminilità opulenta dell'immagine risente chiaramente della pittura di Tiziano. Il quadro inoltre è affollato di rose e caprifogli - pare che l'artista abbia speso un patrimonio per mantenere i fiori sempre freschi durante il tempo di posa - ma anche di simboli più o meno misteriosi. Un uccellino blu, farfalline intorno all'aureola, la freccia in mano a Venere che allude sia a Cupido che al dardo avvelenato che uccise Paride.
Ruskin criticò aspramente l'eccessiva sensualità di quest'opera, mentre ci fu qualcuno che avrebbe voluto acquistarla solo a patto che ne venisse coperta la nudità. Stranamente nessuno si soffermò invece ad apprezzare l'eccezionale abilità con cui l'artista era stato capace di rendere la delicatezza dell'incarnato a contrasto col colore di fiamma dei capelli e al senso vellutato dei petali dei fiori. Fiori che Ruskin, nel suo perbenismo ottico, definì "mirabilmente dipinti, ma grandiosi nella loro volgarità".
Ci interessa invece segnalare un'altra splendida opera, questa di Edward Burne-Jones, che è purtroppo snaturata dalla riproduzione in un catalogo non all'altezza della mostra, tanto che si fatica ad abbinare le schede alle illustrazioni, spesso troppo piccole e troppo affollate.
Comunque, ricostruendo a memoria La morte di Medusa, II (1881), una gouache su carta di notevoli dimensioni, salta all'occhio la tecnica violenta, costruita con pennellate gridate, gestuali alla maniera espressionista, completamente diverse dal modo elegante e composto con cui si presentano tutte le opere della confraternita. In questo quadro i corpi sono ispirati a quelli michelangioleschi del Giudizio universale. Di particolare suggestione risultano le ali delle Gorgoni, riprese dallo studio di un uccello rapace. La scena rappresentata è stata ispirata da una descritta nel poema di William Morris e ci appare, oltre che di uno straordinario dinamismo, anche misteriosamente drammatica.
Per concludere questa rapida carrellata su una mostra che invitiamo a visitare, ci sembra necessario soffermarci sulla personalità di John Ruskin. Scrittore, pittore, storico dell'arte, ebbe un ruolo cruciale nella formazione del gusto e dell'estetica dell'Inghilterra vittoriana ed edoardiana. A lui si deve anche la spinta all'educazione italiana dei pittori della Confraternita preraffaellita.
La prima uscita pubblica di Ruskin come critico d'arte fu quando prese le difese di William Turner (1775-1851) che aveva collezionato giudizi negativi da parte dei suoi contemporanei. Ruskin invece esaltò la pittura di Turner, non tanto perché vi intuisse le premesse per quella che sarebbe stata l'arte impressionista, ma perché in lui trovava un sentimento della natura e altri elementi "etici" che sarebbero stati alla base delle sue teorie artistiche. Per il resto Ruskin ispirò persino Proust e la sua Recherche e pochi sanno che a lui si deve la fondazione del movimento Arts and Crafts con William Morris.
Di Ruskin sono esposti in mostra anche acquerelli di soggetto italiano. Peccato che questo grande intellettuale fosse vittima dell'eccessivo moralismo dell'epoca vittoriana. Basta ricordare cosa scrisse nella sua opera più celebre, The Stones of Venice (1853), a proposito dell'architettura palladiana: "Pagana di origine, presuntuosa e irriverente nella sua prima riesumazione delle forme antiche, paralizzata nel suo invecchiare, è un'architettura inventata, a quanto sembra, per fare dei plagiarii dei suoi architetti, degli schiavi dei suoi artigiani, e dei sibariti dei suoi abitatori. La prima cosa che si debba fare è bandirla e scuoterne per sempre la polvere dai nostri piedi". A noi non resta che congratularci del fatto che nessuno l'abbia preso sul serio, compresi i suoi compagni di confraternita.
A conclusione della rassegna si possono ammirare alcune opere di Giotto, Crivelli, Carpaccio, Botticelli e altri artisti italiani tra quelli che più hanno influenzato il gruppo inglese.
Imperdibile la sezione di artisti italiani di fine Ottocento. Notevole, in questo gruppo, è il tondo di Giulio Aristide Sartorio, La Madonna degli Angeli (1895), in cui è evidente il debito con il Magnificat (1481) di Botticelli. Né però si può ignorare che sia stato concepito dopo che Sartorio, nel 1894, si recò in Inghilterra, dove approfondì la pittura di Rossetti.
Nei personaggi rappresentati è identificabile la principessa Maria d'Hardouin, moglie di Gabriele D'Annunzio, nella parte della Vergine, mentre il loro figlio Gabriellino in quella di Gesù. Del resto Gabriele D'Annunzio attinse a piene mani nella descrizione che fa nelle sue dame-amanti, sia nel Piacere che nel Fuoco, a tutta l'iconografia legata ai Preraffaelliti. A fine Ottocento la rivelazione dell'arte dei preraffaelliti ha spinto gli artisti italiani - Costa, Sartorio, De Carolis, Previati - a recuperare la tradizione artistica del Rinascimento in cui ritrovarono la matrice culturale e ideologica dell'identità italiana.
(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)
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Ma il patriottismo non è retorico
Aldo Cazzullo, inviato del "Corriere della Sera" e scrittore, in Viva l'Italia. Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione (Milano, Mondadori, 2010, pagine 157, euro 18,50) presenta centocinquanta anni di storia italiana attraverso le vicende di protagonisti, celebri o dimenticati, dell'epopea risorgimentale e della seconda guerra mondiale. In quest'ottica resta incompresa la figura di Pio IX, mentre emergono vividi i tratti di molti cattolici italiani in una narrazione partecipe e coinvolgente. Dal libro pubblichiamo la prefazione e, sotto, uno stralcio del quarto capitolo.
di FRANCESCO DE GREGORI Proprio mentre si apprestano a celebrare i centocinquant'anni della fondazione del loro Paese, gli italiani sembrano essere sempre meno interessati a conoscere e a riconoscere la loro italianità. Eppure non sono mancati nella storia di questi centocinquant'anni i momenti in cui il senso di appartenenza civica alla comunità nazionale, e addirittura un vero e proprio sentimento d'amore per la patria, sono emersi ad accompagnare e a sottolineare gli avvenimenti del Paese, soccorrendolo nei momenti di crisi.
Quando scrissi la canzone Viva l'Italia mi era sembrato naturale ricordare - anche se con un mezzo così elementare come può essere qualcosa che dura poco più di tre minuti - quella forte risposta collettiva che l'Italia seppe dare al terrorismo alla fine degli anni Settanta. Nonostante ciò la canzone, che pure era piena di chiaroscuri e - credo - non del tutto retorica, non piacque a chi nel pubblico aveva sempre considerato i valori patriottici un retaggio reazionario, patrimonio della destra e dei "fascisti" tout court. A nulla valeva ricordare, come feci allora con un mio amico assai politicamente corretto, che la maggior parte delle lettere dei condannati a morte della Resistenza si concludevano proprio con queste parole di invocazione e di consapevole memoria. Niente da fare, nonostante tutto Viva l'Italia imbarazzava. Dire o anche solo pensare questa semplice frase poteva essere spiazzante. Rimandava nel migliore dei casi a un Risorgimento polveroso, studiato in fretta in vista dell'esame di maturità e altrettanto frettolosamente archiviato. O magari alla parata militare del 2 giugno, o alla fanfara dei bersaglieri. A nulla di troppo contemporaneo, insomma. Eppure, in un bellissimo film di grande successo popolare come La grande guerra c'è molta patria. Due improbabili eroi, che per tutta la durata della pellicola sembrano spalmati sui peggiori stereotipi dell'italiano furbo e un po' vigliacco, si fanno fucilare dagli austriaci pur di non tradire il loro paese. E il contractor Fabrizio Quattrocchi (e qui non siamo in una fiction), prima di essere giustiziato in Iraq da un gruppo terroristico, grida una frase - "Adesso vi faccio vedere come muore un italiano" - che potrebbe essere l'invocazione di un eroe risorgimentale o di un martire di via Tasso. Quattrocchi verrà insignito di medaglia d'oro al valor civile, e questa decisione sarà accompagnata da incomprensibili e indegne polemiche.
Se ci chiediamo il perché di tutto ciò, le risposte possono essere infinite e anche vagamente imbarazzanti. Certo è mancato nella storia del nostro Paese l'equivalente della Rivoluzione francese, quel momento fondativo in cui popolo, Stato e nazione si autoidentificano e scrivono insieme le proprie leggi. Anche la Resistenza, che sta alla base della nostra attuale Costituzione e che pure fu guerra di liberazione nazionale, non sempre condivise in maniera univoca il progetto di una nuova Italia. Né mancarono episodi come quello di Porzûs in cui la Resistenza tradì se stessa insieme ai valori della patria.
Se poi vogliamo addentrarci nell'antropologia spicciola dei luoghi comuni, dobbiamo riconoscere negli italiani una buona dose di indifferenza verso tutto ciò che è pubblico. In noi sembrano convivere da sempre una ferma volontà di distinguerci e dividerci a ogni costo e uno scetticismo furbo e indolente verso ogni valore collettivo. Gli italiani sono fatti così, si dice. Affermazioni risapute e forse non del tutto vere, e che però non possiamo eludere nel momento in cui ci interroghiamo sulla nostra storia e sul nostro carattere di cittadini. O, se nessuno si scandalizza, di patrioti.
La nostra storia: ma davvero dobbiamo rassegnarci a una visione di noi stessi così negativa, davvero dobbiamo ringraziare solo il famoso stellone per tutto ciò che di straordinario l'Italia rappresenta ancora oggi agli occhi del mondo? In realtà gli uomini che combatterono per l'unità d'Italia furono in larga parte coraggiosi e lungimiranti, ebbero fin da allora un'idea attualissima (seppure anche in quel caso non sempre omogenea) del nuovo Paese che stavano disegnando. Sacrificarono generosamente la loro esistenza, e in molti casi la loro vita, a un ideale di Stato democratico che nella sua compiuta realizzazione collocò centocinquant'anni fa l'Italia a pieno titolo nel novero delle moderne nazioni europee.
E la stessa casa Savoia non seppe forse rinunciare in qualche modo a se stessa in nome di un sogno che sembrava impossibile, e combattere insieme al popolo per la riunificazione di un'Italia che si voleva ridotta a pura espressione geografica? E non fu la Grande Guerra il banco di prova di una nazione ancora giovane che pure seppe combattere con coraggio e assurgere al ruolo di grande potenza? Così come il Paese seppe successivamente ritrovare e ricostruire se stesso dopo la catastrofe fascista e la seconda guerra mondiale per affrontare a testa alta le nuove prospettive che si aprivano a metà del secolo scorso.
Certo, non viene in soccorso della nostra autostima scoprire nel libro di Aldo Cazzullo che forse il nostro inno nazionale è frutto di un plagio, che la contessa di Castiglione non fu esattamente una Giovanna d'Arco, che non sempre gli uomini del Risorgimento seppero essere, in pubblico e in privato, all'altezza del loro ruolo. Ma veramente possiamo ricondurre la frastagliata e travagliata storia del nostro Risorgimento ai suoi aspetti meno nobili? O, peggio ancora, imputargli, come qualcuno tenta di fare, addirittura il "genocidio", culturale e non solo, delle popolazioni del Mezzogiorno? E la Resistenza va davvero riletta al contrario, confondendo ruoli e valori opposti, ricomponibili forse sul piano umano ma certamente non su quello del giudizio storico definitivo?
Ma nell'Italia di oggi, dove il tema stesso dell'unità del Paese è oggetto di discussione e una crisi profonda sembra attraversare tutte le istituzioni, forse dovremmo ricordarci che non è una buona idea quella di buttare via il bambino con l'acqua sporca. Specchiarci in noi stessi e ripercorrere le tappe che ci hanno portato fin qui può essere a tratti difficile e non sempre gratificante; ma una lettura disincantata (e non necessariamente priva d'orgoglio) della nostra breve storia d'italiani dobbiamo permettercela. Forse non basta a risolvere i problemi che ci stanno davanti, ma serve
(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)
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La spiritualità di Marone
dal silenzio alla carità
di MAURIZIO MALVESTITI Nella festa di san Marone si è compiuto quest'anno il giubileo per i milleseicento anni della nascita al cielo del fondatore della Chiesa maronita, indicata dalla tradizione storica attorno all'anno 410. Qualche decennio più tardi Teodoreto di Ciro dedica l'intero capitolo sedicesimo della sua Historia religiosa alla vita del "monaco prete" a cui Giovanni Crisostomo aveva indirizzato una lettera. Nelle settimane scorse l'evento giubilare è stato celebrato da tutte le comunità maronite del mondo: sono numerose in Libano, in Siria e in altri Paesi mediorientali, come in ogni continente, con vescovi e sacerdoti della propria tradizione ecclesiale impegnati in un ammirevole servizio pastorale.
La conclusione del giubileo ha coinciso con la presentazione da parte del patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Nasrallah Pierre Sfeir, della rinuncia all'ufficio patriarcale, accettata da Benedetto XVI al termine delle celebrazioni romane.
Nella memoria liturgica di san Marone, che ricorre il 9 febbraio, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, ha preso parte a una divina liturgia nella chiesa dedicata al santo presso il Collegio maronita: "Un eremita dedito esclusivamente al Signore è divenuto padre e fondatore di una venerabile Chiesa. E la sua Chiesa ha voluto unire al nome di Antiochia, città-madre della propria tradizione teologica, liturgica e spirituale, quello del padre-fondatore per beneficiare dei frutti della sua santità". Così il porporato ha esordito nell'omelia, ricordando di avere anticipato la preghiera per tutti i maroniti nella visita del gennaio scorso al luogo della sepoltura di san Marone, nei pressi di Aleppo, in Siria. Riferendosi alla prevista collocazione di una statua del santo in una nicchia esterna della basilica Vaticana, il cardinale Sandri ha detto che "quel giorno i maroniti, senza distinzione alcuna, si sentiranno col Vescovo di Roma nel cuore della santa Chiesa cattolica, madre e maestra che essi hanno sempre amato lungo tutti i secoli della loro storia. Grazie alla comunione con la Chiesa cattolica, nella certezza di essere in comunione col Signore Gesù, essi riceveranno un forte incoraggiamento a vivere, annunciare e celebrare la fede cristiana. L'amata nazione libanese attende dai figli di san Marone una testimonianza di fraternità ecumenica e interreligiosa. È questo - ha sottolineato il prefetto della Congregazione per le Chiese orientali - il mandato che il Papa vi affiderà: costruire unità, solidarietà e pace in Libano e in tal modo essere sale della terra e luce del mondo. Siate vicini a quanti danno la vita per rimanere fedeli a Cristo, mai dimenticando che il sangue di martiri è sempre seme di nuovi cristiani, e nella certezza che mai si potrà fermare la potenza umile di Dio, che è Cristo crocifisso e risorto. Ricordate cari maroniti - ha concluso il porporato - la responsabilità storica che avete nella custodia del cristianesimo in Oriente. Siate mediatori di pace e di civiltà in nome di Cristo. Il suo nome non sia mai cancellato dal Libano. La sua santa Croce continui a ispirarne il progresso religioso e civile".
La benedizione della statua si è svolta il 23 febbraio 2011, impartita da Benedetto XVI, accolto da una folta delegazione di libanesi, guidati dal cardinale patriarca Sfeir e dal presidente della Repubblica, Michel Suleiman, cristiano-maronita. Al rito ha fatto seguito la concelebrazione eucaristica nella basilica di San Pietro presieduta da Sfeir, che il cardinale Sandri ha salutato come erede spirituale di san Marone e ringraziato per l'opera apostolica svolta con zelo e determinazione tra innumerevoli tribolazioni. Il prefetto ha esteso il ringraziamento al presidente del Libano, per aver sottolineato con la sua presenza "il ruolo di san Marone e dei fedeli della sua Chiesa nel forgiare l'identità storica dell'intera nazione libanese". E ha poi osservato che "la statua marmorea potrebbe significare solo una realtà immobile, pur nella sua bellezza, e un motivo di orgoglio per tutti i libanesi", auspicando piuttosto che essa richiami "nei suoi tratti artistici una realtà vivente: la Chiesa maronita. Ancorata in Cristo e nel suo Vicario in terra, essa possa rinascere sempre per l'annuncio del Vangelo a gloria di Dio e a bene delle anime. Nella comunione con tutte le sue membra possa essere testimone dell'amore di Dio - ha concluso - contribuendo ancora di più con i cristiani e i musulmani a sostenere la vocazione di pace e di riconciliazione propria del Libano in Medio Oriente e nel mondo".
Dal 24 febbraio al 2 marzo 2011, il prefetto della Congregazione per le Chiese orientali ha preso parte alle celebrazioni giubilari nella diocesi statunitense di Our Lady of Lebanon of Los Angeles dei Maroniti su invito del vescovo Robert Joseph Shaheen. Tre le tappe della visita. La prima è stata Saint Louis, dove ha inaugurato l'Heritage Maronite Institute. "Cominciare dalla dedicazione di questo centro - ha affermato per l'occasione il cardinale Sandri - pone la mia visita sull'onda della memoria. Come ha scritto il vescovo, l'istituto si propone di valorizzare la storia dei maroniti in America attraverso l'educazione, la ricerca e la custodia del patrimonio maronita. Non c'è maturità umana e cristiana senza educazione. Il compito della famiglia, della parrocchia, dell'eparchia e della Chiesa intera, come della stessa società, è l'educazione. Ed essa ha bisogno del passato, nella sua profondità vitale, per progettare il presente e il futuro. Si impongono perciò la ricerca e la memoria", ha sottolineato il porporato, il quale ha ribadito che "senza memoria non c'è futuro" e che "le comunità vanno preservate dall'oblio della propria identità". A ispirazione in tale compito ha indicato il patrono: "San Marone ha la capacità di educarvi poiché è la vostra memoria e il riferimento a lui vi custodisce nell'autenticità cristiana".
A Houston, il prefetto ha incontrato la comunità di Nostra Signora dei Cedri del Libano, guidata dal parroco, padre Milad Haghi, missionario libanese maronita. Inaugurando il nuovo centro pastorale dedicato a George Mouawad, ha spiegato che, "se una comunità è veramente cristiana, deve passare dal culto divino alla pastorale familiare, giovanile e sociale, alla pastorale vocazionale, ecumenica e interreligiosa, alla missionarietà. Il culto a Dio è la sua priorità assoluta, ma è un dono da offrire alla storia degli uomini e delle donne in ogni tempo e in ogni luogo per santificarli e orientarli al regno di Dio".
Successivamente, nella liturgia concelebrata dal cardinale Daniel N. DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston, dal vescovo Shaheen e dal vescovo di Nuestra Señora de los Mártires del Líbano en México, Georges M. Saad Abi Younes, il prefetto Sandri ha tratteggiato un profilo di san Marone: "Egli fu l'uomo del silenzio e della preghiera. Fu l'uomo della penitenza e della carità. Per questo è motivo di speranza, che per noi è incrollabile perché radicata in Cristo Gesù". Ha poi sviluppato i primi due aspetti, chiedendosi: "Perché andavano in tanti da san Marone? Per ascoltare l'eloquenza del silenzio! Perché avvertivano dal silenzio il suo dialogo di fede e di amore con Dio. Erano affascinati dal suo silenzio perché comunicava il fremito della parola di Dio che è amore. Sembra un paradosso per il nostro tempo, che è soffocato da fiumi e fiumi di parole. Il suo silenzio era speciale: si era fatto preghiera, ossia unione profonda con Dio nell'amore. Egli convinceva i suoi ascoltatori perché era diventato una preghiera vivente, attingendo ardore dal silenzio del Crocifisso". Il cardinale ha poi concluso con un'efficace constatazione: "Il mondo in epoche oscure della storia e in tempi non lontani ha accusato Dio per il suo silenzio davanti al dolore e alla morte. Rimangono un enigma il dolore e la morte dell'uomo, ma per il silenzio del Crocifisso, che li ha vinti affrontandoli nella loro profondità, abbiamo la certezza che anch'essi sono una via, senz'altro stretta, come dice il Vangelo, ma una via all'amore".
A Los Angeles il cardinale Sandri, accolto dal vescovo Shaheen e dal parroco, padre Abdallah Zaidan, nella cattedrale di Nostra Signora del Libano, ha potuto completare il profilo di san Marone: "Egli avanzava nel silenzio e nella preghiera. E comprese che si aprivano davanti a lui, inevitabilmente, i sentieri della penitenza e della carità. Approdò alla via della verità e della vita, che è Cristo. L'unione con Dio lo portò ad abbandonare sempre più decisamente l'uomo vecchio e le sue passioni ingannatrici. La conversione del cuore e dei comportamenti lo condusse alla solidale carità verso ogni sofferenza spirituale e materiale. La sua vita continuò a fiorire per Dio e per i fratelli e a diffondere pace e unità", ha osservato il porporato, delineando una sorta di "spiritualità maronita" attorno al silenzio, alla preghiera, alla penitenza e alla carità, e sottolineando che "possono sembrare categorie fuori moda, dal punto di vista culturale, e sinonimo di noia, quasi una prigione della libertà e della spontaneità". In realtà esse generano la fedeltà: "E cos'è la fedeltà - si è chiesto Sandri - se non una ripetizione motivata dall'amore che persegue diritti e doveri e così costruisce la persona nel bene, rendendola capace di cambiare il mondo? Il giubileo maronita si chiude con il mandato della fedeltà cristiana, a cominciare da ciascuna vostra famiglia".
In ogni celebrazione si è data lettura del messaggio inviato, per lo speciale giubileo, da Benedetto XVI. Dalla diaspora, il cardinale Sandri è passato alla madrepatria maronita, il Libano, dove è giunto il 4 marzo per festeggiare il cinquantesimo di episcopato e il venticinquesimo di servizio patriarcale del cardinale Sfeir. Il Patriarca ha incontrato Benedetto XVI il 25 febbraio scorso, ricevendo dalle sue mani la lettera autografa di ringraziamento all'atto dell'accettazione della sua rinuncia al governo della Chiesa maronita. Per tale motivo, in Libano, il prefetto della Congregazione per le Chiese orientali si è subito recato a Bkerké (città sede del Patriarcato di Antiochia dei Maroniti) per rendere omaggio al presule, unitamente al nunzio apostolico, arcivescovo Gabriele Giordano Caccia, il quale sabato 5 marzo avrebbe dato lettura della lettera pontificia all'inizio della divina liturgia presieduta dallo stesso patriarca, alla presenza del capo dello Stato libanese e delle più alte cariche della nazione, dei patriarchi cattolici melchita, siro e armeno, come delle rappresentanze di tutte le istituzioni ecclesiastiche, civili, ecumeniche e interreligiose. Ad accogliere i partecipanti alla solenne celebrazione l'amministratore della Chiesa patriarcale, il vescovo ausiliare Roland Aboujaudé.
Nel suo intervento il cardinale Sandri, dopo il saluto al presidente della Repubblica, ha affermato che "senza la componente cristiana il Libano non avrebbe potuto in passato e non potrà svolgere in avvenire quel mandato di pace che la sua storia, la sua cultura e la sua spiritualità gli hanno assegnato". Attestando, poi, la comune ammirazione "per il bene compiuto come vescovo, patriarca e cardinale di Santa Romana Chiesa" da sua beatitudine Sfeir, ne ha elogiato il servizio fedele nelle ore della sofferenza e della speranza dei suoi figli. E si è fatto latore del calice donato da Benedetto XVI, con queste parole: "È il calice del sacerdozio di Cristo a noi partecipato. Continui, beatitudine carissima, ad alzare il calice eucaristico invocando il nome del Signore a nostra salvezza. La proteggano sempre san Marone e Nostra Signora del Libano. In unione con l'intera comunità ecclesiale, voglia continuare a coltivare il grande cedro colmo di vitalità spirituale che è l'amata e nobile nazione libanese".
All'indomani il patriarca Sfeir ha presieduto l'eucaristia nel santuario nazionale di Nostra Signora di Harissa, concelebrata dal cardinale Sandri, dal nunzio apostolico Caccia, da numerosi vescovi e sacerdoti. Nell'omelia, il prefetto Sandri ha svolto il tema del primato di Dio e della sua inscindibile paternità. Ne fu banditore il padre della Chiesa maronita, che ha definito: "Un'eco efficace dello Spirito Santo che grida in noi: Abbà, Padre". Il segreto della fecondità sua e della Chiesa maronita vanno ravvisati nel primo posto dato a Dio lungo i secoli della storia "gloriosa ma talora sofferta per le oscure tempeste", nella quale, tuttavia, i maroniti "non hanno mai vagato come orfani perché ricondotti sempre dalla Madre di Dio e da san Marone al Signore e alla Chiesa". E ha aggiunto che "la signoria di Dio nella vita personale e familiare, come in quella sociale e culturale, è da indicare alle nuove generazioni perché è la garanzia della libertà, anche religiosa, come di ogni giustizia, e apre alla solidarietà nella storia proprio perché volge il nostro sguardo al Bene Eterno".
Si è quindi pregato per i vescovi maroniti chiamati a eleggere in sinodo il nuovo Patriarca perché "siano guidati unicamente dal primato di Dio. Ne ricerchino la santa volontà per individuare un vero padre e capo, capace di dare la vita come il Buon Pastore e di prodigarsi come san Marone per guarire le ferite spirituali e materiali dei suoi figli".
Il cardinale Leonardo Sandri ha concluso il suo intervento citando il beato Giovanni XXIII, il quale, visitando Harissa il 28 ottobre 1954 come patriarca di Venezia e legato papale, lasciò scritto in auspicio per tutti i libanesi le seguenti parole: oboedientia et pax, benedictio et pax¸ gaudium et pax. Nell'obbedienza troviamo la pace perché Dio ci benedice, moltiplicando la gioia. Grazie all'obbedienza dei libanesi, alle tradizioni religiose e civili si potrà compiere per essi la promessa biblica: "Ne rimarrà per sempre la discendenza e la loro gloria non si offuscherà". Prima di lasciare il Libano, il porporato è stato ricevuto dal presidente della Repubblica e ha reso visita ai patriarchi melchita, siro e armeno, e a diverse comunità religiose femminili e maschili. Ma, soprattutto, ha venerato nei rispettivi santuari i santi Marone, Charbel, Nimatullah, Rafka, e il beato Estéphan. Figli della Chiesa maronita e "vera gloria" del Libano.
(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)
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Continuano ad aumentare
le violenze anticristiane
LONDRA, 15. Il 75 per cento di tutte le violenze a sfondo religioso commesse nel mondo colpiscono le comunità cristiane: è il dato emergente dal rapporto intitolato "Persecuted and Forgotten", pubblicato dall'associazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre. Secondo l'analisi, in alcuni Paesi, tra i quali l'Iraq, l'Afghanistan e il Pakistan, la situazione appare particolarmente difficile: circa 100.000.000 sarebbero, secondo le stime contenute nel rapporto, i cristiani che vivono in realtà geografiche dove l'intolleranza verso le minoranze è in forte aumento, assumendo aspetti spesso drammatici. L'Iraq, fra i Paesi citati nel rapporto, presenta inoltre un notevole calo della presenza dei cristiani, passati in venticinque anni, sempre secondo l'analisi, da 1,4 milioni a 150.000.
Il cardinale arcivescovo di Saint Andrews and Edinburgh, Keith Michael Patrick O'Brien, che presenta il rapporto insieme con l'arcivescovo di Arbil dei Caldei, Bashar Warda, ha osservato che il rapporto "pone in evidenza la rilevante crescita delle violenze nei confronti dei cristiani, una realtà che impressiona e addolora allo stesso tempo", aggiungendo che in Paesi come l'Afghanistan, l'Iraq o il Pakistan, i cristiani "sono persino uccisi per il loro credo". Questo, ha puntualizzato, "è intollerabile e inaccettabile per persone come noi che viviamo in Scozia, dove la libertà e la pratica religiosa sono un valore". Il cardinale ha espresso la speranza che l'iniziativa dell'associazione Aiuto alla Chiesa che soffre possa "incoraggiare tutti a prendere posizione sul tema della libertà religiosa e a sostenere coloro che promuovono iniziative. Chiediamo che tale libertà sia presto estesa in ogni parte del mondo e che la tolleranza sia oggetto di rispetto da parte di tutte le comunità".
Riferendosi, in particolare, alla situazione del Pakistan, il porporato ha anche voluto sollecitare il Governo del Regno Unito "a ottenere precise garanzie in merito al rispetto del diritto di libertà religiosa" prima di concedere aiuti ai Paesi stranieri. Il Governo britannico ha infatti deciso nei giorni scorsi di aumentare considerevolmente gli aiuti economici al Paese asiatico. A tale riguardo, in una nota di replica da parte del sottosegretario agli Affari esteri, Alistair Burt, si pone in rilievo che "l'effettiva promozione dei diritti umani, incluso quello di libertà religiosa, è nel cuore della politica estera della nazione".
Giovedì 17 marzo una messa sarà concelebrata nella Westminster Cathedral, a Londra, in occasione della pubblicazione del rapporto. A presiedere la liturgia eucaristica saranno l'arcivescovo di Westminster, Vincent Gerald Nichols e l'arcivescovo Bashar Warda. Quest'ultimo ha affermato che il rapporto "enfatizza il peggioramento della situazione in molti Paesi e che in Iraq non vi è dubbio che lo scompiglio a livello politico e la crescita dei fermenti nazionalisti stanno contribuendo alla perdita delle nostra libertà religiosa".
(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)
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In girotondo con i santi
di NICOLA GORI Un girotondo di santi e di angeli che si tengono per mano e tendono la mano a quanti sono ancora sulla terra. È l'immagine che più di tutte rappresenta il senso e lo spirito degli esercizi spirituali quaresimali che si svolgono dal 13 al 19 marzo nella cappella Redemptoris Mater, in Vaticano, alla presenza del Papa e della Curia romana. A guidarli è il carmelitano scalzo François-Marie Léthel, prelato segretario della Pontificia Accademia di Teologia, che in questa intervista al nostro giornale, spiega i motivi che lo hanno indotto a scegliere come tema "La luce di Cristo nel cuore della Chiesa: Giovanni Paolo II e la teologia dei santi".
Questi esercizi ruotano intorno alla beatificazione di Giovanni Paolo II: come viene sviluppato il tema?
Dopo che il Papa mi ha chiamato a tenere questi esercizi spirituali, mi sono raccolto in preghiera e mi è apparso chiaro l'orientamento da dare alle meditazioni: una preparazione spirituale alla beatificazione di Giovanni Paolo II , che avverrà il 1° maggio prossimo, domenica dell'Ottava di Pasqua, festa della Divina Misericordia, inizio del mese mariano e anche festa di san Giuseppe lavoratore. Sono convinto che sia un avvenimento di un immensa portata per la Chiesa e per il mondo, che richiede una profonda preparazione spirituale da parte di tutto il popolo di Dio, e in modo esemplare da parte del Santo Padre e dei suoi più vicini collaboratori. Allo stesso tempo ho avuto chiaro anche il tema - la luce di Cristo nel cuore della Chiesa - e il sottotitolo: Giovanni Paolo II e la teologia dei santi. Così è stato anche per la scelta dei santi come guide per questi giorni. Infatti, la beatificazione di Giovanni Paolo II è come il coronamento di uno straordinario pontificato proprio sotto il segno della santità. Per sviluppare il tema, ho scelto un'icona della comunione dei santi: un dipinto del beato fra Angelico che rappresenta i santi e gli angeli in cielo che si danno la mano e fanno come un girotondo. I santi si danno e ci danno la mano per guidarci sul cammino della santità. Questo è il senso della conversione quaresimale: impegnarci di più entrando anche noi in questo "girotondo dei santi". Un girotondo guidato da Papa Wojty?a, che dà la mano ai due santi più vicini a lui: san Luigi Maria di Montfort, che ha ispirato il suo Totus tuus, e santa Teresa di Lisieux, l'unica santa proclamata dottore della Chiesa durante il suo Pontificato.
Cosa si intende per teologia dei santi?
È questa grande conoscenza del Mistero di Cristo di cui san Paolo parla nella sua Lettera agli Efesini, quando chiede "in ginocchio" al Padre l'abbondanza del dono dello Spirito Santo per i fedeli, affinché mediante la fede e l'amore possano "con tutti i santi conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza". Nel suo linguaggio, "i santi" sono i fedeli, i battezzati, in un certo modo, noi tutti, se viviamo veramente di fede, speranza e carità. Così, san Luigi Maria di Montfort parla della "grande scienza dei santi" e allo stesso modo fa santa Teresa di Lisieux nella sua Autobiografia. Su questo punto ancora Giovanni Paolo II ci ha dato l'esempio. Era anzitutto l'uomo della preghiera profonda, era un mistico. La preghiera animava e penetrava tutta la sua riflessione teologica, filosofica, poetica. Nella Chiesa d'Occidente, con la nascita delle università nel medioevo, è sopravvenuto il rischio di ridurre la teologia alla sua sola forma intellettuale, accademica, e questo è un grande impoverimento. Dopo il concilio Vaticano II, nel 1970 Paolo VI ha fatto un passo decisivo quando ha dichiarato dottori della Chiesa due donne, due sante che non avevano studiato all'università: Teresa d'Ávila e Caterina da Siena. Hanno ricevuto lo stesso titolo di santi che erano grandi intellettuali, come Anselmo, Tommaso e Bonaventura. Così l'enciclica Fides et ratio, che faceva riferimento a questi rappresentanti della "grande ragione", Giovanni Paolo II ha indicato nella Novo millennio ineunte l'esempio di Caterina da Siena e Teresa di Lisieux come rappresentanti della "teologia vissuta dei santi".
Quali sono gli aspetti più significativi dell'eredità spirituale di Giovanni Paolo II ?
È un'eredità immensa che tocca tutti gli aspetti del mistero di Dio e dell'uomo in Cristo. Per me è tutta concentrata nella sua grandiosa spiritualità cristocentrica e mariana. Bisogna soprattutto rileggere le sue encicliche Redemptor hominis, Dives in misericordia, Dominum et vivificantem e Redemptoris Mater. L'affermazione fondamentale è concentrata nelle prime parole della Redemptor hominis: "Il Redentore dell'Uomo Gesù Cristo è il Centro del Cosmo e della Storia", con il grande leit-motiv della Gaudium et spes: "Cristo si è unito a ogni uomo".
Si sono alternati pastori e studiosi in varie discipline come predicatori degli esercizi al Papa. Ora tocca a un teologo come lei che appartiene a un ordine mendicante. Crede che questa sua formazione abbia influito sulla scelta del Pontefice?
Appartengo al Carmelo, ordine mendicante nato nel medioevo, quasi allo stesso tempo di quelli di san Francesco e san Domenico. Abbiamo una lunga storia, una grande tradizione teologica e spirituale, specialmente nel nostro ordine dei carmelitani scalzi, riformati da santa Teresa di Gesù. Ho profonda coscienza di compiere questa missione di predicazione per il Papa non in modo individuale, ma come rappresentante della mia famiglia religiosa del Carmelo, e in modo particolare della mia comunità accademica del Teresianum, che è la Pontificia Facoltà Teologica dei carmelitani a Roma. Lavoriamo molto per la Chiesa e il Papa, e non soltanto attraverso l'insegnamento teologico.
Giovanni Paolo II aveva un'innata simpatia per l'ordine del Carmelo. A san Giovanni della Croce aveva dedicato anche la laurea. Quale aspetto del suo magistero pensa sia stato influenzato dalla spiritualità sangiovannea?
Credo che l'influsso più profondo sia stato sulla sua propria vita spirituale. Sappiamo che ha ricevuto le opere di san Giovanni della Croce insieme, al Trattato della vera devozione a Maria di Luigi Maria Grignion di Montfort, nel 1940, da un santo laico, Jan Tyranowski. Era un periodo decisivo della sua vita, durante l'occupazione nazista in Polonia, quando doveva lavorare come operaio per evitare la deportazione in Germania. È stato il momento della scelta decisiva della vocazione sacerdotale. San Giovanni della Croce ha aperto al giovane Karol gli orizzonti della preghiera profonda: ha fatto di lui un autentico mistico, cioè un uomo che vive la fede, la speranza e la carità a un livello sempre più intenso, sempre più profondo. Con san Giovanni della Croce, ha potuto anche approfondire la grande tematica dell'amore sponsale e coltivare la poesia come espressione privilegiata del mistero.
Oltre a san Giovanni della Croce, lei parlerà anche di san Luigi Maria Grignion de Montfort, santa Teresa di Lisieux e santa Giovanna d'Arco. Quale influsso hanno avuto su Giovanni Paolo II?
Direi che Luigi Maria Grignion de Montfort è il santo che ha esercitato l'influsso più profondo sulla sua vita, con la sua dottrina cristocentrica e mariana sintetizzata nel capolavoro del Trattato. Dall'età di 20 anni fino alla sua morte, ha avuto sempre presente questo libro. Nella grazia della sua beatificazione, Giovanni Paolo II ci invita a riscoprire quest'opera essenziale per tutto il popolo di Dio, nel suo modo di trasformare la devozione mariana in un cammino privilegiato di santità: non più una devozione tra le altre, ma la stessa vita battesimale di fede, speranza e carità vissuta con Maria e in Maria, "per trovare Gesù perfettamente, amarlo teneramente e servirlo fedelmente".
Nelle sue meditazioni si possono riscontrare riferimenti a temi di attualità?
Certo, i santi toccano sempre le realtà essenziali della vita cristiana e della condizione umana. Il grande tema è come vivere la santità nel mondo di oggi, nei diversi contesti. Patrona delle missioni, Teresa di Lisieux ha molto da dire sul tema della nuova evangelizzazione. La scelta di Caterina da Siena e di Giovanna d'Arco per questi esercizi è in qualche modo più legata a Benedetto XVI, che ha dedicato due importanti catechesi a queste sante della fine del medioevo, come esempi di "donne forti" in un contesto di grandi sofferenze e crisi della Chiesa e della società. Con queste sante, la luce di Cristo viene a incontrare le tenebre del peccato che si trovano anche all'interno della stessa Chiesa, per purificarla, per riformarla. E questo è evidentemente di grande attualità.
Qual è secondo lei il ruolo del teologo nella Chiesa e nella società odierna?
Deve essere un testimone autentico della luce di Cristo. Oggi, può essere un uomo o una donna, un laico o un sacerdote, una persona sposata o consacrata. Ma deve essere una persona personalmente impegnata nel cammino della santità, cioè una persona umile, in un cammino di conversione permanente al Vangelo. Nelle prospettive di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, deve essere una persona che nella luce di Cristo è testimone della "grande ragione" e del "grande amore", in un continuo dialogo con il Signore, nell'ascolto e nello studio della sua Parola, e in dialogo con l'umanità di oggi.
(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)
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Quelli che vedono
la faccia del Padre
Con data 2 ottobre 2010, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha inviato ai presidenti delle Conferenze episcopali una lettera circolare sull'associazione Opus Angelorum, lettera poi pubblicata ne "L'Osservatore Romano" del 5 novembre 2010, a pagina 5. In questa lettera, la Congregazione informa, in particolare, sull'approvazione dello Statuto dell'Opus Sanctorum Angelorum da parte della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica e sull'approvazione della "formula di una consacrazione ai SS. Angeli per l'Opus Angelorum" da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede. Sembra pertanto opportuno illustrare brevemente la spiritualità di quest'Opera dei santi Angeli, la quale, così come si presenta oggi, è "un'associazione pubblica della Chiesa in conformità con la dottrina tradizionale e le direttive della Suprema Autorità, diffonde la devozione nei riguardi dei SS. Angeli tra i fedeli, esorta alla preghiera per i sacerdoti, promuove l'amore per Cristo nella Sua passione e l'unione ad essa" (Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede).
Qual è dunque la spiritualità di quest'associazione? E qual è stato il suo cammino fino allo stato attuale cui si riferisce la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede? L'Opus Sanctorum Angelorum è nata a Innsbruck (Austria) nell'anno 1949. La signora Gabriele Bitterlich, sposa e madre di tre figli, è stata all'origine di questo movimento. Dall'anno 1949, ha sviluppato una coscienza personale sempre più chiara che il Signore Gesù Cristo voleva che i fedeli venerassero e invocassero di più i santi angeli e si aprissero al loro potente aiuto. Da autentica cristiana, però, sempre ha professato di sottomettersi in tutto all'autorità della Chiesa. In quegli anni, questa autorità era il vescovo di Innsbruck, monsignor Paulus Rusch, con il quale è rimasta sempre in contatto. A partire dall'anno 1961, l'Opus Angelorum si è esteso in diversi Paesi del mondo. Così, dall'anno 1977, è stata l'autorità suprema della Chiesa a esaminare le dottrine e pratiche particolari dell'Opus Angelorum.
Con l'approvazione del movimento, la Chiesa ha riconosciuto la fondamentale validità dell'intuizione fondatrice della signora Bitterlich, ma d'altra parte ha anche rilevato, nel considerevole insieme dei suoi scritti, diverse dottrine e, in particolare, "teorie... circa il mondo degli angeli, i loro nomi personali, i loro gruppi e funzioni", "estranee alla S. Scrittura e alla Tradizione", le quali "non possono servire da base alla spiritualità e all'attività di associazioni approvate dalla Chiesa" (cfr. decreto Litteris diei della Congregazione per la Dottrina della Fede, 6 giugno 1992). Poiché l'Opus Angelorum ha obbedito alla Chiesa abbandonando quelle dottrine e le loro conseguenze pratiche, essa si presenta oggi a pieno titolo come un movimento ecclesiale chiamato a collaborare, mediante il proprio carisma, alla missione evangelizzatrice e salvatrice della Chiesa.
La base della sua spiritualità è dunque la Parola di Dio, la quale si trova nella Sacra Scrittura e nella tradizione viva della Chiesa, che sono autenticamente interpretate dal magistero. Una sintesi della dottrina del magistero riguardo al mondo angelico si trova nel Catechismo della Chiesa Cattolica (Ccc, cfr. pp. 328-336, 350-352).
Vi si legge, in primo luogo, che "l'esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede" (Ccc, 328). "In tutto il loro essere, gli angeli sono servitori e messaggeri di Dio. Per il fatto che "vedono sempre la faccia del Padre... che è nei cieli" (Matteo 18,10 ), essi sono "potenti esecutori dei suoi comandi, pronti alla voce della sua parola" (Salmo 103, 20)" (Ccc 329); "sono creature personali e immortali" (Ccc 330).
Gesù Cristo non è solamente il centro degli uomini, ma anche degli angeli: "Cristo è il centro del mondo angelico. Essi sono "i suoi angeli"... Sono suoi perché creati per mezzo di lui e in vista di lui... Sono suoi ancor più perché li ha fatti messaggeri del suo disegno di salvezza" (Ccc 331). "Essi, fin dalla creazione e lungo tutta la storia della salvezza, annunciano da lontano o da vicino questa salvezza e servono la realizzazione del disegno salvifico di Dio" (Ccc 332). Perciò, questo servizio si riferisce allo stesso Verbo incarnato e al suo Corpo sulla terra, la Chiesa. "Dall'Incarnazione all'Ascensione, la vita del Verbo incarnato è circondata dall'adorazione e dal servizio degli angeli... Essi proteggono l'infanzia di Gesù, servono Gesù nel deserto, lo confortano durante l'agonia, quando egli avrebbe potuto da loro essere salvato dalla mano dei nemici come un tempo Israele. Sono ancora gli angeli che "evangelizzano" (Luca 2,10) annunziando la Buona Novella dell'Incarnazione e della Risurrezione di Cristo. Al ritorno di Cristo, che essi annunziano, saranno là, al servizio del suo giudizio" (Ccc 333).
"Allo stesso modo tutta la vita della Chiesa beneficia dell'aiuto misterioso e potente degli angeli" (Ccc 334). "Nella Liturgia, la Chiesa si unisce agli angeli per adorare il Dio tre volte santo; invoca la loro assistenza ..., e celebra la memoria di alcuni angeli in particolare (san Michele, san Gabriele, san Raffaele, gli angeli custodi)" (Ccc 335).
Così, "dal suo inizio fino all'ora della morte la vita umana è circondata dalla loro protezione e dalla loro intercessione. "Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita"". Fin da quaggiù, la vita cristiana partecipa, nella fede, alla beata comunità degli angeli e degli uomini, uniti in Dio" (Ccc 336). Con ragione quindi la "Chiesa venera gli angeli che l'aiutano nel suo pellegrinaggio terreno" (Ccc 352).
La particolarità dell'associazione Opus Sanctorum Angelorum consiste nel fatto che i suoi membri portano la devozione ai santi angeli a quello sviluppo pieno che si manifesta e si rende concreto in una "consacrazione ai santi Angeli", in modo simile a quello verificatosi nella storia della Chiesa nei riguardi della devozione al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore immacolato della Madonna (consacrazione al Cuore del Signore Gesù e di sua Madre).
Attraverso la consacrazione all'angelo custode si entra nell'Opera dei santi Angeli. La consacrazione ai santi Angeli è fatta da quei membri che vogliono impegnarsi di più per i fini spirituali del movimento. Questa consacrazione è intesa come un'alleanza del fedele con i santi angeli, e cioè, come un atto cosciente ed esplicito di riconoscere e prendere sul serio la loro missione e posizione nell'economia della salvezza. Come molte spiritualità hanno le loro espressioni tipiche, ad esempio il Totus tuus" di Giovanni Paolo II, così la spiritualità della consacrazione ai santi Angeli nell'Opus Angelorum potrebbe caratterizzarsi con le parole "cum sanctis angelis", cioè, "con i santi angeli" oppure "in comunione con i santi angeli".
Infatti, nella fede e nella carità teologale è possibile una "convivenza" dei fedeli con i santi angeli come veri amici (cfr. san Tommaso, Summa Theologiae II-II, q. 25. a. 10; q. 23, a. 1, ad 1.) e così anche una intima collaborazione spirituale con loro per i fini del disegno salvifico di Dio nei confronti di tutte le creature (cfr. Efesini 1,9-10; Colossesi 1,15-20; Giovanni 12,32; 17,21-23; Apocalisse 10,7; 19,6-9), giacché da parte loro è garantita la cooperazione per tutte le nostre opere buone (cfr. Ccc 350: "Ad omnia bona nostra cooperantur angeli, gli angeli cooperano ad ogni nostro bene (san Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I, 114, 3, ad 3)".
Questa convivenza e collaborazione spirituale dei fedeli con i santi angeli, in cui consiste proprio, secondo lo Statuto summenzionato, la "natura" dell'Opus Angelorum, richiede ovviamente non solamente la fede e l'amore ai santi angeli - in primo luogo al proprio angelo custode - ma anche l'applicazione prudente dei criteri di "discernimento degli spiriti". Qui viene a proposito la seguente spiegazione che si trova nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (pagina 162: commento ad un dipinto di Jan Van Eyck, riprodotto alla pagina precedente): "Come nella visione della scala di Giacobbe - "gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa" (cfr. Genesi 28,12) - gli angeli sono dinamici e instancabili messaggeri, che collegano il cielo alla terra. Tra Dio e l'umanità non c'è silenzio e incomunicabilità, ma dialogo continuo, comunicazione incessante. E gli uomini, destinatari di questa comunicazione, devono affinare questo orecchio spirituale, per ascoltare e comprendere questa lingua angelica, che suggerisce parole buone, sentimenti santi, azioni misericordiose, comportamenti caritatevoli, relazioni edificanti".
L'Opus Angelorum si fonda sulla prontezza incondizionata di servire Dio con l'aiuto dei santi angeli e ha come finalità il rinnovamento della vita spirituale nella Chiesa con il loro aiuto nelle cosiddette "direzioni (o dimensioni) fondamentali" di adorazione, contemplazione, espiazione e missione (apostolato).
L'aiuto degli angeli e l'unione degli uomini con essi permettono a quest'ultimi di vivere meglio la fede e anche di testimoniarla con più forza e convinzione. I santi angeli, infatti, contemplano continuamente la faccia di Dio (cfr. Matteo 18, 10) e vivono in costante adorazione. In modo particolarmente efficace possono quindi illuminare i fedeli che si aprono coscientemente alla loro azione, i quali fedeli sono da loro aiutati a contemplare nella fede i divini misteri: Dio stesso e le sue opere (theologia e oikonomia, cfr. Ccc 236), a crescere così nella conoscenza e nell'amore di Dio, a rimanere alla Sua presenza e realizzare un'adorazione particolarmente reverente e amorevole, dedicandosi alla maggiore glorificazione di Dio. L'adorazione, specialmente l'adorazione eucaristica, occupa, quindi, nell'Opus Angelorum il primo posto.
Come lo stesso Signore Gesù Cristo è stato fortificato dal Padre celeste attraverso un angelo per sopportare la passione redentrice (cfr. Luca 22,43), così i membri dell'Opus Angelorum confidano sull'aiuto dei santi angeli per seguire Cristo con carità espiatrice per la santificazione e salvezza delle anime, e particolarmente per i sacerdoti. Perciò, c'è nell'Opus Angelorum anche il pio esercizio della Passio Domini, cioè un tempo di preghiera settimanale (giovedì sera e venerdì pomeriggio), in cui i membri si uniscono spiritualmente al Redentore nel mistero della sua passione salvifica. Cristo crocifisso e risorto è, infatti, il centro tanto degli uomini quanto dei santi angeli.
Con l'approvazione dell'Opus Sanctorum Angelorum, la Chiesa ha dato la benedizione a un movimento che si caratterizza, certo, per una devozione peculiare ai santi angeli, ma anche ed essenzialmente - in conformità con le proprietà caratteristiche degli angeli - per un orientamento assoluto verso Dio e il suo servizio, verso Cristo Redentore, la croce, l'Eucaristia, a gloria di Dio e per la santificazione e salvezza delle anime. Davvero, la coscienza viva della presenza e dell'aiuto misterioso e potente dei santi angeli, servi e messaggeri di Dio, è atta a spingere i fedeli a dedicarsi con fiducia alla prima e sostanziale missione della Chiesa: la salvezza delle anime a gloria di Dio.
(©L'Osservatore Romano 16 marzo 2011)
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