giovedì 17 marzo 2011

Il Quotidiano Osservatore Romano del 18 Marzo 2011


Inutile per il momento l'intervento degli elicotteri che lanciano tonnellate di acqua per raffreddare i reattori

Fukushima, il terrore e l'attesa


Tokyo denuncia attacchi speculativi contro lo yen

TOKYO, 17. Le autorità giapponesi stanno cercando in tutti i modi di raffreddare i reattori della centrale nucleare di Fukushima, che - secondo l'Ente atomico americano - sta sprigionando radiazioni estremamente forti e potenzialmente letali.
Dopo numerosi tentativi andati a vuoto, a causa della forte radioattività sull'impianto, gli elicotteri dell'esercito sono riusciti stamane a gettare tonnellate di acqua dall'alto nel tentativo di raffreddare la centrale, colpita da incendi ed esplosioni dopo il devastante terremoto di magnitudo 9 sulla scala Richter (che ne conta 10) dello scorso 11 marzo. L'obiettivo è quello di mantenere sommerse le barre di combustibile atomico all'interno dei reattori e le vasche che contengono il combustibile esausto. In questo modo - rilevano gli esperti - si eviterebbe il degrado dei materiali nucleari che avviene al contatto con l'aria e la conseguente emissione di radiazioni. Non è invece stato possibile utilizzare un cannone spara acqua. Nonostante l'intervento degli elicotteri, il livello di radioattività non è calato. Intorno all'edificio, ha reso noto oggi la Tepco, la compagnia che gestisce la centrale, la radioattività è salita a 3.000 microsievert per ora (la soglia massima di esposizione in un anno è 1.000 microsievert). Per precauzione, l'ambasciata degli Stati Uniti a Tokyo ha raccomandato ai cittadini americani che vivono entro un raggio di 80 chilometri da Fukushima di abbandonare l'area o, se impossibilitati a farlo, di trovare rifugio al chiuso.
Il direttore dell'Agenzia internazionale per l'energia Atomica (Aiea), Yukiya Amano, ha comunque tenuto a precisare che la situazione all'impianto nucleare di Fukushima è molto seria, ma non fuori controllo. Amano ha confermato che a breve partirà per il Giappone con un gruppo di esperti dell'Aiea. E mentre il Paese rischia di subire interruzioni generalizzate della somministrazione di corrente elettrica se non saranno ridotti i consumi, Barack Obama, e il premier nipponico, Naoto Kan, hanno avuto oggi un lungo colloquio telefonico. Obama - informano le agenzie di stampa internazionali - ha detto che gli Stati Uniti collaboreranno in tutti i modi possibili e ha garantito l'invio di altri esperti nucleari statunitensi.
Di fronte alla grave crisi nucleare in Giappone, per la quale il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, si è detto molto preoccupato, i tre Paesi dell'America Latina con centrali atomiche - Argentina, Brasile e Messico - hanno avuto reazioni diverse. Il Governo di Brasilia ha fatto sapere che continuerà comunque a investire nei suoi programmi nucleari. A Città del Messico e a Buenos Aires, invece, sono tuttora in corso analisi e dibattiti politici sull'energia atomica.
Dal punto di vista economico, il Governo di Tokyo ha definito estremamente speculativi e senza fondamento i massimi storici dello yen sul dollaro in assenza di alcuna base solida, mentre la Bank of Japan ha continuato a immettere liquidità per sostenere i mercati. Il ministro delle Finanze giapponese ha detto che il G7 finanziario si riunirà in videoconferenza d'emergenza a partire da stasera. Gli analisti economici hanno rilevato che la devastazione del terremoto in Giappone e la crisi nucleare potrebbero portare a una perdita complessiva fino a 200 miliardi di dollari. Il ministro dell'Economia ha invece sostenuto che l'economia nipponica è sana e che i danni per le devastazioni della scorsa settimana avranno un impatto limitato.


(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2011)
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Freddo e neve sui terremotati


TOKYO, 17. Il Giappone deve fare i conti anche con una gravissima crisi umanitaria, con migliaia di persone ancora intrappolate nel nordest, la zona più colpita dal terremoto e dal successivo tsunami di venerdì scorso. Manca tutto (cibo, acqua potabile, medicine, coperte) mentre su tutta la regione ha iniziato a nevicare. Una fitta precipitazione ha infatti steso uno spesso manto di neve sull'oceano di rovine e le temperature sono scese sotto lo zero, riducendo, ora dopo ora, le già esigue speranze che qualcuno sia ancora vivo sotto le macerie. Con il passare dei giorni aumenta anche drammaticamente il bilancio delle vittime - 5.321 - e dei dispersi, che sono almeno 20.000 nella sola prefettura nordorientale di Miyagi. "Non sappiamo dove mettere i morti", ha detto alla stampa il vice sindaco della città costiera di Ishinomaki, nella prefettura di Sendai. Mentre le squadre di soccorso stanno perlustrando palmo a palmo le coste, le autorità di Ishinomaki hanno reso noto che all'appello mancano ancora migliaia di persone. Conseguenze terribili, dunque, destinate ad aumentare nei prossimi giorni, quando i soccorritori raggiungeranno tutte le zone disastrate. Un funzionario della Croce rossa internazionale - rileva l'agenzia Ansa - ha espresso il timore che nella sola cittadina marittima di Otsuchi, 17.000 abitanti che vivevano dell'industria ittica, esposta alla furia del maremoto e rasa al suolo, le persone che potrebbero essere state inghiottite dalle acque siano 9-10.000. In generale, i senza tetto e gli sfollati sono quasi mezzo milione, 100.000 dei quali bambini, secondo una stima di alcune organizzazioni internazionali.


(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2011)
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Forte partecipazione popolare alle cerimonie

L'Italia celebra i 150 anni di unità


ROMA, 17. Una forte partecipazione popolare ha segnato oggi in Italia le cerimonie per i 150 anni di unità. A Roma, alla presenza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e delle massime cariche dello Stato, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha celebrato una messa nella basilica di Santa Maria degli Angeli.
In precedenza, all'altare della Patria, Napolitano aveva reso omaggio alla tomba del milite ignoto. Dopo aver passato in rassegna uno schieramento delle forze armate, il capo dello Stato ha intonato l'inno nazionale accompagnato dalla banda della polizia. La cerimonia è stata chiusa da un passaggio della pattuglia acrobatica dell'aeronautica militare, le Frecce tricolori.
Il presidente della Repubblica si è poi recato al Pantheon, dove è sepolto Vittorio Emanuele II, sovrano quando il 17 marzo 1861 fu proclamato il regno d'Italia, e aveva inaugurato al Gianicolo, una targa che riporta la Costituzione italiana.
Ieri il capo dello Stato, al Quirinale, aveva sottolineato che, se gli italiani fossero rimasti divisi, sarebbero stati spazzati via dalla storia.


(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2011)
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Ma potrebbe essere troppo tardi per gli insorti libici

L'Onu chiamata a una decisione

Dalla Roma repubblicana al Risorgimento

L'Italia
prima dell'Italia


TRIPOLI, 17. La vittoria del colonnello Muammar Gheddafi sugli insorti non significherebbe automaticamente la fine della crisi libica, il Paese potrebbe infatti scivolare verso una guerra civile totale, ma se la comunità internazionale - oggi si riunisce il Consiglio di sicurezza dell'Onu - è intenzionata a fare qualcosa deve ritrovare unità e abbandonare la lentezza politica e diplomatica che ha caratterizzato la sua azione nell'ultimo mese.
Mentre Gheddafi ha affermato che le forze a lui fedeli avrebbero scatenato oggi una battaglia decisiva per prendere il controllo di Misurata, terza città del Paese a circa 150 chilometri a est di Tripoli, la televisione di Stato ha annunciato nella tarda mattinata che i lealisti hanno assunto il controllo della città, mentre a Bengasi, cuore della rivolta, dopo che è scaduto l'ultimatum lanciato dall'esercito alla popolazione civile, ci sarebbero stati raid aerei vicino all'aeroporto. La televisione ha inoltre detto che ci sono almeno trenta morti in un ospedale della città della Cirenaica Ajdabiya.
In un'intervista al quotidiano francese "Le Figaro", Gheddafi ha affermato che per annientare i ribelli: "Ci basterebbe un giorno soltanto. Il nostro obiettivo tuttavia consiste nel debellare progressivamente quelle bande armate ricorrendo a soluzioni differenti, come assediare le città o inviare mediatori". Due grandi tribù di Tarhuna e Warfalla a Bengasi hanno ieri confermato il loro sostegno al raìs.
Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha nel frattempo chiesto a entrambe le parti in conflitto il cessate il fuoco in Libia. E dopo una lunga esitazione, gli Stati Uniti si sono uniti a Francia e Gran Bretagna nel chiedere all'Onu l'imposizione di una no-fly zone sulla Libia. L'Amministrazione di Washington è pronta ad appoggiare misure che vadano anche oltre la no-fly zone ha spiegato il rappresentante statunitense, Susan Rice, al termine di una sessione fiume di cinque ore del Consiglio di sicurezza. Ma c'è l'incognita dell'atteggiamento di Cina e Russia, che hanno potere di veto e delle perplessità della Germania. Medvedev ha avvertito che un intervento di terra in Libia scatenerebbe una vera guerra tra le truppe di Gheddafi e l'eventuale forza internazionale.


(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2011)
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di GIUSEPPE ZECCHINI
È mai esistita un'Italia prima dell'Italia? In altre parole, si può parlare di un'unità politica della penisola italiana prima del 1861? Nel corso del XVII e soprattutto del XVIII secolo il dibattito verteva in prevalenza sul primato degli Italiani nelle lettere e nelle arti, quello che sarebbe divenuto nel secolo successivo un primato morale e civile, secondo la classica definizione di Vincenzo Gioberti (1843). Peraltro la pur nobile eccezione rappresentata dall'opera storica di Carlo Denina (Delle rivoluzioni d'Italia, 1769-1770) era orientata in senso decisamente negativo: l'unificazione romana dell'Italia aveva danneggiato quell'ideale dei piccoli Stati conviventi tra loro rappresentato dai popoli italici e aveva creato le premesse per il loro declino. Solo la rivoluzione francese e le conquiste napoleoniche posero in concreto il problema dell'unificazione politica d'Italia e quindi di suoi eventuali modelli o precedenti.
In una prospettiva ancora più federalistica lo storico fiorentino Giuseppe Micali vedeva ne L'Italia avanti il dominio dei Romani (1810) un insieme di popoli dagli indubbi legami culturali, ma anche fieri della propria autonomia e della propria libertà, che Roma avrebbe soffocato con la forza. Il cattolico liberale Alessandro Manzoni non riteneva che l'età antica avesse nulla a che fare con il tema dell'unità d'Italia, che parte dalla servitù sotto Longobardi e Franchi di un volgo privo di identità e di autocoscienza per svilupparsi a livello linguistico, culturale e soprattutto religioso grazie alla Chiesa e poi compiersi politicamente per merito dei Savoia. Il cattolico d'origini "papaline", ma orgogliosamente risorgimentale Gaetano De Sanctis riteneva invece che l'espansionismo romano avesse creato la prima forma di unità politica dell'Italia, già nella confederazione italica e poi nell'Italia romana unificata dalla comune cittadinanza dopo la guerra sociale del 90-88: il Risorgimento avrebbe riportato a nuova vita questa unità grazie a un nuovo espansionismo, quello del Piemonte sabaudo.
La continuità tra Roma repubblicana e Italia risorgimentale trovava terreno favorevole nell'opinione pubblica e nella "vulgata" ufficiale sia nel periodo tra la formazione del Regno d'Italia e la I guerra mondiale, sia nel dopoguerra, quando il fascismo si presentò come lo stadio finale e più completo del nazionalismo italiano. Tuttavia il dibattito restava aperto tra gli studiosi, sia di storia antica, a partire dal celebre intervento di Wilamowitz nel 1926 sul concetto di "storia italica" contrapposto polemicamente a quello di "storia romana", sia di storia moderna, a partire dalla pubblicazione nel 1928 della Storia d'Italia di Croce e dal dibattito a più voci che ne seguì.
A maggior ragione nell'Italia del secondo dopoguerra la prospettiva già di Micali e di Wilamowitz fu ricuperata sia da Massimo Pallottino (Storia della prima Italia, Milano, 1984) in nome di un'unità culturale della "prima Italia" (appunto quella precedente alla conquista romana), sia da Sabatino Moscati in nome di un regionalismo di varia matrice (punica, greca, celtica e così via), ma costituente un sostrato ineliminabile sotto la fragile, precaria crosta dell'unità antica e moderna.
Gli anni Novanta del secolo scorso hanno visto contrapporsi, ma anche integrarsi due contributi ormai classici della storiografia italiana su Roma antica.
Emilio Gabba (Italia romana, Como, 1994) ha vigorosamente sostenuto l'eredità risorgimentale di De Sanctis: grande specialista della storia di Roma dalle origini all'alto impero, egli ha ricostruito le linee culturali, linguistiche, ma soprattutto economiche e amministrative di un processo unitario di "romanizzazione", che sfocia nell'Italia augustea e nell'impero italocentrico dei primi due secoli; in effetti l'Italia centromeridionale dei valori romani delineata da Catone intorno a un nucleo di principi etici e religiosi condivisi, esonerata dal tributo dopo il 167, è vista da occhi esterni, soprattutto orientali, come l'unica, indistinta patria dei negotiatores italo-romani; parificata giuridicamente dopo la guerra sociale, tra Cinna e Silla, allargata sino alle Alpi da Cesare, essa è l'Italia, che conferisce il proprio consensus ad Augusto e costituisce almeno sino a Marc'Aurelio il centro etico e politico dell'impero. Tuttavia si può parlare di Italici e di italicità soltanto in relazione a Roma come unico fattore capace di aggregare, o contro di sé o intorno a sé, i popoli della penisola; proprio l'eccessiva dipendenza dalla capitale era il lato oscuro della romanizzazione dell'Italia antica: nel momento in cui essa raggiungeva il suo apogeo sotto Augusto, aveva in sé anche i germi di un'effimera fragilità, di un forse inevitabile declino a favore del mondo provinciale.
Andrea Giardina (Italia romana. Storie di un'identità incompiuta, Bari, 1997) ha rivisitato il processo di unificazione dell'Italia con la sensibilità di una formazione anche tardoantichistica; egli è conscio del fallimento finale di un'Italia provincializzata e spaccata in due diocesi, l'annonaria e la suburbicaria, che preludono nel tardo impero a una divisione tra nord e sud quanto mai attuale; ha quindi delineato la parziale costruzione di un patrimonio comune di miti e credenze (ad esempio l'origine troiana) per pervenire alla felice formula dell' "identità incompiuta": l'impero romano parve a un certo punto costruito intorno a un nocciolo italico, ma la sua stessa vocazione universalistica, la tensione ad abbracciare tutta l'ecumene attraverso il coinvolgimento delle élites provinciali nelle responsabilità di governo e la progressiva estensione della cittadinanza data a tutti i provinciali nel 212 implicava anche la graduale dissoluzione dell'identità "italiana", non ancora consolidata, in una più ampia comunità politica.
Un impero può conservarsi nazionale, se si manifesta attraverso un'espansione coloniale (quello britannico) o un'egemonia indiretta (quello americano), ma deve sacrificare la nazione in fieri, se mira sul lungo periodo ad annullare la distinzione tra vincitori e vinti, tra padroni e sudditi, tra cittadini e provinciali, come scelse di fare l'impero romano: una scelta che aveva in sé forse i germi della sua scomparsa, certamente i segni della sua incomparabile grandezza.


(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2011)
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Per il fondatore del Partito popolare l'unità non poteva dirsi conclusa senza risolvere la questione meridionale

Don Sturzo e la ricetta per il Mezzogiorno


di MICHELE PENNISI
Nel commemorare i centocinquanta anni dell'unità d'Italia non si può dimenticare il contributo teorico e pratico di don Luigi Sturzo. Egli sottolineò che alla maturazione del problema nazionale, che preparò l'atmosfera per l'indipendenza e l'unità, contribuirono soprattutto cattolici liberali e neoguelfi, che ipotizzavano un'Italia confederata con a capo il Papa.
Sturzo non rifiutò l'unità d'Italia come risultato del Risorgimento, ma il modo con cui si realizzò, con un centralismo soffocante che ridusse l'unità a uniformità e con una politica antiecclesiastica. Conciliò la fedeltà alla Chiesa con l'amore alla patria sostenendo nel discorso di Caltagirone del 1905: "Oggi possiamo affermare che fu un bene l'unità della patria, che fu un bene per essa si fosse lottato; e che però, nel perseguire questo ideale, molti generosi ebbero slanci di virtù, molti ingannarono e fecero male. Il patrimonio di oggi può essere inquinato, rovinato anche dalle ipoteche di un passato dilapidatore; ma ci ha dato una vita, e l'affermiamo questa vita col nostro intervento".
Ricordando la fine del potere temporale scrisse: "Quel che sembrò e fu allora una disfatta, a poco a poco divenne un nuovo motivo di maggiore simpatia del mondo cattolico, e di quello non cattolico di buona fede, verso il papato. Tolto il peso del principato terreno, sembrò a molti che il potere papale si fosse, anche nelle apparenze, più spiritualizzato".
Nella sua attività socio-politica, il sacerdote avvertì la necessità che lo Stato unitario si desse un'articolazione organica attraverso l'autonomia degli enti locali e una "federalizzazione delle varie regioni" che lasciasse intatta l'unità di regime. Riteneva, però, che l'unificazione non potesse dirsi risolta senza la soluzione della questione meridionale che chiamerà "il secondo risorgimento". In un discorso pronunciato a Napoli nel 1917, don Sturzo afferma che la questione meridionale è "un problema morale e politico di primissimo ordine (...) che ha una decisiva importanza per il nostro avvenire e il nostro secondo risorgimento".
Sempre a Napoli, il 18 gennaio 1923, in veste di segretario del Partito popolare italiano, illustra la sua impostazione della questione meridionale, auspicando una politica mediterranea di ampio respiro: "Se la politica che la nazione italiana, non solo i governi ma la nazione italiana, saprà fare, sarà una politica forte e razionale, orientata al bacino mediterraneo, cioè atta a creare al Mezzogiorno un hinterland che va dall'Africa del nord all'Albania, dalla Spagna all'Asia minore; se questo significherà apertura di traffici, circolazione di scambi, impiego di mano d'opera, colonizzazione sotto il controllo diretto della madre patria; tale fatto darà la spinta a creare nel Mezzogiorno un'agricoltura razionale e maggiore sviluppo di commerci, pari alla propria importanza produttiva".
Sturzo si rende conto della gravità dei problemi del sud, del suo ritardo in campo economico, culturale e sociale, ma intuisce che non possono essere risolti con un assistenzialismo governativo piovuto dall'alto e con una politica clientelare che tende a dare risposte parziali e contraddittorie. Occorre, invece, collegare il problema del mezzogiorno a quelli generali della comunità nazionale e internazionale. Vi sono infatti aspetti di natura non solo economica e politica, ma anche culturale e morale che, in una visione di largo respiro e a lunga scadenza, devono far investire tutte le energie delle popolazioni meridionali e della nazione italiana in una prospettiva aperta alla speranza. "Il risorgimento meridionale non è opera momentanea e di pochi anni, o che dipenda da una qualsiasi legge, o che venga fuori dalla semplice volontà di un governo; è opera lunga, vasta, di salda cooperazione nazionale; e che come spinta, orientamento, convinzione, parta dagli stessi meridionali".
Certo il progetto di Sturzo per lo sviluppo del Mezzogiorno, fondato sul protagonismo delle sue popolazioni disposte a rischiare, in un mondo globalizzato e in un contesto storico-culturale dominato da una politica assistenzialistica, questo progetto di un risorgimento sociale ed economico all'interno di una rinnovata solidarietà nazionale sembra difficile. Ma la centralità che sta riprendendo l'area mediterranea nell'economia e nella politica mondiale, il ruolo che nel terzo millennio giocherà l'Africa, la necessità di nuove regole di natura morale nell'economia dopo la crisi finanziaria dei nostri giorni e il dibattito sul federalismo, ci dicono che alcune intuizioni di Sturzo rimangono ancora valide.
La concezione autonomistica all'interno dell'unità nazionale era da lui concepita non solo in chiave economica e politica in funzione di motivazioni contingenti, ma scaturiva da una profonda esigenza etica e religiosa basata su un'antropologia sociale ispirata ai valori cristiani e ai principi della sussidiarietà, della solidarietà e del bene comune propugnati dalla dottrina sociale della Chiesa.


(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2011)
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L'impegno della Chiesa nei soccorsi alla popolazione giapponese

Oltre il dolore e la paura


TOKYO, 17. Se le dimensioni della catastrofe sono sempre più preoccupanti - con la terra che non smette di tremare e il timore crescente per le conseguenze dei danni agli impianti nucleari - la popolazione reagisce con "grande compostezza e dignità, ma anche grande solidarietà". È quanto assicura il direttore di Caritas Giappone, padre Dasuke Narui. Caritas Giappone e, più in generale, la Chiesa cattolica, attraverso le diocesi, le numerose parrocchie, i volontari stanno contribuendo in maniera coordinata allo sforzo che a livello nazionale si sta facendo per fornire gli aiuti alla popolazione. Il problema principale resta la mancanza di cibo e di carburante. Chi riesce ad allontanarsi, si sposta principalmente verso Sud.
Caritas Giappone ha messo a disposizione le proprie strutture e si sta coordinando col Governo per assistere i casi più bisognosi, in particolare le persone anziane, i disabili e le famiglie con bambini piccoli. A Sendai, una delle città più colpite dallo tsunami, è stato istituito un centro d'emergenza per coordinare le operazioni umanitarie.
La Caritas italiana, dopo aver messo a disposizione un primo contributo di centomila euro, si tiene in costante collegamento con Caritas Giappone e con la rete internazionale attraverso aggiornamenti e teleconferenze per coordinare gli interventi, analizzare i bisogni di tutta l'area colpita dal terremoto e dallo tsunami, cercare di raggiungere anche le zone più lontane e inaccessibili. Innumerevoli i messaggi di vicinanza e gli aiuti offerti dalle Caritas di tutto il mondo.
A Roma il cardinale vicario Agostino Vallini ha invitato tutta la comunità diocesana a una particolare preghiera, da tenersi durante le messe di domenica 20 marzo, per le vittime del devastante terremoto e per la difficile situazione che la popolazione deve affrontare in questi giorni. Iniziativa che si affianca alla colletta già avviata dalla Caritas diocesana. A Milano, nel pomeriggio di domenica 20, il cardinale arcivescovo Dionigi Tettamanzi presiederà in Duomo una messa per la comunità giapponese.


(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2011)
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La campagna della Conferenza episcopale spagnola

C'è sempre una ragione
per vivere


MADRID, 17. "La vita di ciascun essere umano è sacra, è un bene, e proteggere la vita è un dovere": è con questa esortazione che i vescovi di Spagna si rivolgono ai fedeli in occasione del lancio della Campagna per la Vita 2011, il cui tema è: "C'è sempre una ragione per vivere". L'iniziativa, che verrà celebrata il 25 marzo - Giornata per la Vita - è sostenuta in questi giorni da un serie di sussidi liturgici e informativi - anche video - per favorire la più ampia diffusione possibile della "voce" della Chiesa, rivolta in modo particolare ai malati e a tutte le persone sofferenti "che non riescono a vedere quanto la vita sia preziosa" nei loro momenti di sconforto.
? dunque un messaggio di conforto e di speranza quello che la Conferenza episcopale intende promuovere in un tempo di crisi morale e sociale. Attualmente, si osserva in una nota della subcommissione della Famiglia e della Vita dell'episcopato, "vi è un buio che porta a non apprezzare la grandiosità e la bellezza di ogni vita umana amata eternamente da Dio". Per i vescovi "questa oscurità sull'origine sacra e la dignità assoluta della vita umana si estende ad altri momenti dell'esistenza delle persone, nei quali si mostra e si sperimenta la fragilità". Proprio in questi momenti difficili, è aggiunto, "sono molti quelli che non riescono a vedere che la vita è un bene prezioso, anche quando è accompagnata da malattie gravi, demenza o disabilità fisica, momenti di povertà, di solitudine e di debolezza che segnano l'avanzare dell'età o il momento del tramonto della propria esistenza". Di fronte a questa fragilità dell'uomo, la Chiesa invita i fedeli a promuovere e a sostenere la rete della solidarietà: "Quando la società non sa dare un senso al dolore o alla fragilità umana e abbandona le persone alla loro solitudine, come membri della Chiesa ci sentiamo invitati a rispondere con l'amore di Cristo e a generare speranza nelle persone". Esse, si conclude, "sentendosi amate e accompagnate nella loro sofferenza o solitudine, possono quindi superare inganni e dolori, ovvero possono trovare la ragione per vivere".
Come accennato, vari supporti informativi accompagnano la diffusione del messaggio in tutte le diocesi del Paese. Fra l'altro, è già partita la distribuzione per le parrocchie di 50.000 volantini e opuscoli, cui si aggiungono 15.000 cartelloni che nelle strade e nelle piazze mostreranno logo e scopi dell'iniziativa. In particolare, oltre al suddetto materiale, quest'anno è stata decisa la realizzazione di un video della durata di due minuti e mezzo che, mediante la presentazione di quattro situazioni di sofferenza, ma anche di amore, faciliterà la diffusione del messaggio soprattutto tra le nuove generazioni che fanno ampio utilizzo degli strumenti multimediali. Il video, che compare su You Tube, può infatti essere condiviso attraverso i cosiddetti "social network". Le storie contenute nel video riguardano un anziano malato assistito dal figlio in ospedale; un bambino malato che riceve un regalo dai suoi familiari e amici; due persone disabili che si scambiano gesti di affetto e una nonna che parla con i suoi nipoti. Per la realizzazione del video, è spiegato, si è fatto ricorso alla collaborazione di attori volontari e non di professionisti. Tra le figure scelte per rendere testimonianza a favore della Campagna per la Vita c'è anche Andres Iniesta, che con il suo gol assicurò alla squadra ispanica la vittoria del Campionato mondiale di calcio dello scorso anno in Sud Africa. Tutto il materiale informativo sulla Campagna per la vita è peraltro consultabile sul sito www.siemprehayunarazonparavivir. Nel sito è visibile anche un'apposita sezione alla quale tutte le persone sono chiamate a contribuire inviando il racconto delle proprie esperienze personali per condividerle con gli altri utenti di internet. Il sito è collegato a quello della Conferenza episcopale in Spagna e a quelli dei principali social network.


(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2011)
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A colloquio con l'arcivescovo Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali

La cultura digitale
luogo d'incontro per l'evangelizzazione


di MARIO PONZI
È in dirittura d'arrivo il nuovo portale web della Santa Sede. Come già annunciato dall'arcivescovo Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, durante la recente plenaria del dicastero, subito dopo Pasqua sarà in rete in italiano, in inglese e in francese. "Ci sarà da aspettare ancora un po' - spiega il presule - perché sia operativo anche nelle altre lingue, cinese compreso. Del resto, abbiamo voluto che il progetto si realizzasse in maniera progressiva, per aver modo di apportare immediatamente tutte le modifiche che dovessero rendersi evidentemente necessarie in corso d'opera". Ma la plenaria non si è occupata solo del nuovo portale. Ce ne parla l'arcivescovo in questa intervista al nostro giornale.

La plenaria segna sempre un momento importante nella vita di un dicastero. Qual è il problema di fondo sul quale si è concentrata la vostra attenzione?

La plenaria consente un confronto diretto con i collaboratori, membri e consultori, i quali, vivendo la loro esperienza in tanti Paesi diversi, possono fornire un quadro complessivo sullo stato della comunicazione nel mondo. Quella di quest'anno ha avuto un significato e uno sviluppo particolari, perché è stata inaugurata dall'incontro con il Papa. Le sue parole sono state illuminanti proprio per farci capire quale deve essere il punto fermo: capire che la Chiesa è chiamata a dialogare con gli uomini di oggi, sempre più impregnati da una cultura digitale. Si tratta, in sostanza, di allargare gli orizzonti della diaconia della cultura. È quello che chiede il Papa quando raccomanda di conoscere, di capire i nuovi linguaggi attraverso i quali l'uomo contemporaneo si esprime, comunica ciò che egli è, ciò che egli percepisce.

Dunque un nuovo modo di evangelizzare?

La Chiesa deve certamente imparare ad annunciare Cristo secondo il linguaggio più facilmente e più direttamente comprensibile dall'uomo al quale si rivolge. Oggi si tratta dell'uomo dell'era digitale, della cultura digitale. E il Papa ha orientato la nostra riflessione in questo senso, ricordandoci che "occorre avere il coraggio di ripensare in modo più profondo, come è avvenuto in altre epoche, il rapporto tra la fede, la vita della Chiesa e i mutamenti che l'uomo sta vivendo" e chiedendoci un rinnovato impegno nell'aiutare "quanti hanno responsabilità nella Chiesa a essere in grado di capire, interpretare e parlare il nuovo linguaggio dei media in funzione pastorale". In sostanza, ci ha chiesto di pensare quali sfide il cosiddetto pensiero digitale pone alla fede e alla teologia, e quali sono le domande e le richieste che ne derivano.

Siete riusciti a trovare delle risposte?

Più che altro abbiamo individuato le realtà sulle quali è necessario intervenire per trovare risposte adeguate.

Per esempio?

L'accento è stato posto innanzitutto sull'attenzione pastorale da dedicare agli operatori del mondo della comunicazione. Si tratta di un aspetto fondamentale. Strettamente collegata è poi la questione della formazione di futuri sacerdoti, catechisti e laici impegnati, capaci di esercitare la loro missione nel mondo digitale. Lo scorso anno il Papa, nel messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, pose proprio l'accento sulla necessità di provvedere a una pastorale appropriata per il mondo della cultura digitale. Il punto fondamentale è cogliere le dimensioni più profonde dei processi comunicativi che via via emergono. La persona umana, come soggetto comunicativo, si esprime infatti attraverso un'attrezzatura tecnica che veicola un nuovo linguaggio, un modo nuovo di capire il mondo. È questo che va approfondito nei centri formativi della Chiesa, che già adesso vede tanti episcopati in prima linea. Dopo l'incontro delle università cattoliche del mondo organizzato qui a Roma lo scorso anno, abbiamo avviato noi stessi una serie di riunioni continentali proprio per incentivare questa attività formativa. Siamo già stati in Spagna, Thailandia e Stati Uniti. Prossime mete l'America latina e l'Africa. Si può ben parlare, dunque, di una "rete" di formazione vasta e articolata, alla quale il Pontificio Consiglio cerca, in molti modi, di dare il proprio contributo. Puntare forte sulla formazione è il nostro primo obiettivo. Se ne è discusso molto in plenaria.

E quali sono state le indicazioni?

Intanto i partecipanti hanno tenuto a ribadire che formare non significa aggiungere una materia in più da studiare nel percorso di apprendimento. O almeno non è questo l'aspetto più importante da curare. Bisogna invece ribadire il ruolo della comunicazione nella Chiesa e di conseguenza ripensare anche la teologia nella prospettiva della comunicazione. Molti degli intervenuti hanno poi posto l'accento sulla trasversalità della comunicazione all'interno della Chiesa stessa e hanno chiesto al Pontificio Consiglio di approfondire il dialogo con tutti gli altri dicasteri vaticani affinché si crei un legame profondo sul tema della comunicazione. La base ci ha chiesto, in sostanza, di ripensare il ruolo che il nostro dicastero dovrebbe interpretare nell'ambito della missione della Chiesa. Una missione, lo ricordiamo, dalla quale derivano complessi ed esigenti compiti operativi, che ci pongono di fronte non solo all'esercizio delle nostre responsabilità, ma, direi, alla ricerca di una forma di coerenza complessiva nei confronti del messaggio o del flusso di informazioni da comunicare.

Come si potrebbe realizzare questa collaborazione?

Riflettendo innanzitutto sul fatto che a ognuno, nel proprio ambito, è richiesto di trasmettere il messaggio evangelico, di viverlo e di testimoniarlo in modo concreto. E poi considerando che la comunicazione non è un settore, bensì un elemento costitutivo e culturalmente rilevante nella vita della Chiesa. Essa infatti si rivolge non solo ad extra ma anche ad intra, nel senso che, già in linea di principio, si pone l'obiettivo di estendere il proprio servizio verso tutti gli altri dicasteri vaticani. L'impegno primario di tutti non è altro che l'evangelizzazione, quindi l'annuncio sempre nuovo della Parola di Dio. Lo sviluppo delle nuove tecnologie impone assetti e, in molti casi, atteggiamenti sempre nuovi, collaborazioni più estese, coordinamenti più puntuali, sinergie più allargate. In questo senso siamo tutti chiamati a essere comunicatori; tutti convergiamo verso un unico obiettivo.

E il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali può essere il punto di riferimento?

Non parlerei tanto di punto di riferimento quanto piuttosto di un ruolo di collaborazione nello sviluppo di metodologie più adatte al nuovo modo di comunicare nell'era digitale, ben sapendo che anche queste vanno finalizzate a obiettivi comuni. Non si comunica per sé, perché l'autoreferenzialità è uno dei rischi maggiori di tutta la comunicazione. Da questo pericolo il Pontificio Consiglio intende stare molto alla larga.

In un'intervista dello scorso anno lei disse che il sacerdote deve restare il fulcro della diffusione del messaggio evangelico "qualunque sia la strada da percorrere per raggiungere l'uomo, anche se si tratta di una strada telematica". Cosa è cambiato, se è cambiato qualcosa, oggi?

Non è cambiato nulla perché non può cambiare nulla. E questo è un altro dei dati emersi durante la nostra plenaria. Nella comunicazione, al di là di ogni progresso tecnologico, non verrà mai meno l'esigenza costitutiva del messaggio. Torno a quello che ci ha detto il Papa all'inizio dei nostri lavori: "La fede sempre penetra e arricchisce, esalta e vivifica la cultura e questa, a sua volta, si fa veicolo della fede, a cui offre il linguaggio per pensarsi ed esprimersi. È necessario quindi farsi attenti ascoltatori dei linguaggi degli uomini del nostro tempo, per essere attenti all'opera di Dio nel mondo". Farsi attenti ascoltatori significa però anche e soprattutto saper ascoltare quello che Dio vuol comunicare. Si comunica se si ha qualcosa da dire. Il sacerdote, in questo senso, ha il grande privilegio di un messaggio che, per lui, si è fatto ed è diventato vita. Il suo compito è anche quello di comunicare - cioè di rendere partecipi tutti - questa sua gioia. Quando ciò avviene è un fatto che non passa inosservato; né per gli incontri diretti e personali, né sul web o nel cyberspazio. La verità sa farsi sempre strada nel mondo, pur così variegato e talvolta difficile, dei media. Al sacerdote non si chiede di essere un professionista della comunicazione, ma un servitore fedele e appassionato della Parola di Dio. Direi di più: l'efficacia della comunicazione dipenderà proprio dalla fedeltà e dall'amore che egli rivelerà nei rapporti con i fedeli.

Dal punto di vista pratico come intendete agire?

Intanto organizzando corsi di formazione. Cercheremo prima di tutto di dare un senso nuovo agli incontri con i vescovi in visita ad limina. Punteremo però soprattutto sulla formazione a livello internazionale. In questa ottica stiamo organizzando a Rio de Janeiro un seminario sulla comunicazione per i vescovi brasiliani, un incontro in Medio Oriente e un altro in Africa. Nella seconda parte dell'anno ne avremo uno anche in Cile, destinato agli operatori della rete informatica dell'America latina (Riial). Anzi, in questo vasto continente abbiamo avviato già da tempo una proficua collaborazione con il Celam e devo dire che il presidente, il cardinale Raymundo Damasceno Assis, si è mostrato particolarmente attento a questa forma di collaborazione.


(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2011)
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Se ne è parlato nel recente incontro convocato dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

La gente del mare e l'emergenza pirateria


di ANTONIO MARIA VEGLIÒ
Presidente del Pontificio Consiglio della Pastoraleper i Migranti e gli Itineranti
Il mondo dei marittimi è per lo più sconosciuto a molti di noi. È un'umanità di 1.200.000 persone imbarcate su centinaia di migliaia di navi che solcano gli oceani del mondo e vivono lontano dai nostri occhi, ignorati dalla società in genere anche quando transitano per i nostri porti.
Secondo un rapporto dell'Ufficio internazionale del lavoro (Uil), nel 2000 lavoravano nel settore mondiale della pesca circa 27 milioni di persone - incluse quelle a tempo pieno e parziale, e i pescatori occasionali - di cui l'82 per cento in Asia.
I marittimi, che possiamo definire "nomadi del mare", esercitano un'attività che li obbliga a restare isolati dalla terra ferma, dalla famiglia e dal proprio Paese per lunghi periodi, perfino interi mesi. I rapporti a bordo sono gerarchici, i turni di lavoro faticosi; e non è facile la convivenza forzata in spazi ristretti, con persone di nazionalità, lingua o credo differenti.
Non di rado può accadere che i marittimi siano abbandonati dall'armatore in porti lontani, sequestrati dai pirati in attacchi che si fanno sempre più numerosi e pericolosi, criminalizzati in caso d'incidenti in mare. Soprattutto, non è facile avere una vita cristiana regolare, partecipare alla messa nei giorni festivi, ricevere l'Eucaristia o altri sacramenti, in quanto ciò dipende dal Paese in cui si trova la nave e dai turni di lavoro.
Tutti questi elementi aggiungono alla fatica fisica un considerevole stress psicologico. L'Opera dell'apostolato del mare, fondata il 4 ottobre 1920 a Glasgow, in Scozia (si è da poco celebrato il 90° anniversario) da un gruppo di laici, è la risposta pastorale alle necessità globali della gente del mare. Anche se i porti si sono meccanizzati e le navi modernizzate, i bisogni dei marittimi sono rimasti fondamentalmente gli stessi: il contatto con la famiglia, il trasferimento dal porto (generalmente lontano dalla città) al centro abitato, l'acquisto di generi per le necessità personali. I centri Stella Maris, come quelli che, nonostante la crisi economica, sono stati aperti recentemente a Rio Grande (Brasile), Saldanha Bay (Sud Africa) e Taichung (Taiwan), offrono, in numerosi porti del mondo, questi e molti altri servizi, senza distinzione di nazionalità, lingua o religione.
Per tracciare la "rotta" da seguire negli anni a venire, il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti - che esercita l'alta direzione dell'Apostolato del mare - ha convocato nel febbraio scorso i coordinatori di otto regionali: America del Nord e Caraibi, America latina, Europa, Africa atlantica, Oceano Indiano, Asia del Sud, Estremo Oriente e Australia. Essi hanno discusso, come è consuetudine, dei principali temi che riguardano l'industria marittima, con particolare attenzione al benessere materiale e spirituale dei marittimi, dei pescatori e delle loro famiglie.
Quest'anno l'argomento principale è stato quello dell'emergenza della pirateria, che non è più solo un problema del golfo di Aden o delle coste somale. Nel suo intervento, lo scalabriniano Gabriele Bentoglio, sotto-segretario del dicastero, ha posto l'accento sui dati riportati dal rapporto globale sulla pirateria dell'International Maritime Bureau (Imb), secondo cui nel 2010 sono state attaccate 445 navi, 53 sequestrate e 1.181 marittimi catturati, di cui 8 uccisi in diverse circostanze. La preoccupazione dell'Apostolato del mare è rivolta soprattutto ai marittimi e alle loro famiglie, che spesso devono affrontare questa esperienza da sole, e pagano un prezzo enorme in termini di trauma psicologico e relative conseguenze.
Esistono fondamentalmente due tipi di pirateria, come ha messo in luce l'ammiraglio Pierluigi Cacioppo, vice ispettore delle Capitanerie di porto - Guardia costiera d'Italia (intervenuto in sostituzione del comandante generale, l'ammiraglio Marco Brusco): da un lato quella "occasionale", che ha come scopo il furto del carico e, dall'altro, quella "su larga scala", legata alla criminalità organizzata o a gruppi terroristici e che è diretta al sequestro della nave e alla conseguente richiesta di pagamento di un riscatto. L'obiettivo di "fornire assistenza a chi viene attaccato o sequestrato dai pirati e alle loro famiglie" - indicato dal recente piano di azione dell'Organizzazione internazionale marittima (Omi) - ha offerto all'ammiraglio la possibilità di presentare tre suggerimenti concreti per l'azione dell'Apostolato del mare: istituire un protocollo di linee guida con le modalità operative da suggerire sia ai marittimi sia alle loro famiglie, con una preparazione previa a tali eventi; stabilire un canale preferenziale di collaborazione con le autorità governative responsabili del caso; offrire assistenza spirituale, psicologica, sociale e materiale alle famiglie, anche creando una rete di solidarietà che coinvolga la comunità civile e religiosa dell'area. Dai rapporti dei coordinatori regionali è risultato l'impegno costante e quotidiano delle visite a bordo delle navi per cercare di favorire le relazioni tra il marittimo e la sua famiglia, i contatti con il Paese d'origine mediante telefoni cellulari, schede telefoniche a basso costo, connessione wi-fi per internet e versioni elettroniche di notizie nelle lingue delle dodici nazionalità più rappresentative degli equipaggi. Sempre dalle relazioni è emersa poi l'importanza che va acquisendo il ministero dei cappellani a bordo delle navi da crociera, dove sono impegnati, oltre che per l'assistenza spirituale ai passeggeri e all'equipaggio, anche per il benessere generale di questi ultimi. A questo riguardo è da evidenziare che l'Apostolato del mare italiano vanta una lunga tradizione iniziata nel 1935 e che continua ancora oggi.
I coordinatori regionali hanno poi messo in risalto la necessità di accrescere la sensibilità e l'attenzione dei responsabili delle Chiese nazionali, assegnando sacerdoti e diaconi, coinvolgendo maggiormente i laici e mettendo a disposizione risorse economiche per quest'apostolato.
La presentazione di don Giacomo Martino, direttore dell'ufficio per la pastorale degli addetti alla navigazione marittima ed aerea della fondazione Migrantes, sull'utilizzo dei diversi strumenti e programmi informatici, ha aperto nuovi orizzonti e possibilità per rafforzare la comunicazione e lo scambio d'informazioni tra la gente del mare (marittimi, famiglie e centri). Particolare interesse ha destato il programma di registrazione delle visite alle navi, che può anche costituire un importante database per analizzare la situazione reale del welfare marittimo.
Padre Dirk Damaeght ha condiviso la sua lunga esperienza di cappellano dei pescatori a Brugge (Belgio), mostrando come il suo impegno per il benessere di queste persone lo abbia portato a intervenire sia a livello politico che sociale per creare cambiamenti strutturali e legislativi, al fine di offrire maggiore sicurezza e protezione a questa categoria di lavoratori, così spesso ignorata. Le sfide maggiori nel mondo della pesca - a parte la ratifica della Convenzione 118 sul lavoro della pesca dell'Ilo e delle sue raccomandazioni - sono quelle di trasformare l'approccio spirituale e morale di una pesca sostenibile e responsabile in materia di educazione e formazione delle nuove leve di pescatori.
Grande è stato, infine, l'incoraggiamento ricevuto dalle parole che Benedetto XVI, nell'udienza generale di mercoledì 16 febbraio, ha rivolto direttamente ai coordinatori regionali invitandoli a "individuare adeguate risposte pastorali ai problemi dei marittimi e delle loro famiglie", segno che la loro missione è sostenuta e incoraggiata dalla Chiesa.
Al termine dell'incontro, i coordinatori regionali si sono dati appuntamento al 2012 quando si svolgerà a Roma il XXIV congresso mondiale dell'Apostolato del mare e verrà ricordato il 90° anniversario dell'approvazione, da parte di Pio XI, delle prime costituzioni e regole dell'Apostolato, con l'invito "che una così nobile iniziativa vada sempre più dilatandosi nelle zone marittime dei due emisferi e raccolga la più abbondante messe di frutti di salute".


(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2011)
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