Naturale sbocco dell'identità nazionale
L'unità d'Italia realizzata centocinquant'anni fa non è una "artificiosa costruzione politica di identità diverse" ma il "naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente nel tempo". Lo scrive il Papa nel messaggio inviato al presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, in occasione delle celebrazioni per il centocinquantesimo dell'unificazione nazionale. Il testo è stato consegnato al capo dello Stato dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, durante l'incontro svoltosi alle 11 di questa mattina, mercoledì 16 marzo, nel Palazzo del Quirinale.
Illustrissimo Signore
On. GIORGIO NAPOLITANO
Presidente della Repubblica ItalianaIl 150° anniversario dell'unificazione politica dell'Italia mi offre la felice occasione per riflettere sulla storia di questo amato Paese, la cui Capitale è Roma, città in cui la divina Provvidenza ha posto la Sede del Successore dell'Apostolo Pietro. Pertanto, nel formulare a Lei e all'intera Nazione i miei più fervidi voti augurali, sono lieto di parteciparLe, in segno dei profondi vincoli di amicizia e di collaborazione che legano l'Italia e la Santa Sede, queste mie considerazioni.
Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell'età medievale. Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell'identità italiana attraverso l'opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l'architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell'identità italiana. Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell'Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l'esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico. San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano. L'apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell'identità nazionale continua nell'età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l'unità d'Italia, realizzatasi nella seconda metà dell'Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale.
Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l'apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d'Azeglio, Raffaele Lambruschini. Per il pensiero filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana. E per quella letteratura che tanto ha contribuito a "fare gli italiani", cioè a dare loro il senso dell'appartenenza alla nuova comunità politica che il processo risorgimentale veniva plasmando, come non ricordare Alessandro Manzoni, fedele interprete della fede e della morale cattolica; o Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell'amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l'appartenenza all'istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: "cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa".
La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall'appartenenza ecclesiale dall'altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di "Questione Romana", suscitando di conseguenza l'aspettativa di una formale "Conciliazione", nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L'identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto. Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all'unità del Paese. L'astensione dalla vita politica, seguente il "non expedit", rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa. La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d'Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa. Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l'Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D'altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell'ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della "Questione Romana" attraverso imposizioni dall'esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l'11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: "Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell'irradiazione sul mondo, come prima non mai".
L'apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto. Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c'è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all'interno dell'Azione Cattolica, in particolare della Fuci e del Movimento Laureati, e dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema "Costituzione e Costituente". Da lì prese l'avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell'attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l'Italia in proiezione europea. Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell'On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet? Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella "grande preghiera per l'Italia" indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994.
La conclusione dell'Accordo di revisione del Concordato lateranense, firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Tale passaggio fu chiaramente avvertito dal mio Predecessore, il quale, nel discorso pronunciato il 3 giugno 1985, all'atto dello scambio degli strumenti di ratifica dell'Accordo, notava che, come "strumento di concordia e collaborazione, il Concordato si situa ora in una società caratterizzata dalla libera competizione delle idee e dalla pluralistica articolazione delle diverse componenti sociali: esso può e deve costituire un fattore di promozione e di crescita, favorendo la profonda unità di ideali e di sentimenti, per la quale tutti gli italiani si sentono fratelli in una stessa Patria". Ed aggiungeva che nell'esercizio della sua diaconia per l'uomo "la Chiesa intende operare nel pieno rispetto dell'autonomia dell'ordine politico e della sovranità dello Stato. Parimenti, essa è attenta alla salvaguardia della libertà di tutti, condizione indispensabile alla costruzione di un mondo degno dell'uomo, che solo nella libertà può ricercare con pienezza la verità e aderirvi sinceramente, trovandovi motivo ed ispirazione per l'impegno solidale ed unitario al bene comune". L'Accordo, che ha contribuito largamente alla delineazione di quella sana laicità che denota lo Stato italiano ed il suo ordinamento giuridico, ha evidenziato i due principi supremi che sono chiamati a presiedere alle relazioni fra Chiesa e comunità politica: quello della distinzione di ambiti e quello della collaborazione. Una collaborazione motivata dal fatto che, come ha insegnato il Concilio Vaticano II, entrambe, cioè la Chiesa e la comunità politica, "anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane" (Cost. Gaudium et spes, 76). L'esperienza maturata negli anni di vigenza delle nuove disposizioni pattizie ha visto, ancora una volta, la Chiesa ed i cattolici impegnati in vario modo a favore di quella "promozione dell'uomo e del bene del Paese" che, nel rispetto della reciproca indipendenza e sovranità, costituisce principio ispiratore ed orientante del Concordato in vigore (art. 1). La Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come afferma il Concilio Vaticano II: "chiunque promuove la comunità umana nel campo della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche un non piccolo aiuto, secondo la volontà di Dio, alla comunità ecclesiale, nelle cose in cui essa dipende da fattori esterni" (Cost. Gaudium et spes, 44).
Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l'onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all'esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d'Italia. Passate le turbolenze causate dalla "questione romana", giunti all'auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata.
Nel presentare a Lei, Signor Presidente, queste riflessioni, invoco di cuore sul popolo italiano l'abbondanza dei doni celesti, affinché sia sempre guidato dalla luce della fede, sorgente di speranza e di perseverante impegno per la libertà, la giustizia e la pace.
Dal Vaticano, 17 marzo 2011
(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)
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Una storia per l'unità
Il 17 marzo 1861, un secolo e mezzo fa, la proclamazione dell'unità italiana fu un momento simbolicamente fondamentale di una storia più che millenaria in un Paese legato in modo davvero singolare al cristianesimo. Al punto che la sua fisionomia e identità - come più in generale quelle del continente europeo - non sarebbero comprensibili, sul piano storico e da un punto di vista spirituale, se non si tenesse conto di questa indubbia e profonda caratteristica che, con altre diverse, ne rappresenta le radici.
Senza la tradizione cristiana, e in particolare senza la tradizione cattolica e senza il papato, insomma, l'Italia non sarebbe ciò che è stata e ciò che è oggi. Un Paese dal passato importante - per molti aspetti ineguagliabile ed esemplare, nonostante le ombre e le miserie, inevitabili come in ogni vicenda umana - e che merita un futuro all'altezza dei momenti più alti della sua storia. Un Paese riconosciuto e apprezzato nei suoi tratti inconfondibili, al di là di vicende travagliate e dolorose, nel consesso internazionale. Oggi in Italia l'unità nazionale è celebrata con sentimenti diversi: giustificata fierezza, infondate reticenze, ma soprattutto preoccupazioni pressanti per una crisi che nel Paese ha molti volti. In uno scenario globale segnato da fatti sconvolgenti in diverse parti del mondo, dal Giappone al Medio oriente sino a diversi Paesi africani. A queste celebrazioni, di un'unità costituitasi di fatto contro il papato e il suo potere temporale, la Chiesa cattolica partecipa oggi con un'adesione certo non formale. Lo attesta il messaggio del Papa che il suo segretario di Stato, con un gesto senza precedenti, ha consegnato al Presidente italiano al Quirinale, il colle che guarda il Vaticano.
È un gesto che esprime volontà di collaborazione e di amicizia vera al servizio del bene di tutti. Nella linea ininterrotta di una tradizione spirituale e culturale unica al mondo, trasformatasi negli ultimi secoli e negli ultimi decenni in una storia per l'unità reale e profonda del Paese. Un'unità alla quale moltissimi cattolici - donne e uomini non di rado esempi viventi di santità - hanno contribuito con una presenza molteplice e vivace. Fondata nella radicale carità di Cristo venuto per salvare ogni essere umano e svelargli il volto di Dio.g. m. v.
(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)
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Fukushima terrorizza il Giappone
TOKYO, 16. Ancora ore di angoscia e apprensione in Giappone per la situazione nella centrale nucleare di Fukushima, dove ieri sera è stata registrata un'altra esplosione con fuoriuscita di materiale radioattivo dal reattore numero 3. A causa degli alti livelli di contaminazione, sono state sospese le operazioni degli elicotteri dell'esercito nipponico, che si erano alzati in volo per versare dall'alto acqua sui reattori della centrale, che si teme abbia subito danni alla vasca di contenimento. Lo ha riferito la televisione Nhk. Il portavoce capo del Governo giapponese ha assicurato che i livelli di radioattività intorno alla centrale atomica - dove tutti gli addetti sono stati fatti temporaneamente sgomberare - non sono per il momento tali da costituire un immediato rischio per la salute in un raggio di 20 chilometri dall'impianto.
Dal terremoto di magnitudo 9,0 di venerdì scorso, la centrale di Fukushima ha subito finora quattro esplosioni e due incendi. E per il timore della nube radioattiva, a migliaia stanno fuggendo da Tokyo. I giornalisti delle agenzie di stampa internazionali hanno detto che stamane le strade della capitale del Giappone sono vuote come in una giornata di festa, e molti negozi chiusi. Tokyo si trova a 240 chilometri di distanza dalla centrale di Fukushima. La Croce rossa internazionale ha comunque reso noto che la città è sicura. Oggi, in una rara apparizione televisiva, l'imperatore giapponese Akihito ha fatto un discorso alla Nazione. Rivolgendosi alla popolazione colpita dal terremoto e dallo tsunami, l'imperatore si è detto profondamente preoccupato dalla crisi nucleare e ha chiesto a tutti di restare uniti nelle difficoltà. Akihito ha aggiunto che i problemi nella centrale di Fukushima, dove le autorità stanno combattendo per evitare una catastrofe nucleare, sono imprevedibili, spiegando di essere seriamente allarmato dalle conseguenze del sisma, che ha descritto come senza precedenti. Le emittenti televisive hanno interrotto la normale programmazione per la prima apparizione pubblica dell'imperatore dal terremoto di venerdì scorso, in cui hanno perso la vita migliaia di persone. "Spero dal profondo del cuore che le persone, tenendosi per mano, si trattino con compassione e superino questi momenti difficili", ha detto Akihito al Paese.
E mentre la terra continua a tremare (oggi è stata registrata un'altra scossa di magnitudo 6 con epicentro alla periferia orientale di Tokyo), le autorità nipponiche hanno aggiornato il bilancio del terremoto e del successivo tsunami. Le vittime accertate sono salite a 3.373, mentre i dispersi sono oltre 7.550. Si teme, però, che i morti possano essere molti di più, perché migliaia di persone mancano ancora all'appello a Iwate e a Miyagi, le provincie più colpite dal maremoto. Circa 100.000 militari, con l'aiuto di centinaia di volontari stranieri, sono tuttora impegnati nelle zone devastate in cerca di eventuali superstiti.
(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)
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Assedio a Bengasi
Indici in positivo sulle maggiori piazzeLe Borse asiatiche sfidano l'incubo nucleare
TRIPOLI, 16. Siamo a un nodo cruciale della drammatica crisi libica. Mentre le forze fedeli a Muammar Gheddafi annunciano il loro imminente arrivo ("tutto sarà finito entro 48 ore") a Bengasi - seconda città del Paese e roccaforte dei ribelli - la comunità internazionale incontra enormi difficoltà a trovare un accordo per fermare le violenze.
Dopo una marcia inarrestabile verso la Cirenaica, anche per la sproporzione delle forze militari sul terreno, l'aviazione governativa libica ha oggi bombardato Bengasi. I raid hanno preso di mira soprattutto l'aeroporto. Medici senza Frontiere ha annunciato ieri sera di avere richiamato tutti i suoi operatori da Bengasi spostandoli ad Alessandria d'Egitto. È in corso da questa mattina un'offensiva anche alla città di Misurata, a est di Tripoli. Secondo residenti, i governativi stanno avanzando con blindati e, utilizzando artiglieria, stanno attaccando la città da tre lati e si sono avuti almeno cinque morti e decine di feriti. Il colonnello Gheddafi, parlando davanti a una rappresentanza della tribù Mseleta, in un discorso diffuso anche dalla televisione di Stato, ha detto: "Se questo è un complotto degli stranieri, li schiacceremo. Se è un complotto interno, lo schiacceremo". Il raìs ha accusato ancora una volta Al Qaeda per la rivolta cominciata il 17 febbraio.
Francia e Gran Bretagna hanno intensificato le pressioni per ottenere la creazione di una no-fly zone da parte del Consiglio di sicurezza dell'Onu sulla Libia, ma non è detto che otterranno soddisfazione vista l'opposizione della Cina e le perplessità di Paesi europei come la Germania e il Portogallo, oltre alla Russia. A nome della Lega araba, che la scorsa settimana aveva chiesto all'Onu di organizzare una zona di non volo sul Paese nordafricano, il Libano ha presentato ieri sera un nuovo progetto di risoluzione. Ma qualsiasi decisione verrà presa dall'Onu potrebbe essere tardi. E inoltre mentre il ministro degli Esteri francese, Alain Juppè, ha affermato oggi che diversi Paesi arabi sono pronti a partecipare a un intervento militare in Libia, il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha detto: "La guerra non si può fare: l'azione militare la comunità internazionale non la deve, a mio avviso, non la vuole e non la può fare".
(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)
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TOKYO, 16. Dopo il più brusco calo dal 1987, la Borsa di Tokyo è riuscita a effettuare il rimbalzo: oggi la piazza ha chiuso in positivo, con il Nikkei in salita del 5,68 per cento. In scia la maggior parte dei mercati asiatici. Si ferma, intanto, la corsa del petrolio.
Il rimbalzo maggiore è stato proprio quello della piazza azionaria giapponese, che si è mossa in netto rialzo anche grazie alla ripresa dei prezzi delle materie prime, un segnale che, almeno dal punto di vista finanziario, decreta come la prima fase del disastro che ha colpito il Giappone sia conclusa. Ora gli operatori guardano allo sviluppo dell'allarme nucleare, allo stato della produzione di energia e alle conseguenze sulle infrastrutture, che comunque andranno ricostruite. In questo quadro, sul mercato nipponico, comunque ancora molto volatile, il titolo della Tokyo electric power ha ceduto il 24,57, mentre quello della Mitsui chemical è cresciuto del 19,23. Tra questi due estremi, la Mitsubishi electric è salita del 14,80 per cento, Sumitomo dell'11,35, Isuzu del 10,49. Molto bene anche altri titoli come Sanyo (più 10,20), Nomura holding (più 9,82), Toyota (più 9,14) e Sony (più 8,78), ma anche Honda, che ha annunciato rallentamenti alla produzione, è salita del 3,90.
Seduta pesante, invece, per le Borse europee sulla scia dei timori innescati dalle esplosioni nella centrale nucleare di Fukushima. L'indice d'area Stxe 600 ha ceduto ieri il 2,27 e le previsioni sono ancora molto negative. I listini del Vecchio Continente hanno subito anche il contraccolpo di una serie di dati macroeconomici provenienti dagli Stati Uniti. Con l'attività manifatturiera dello Stato di New York salita oltre le attese degli analisti, al pari dei prezzi delle importazioni e delle esportazioni, i mercati sono infatti rimasti depressi. Questa mattina i mercati continentali hanno aperto tutti in positivo con Londra, che fa segnare un più 0,10 per cento, e Francoforte a più 0,78.
Intanto, per migliorare lo stato del sistema la Bank of Japan ha portato l'iniezione di liquidità a 13.800 miliardi di yen (oltre 120 miliardi di euro). Una mossa - spiegano gli analisti - volta soprattutto a sostenere i mercati: dopo le prime due tranche di prestiti alle istituzioni finanziarie a breve termine, si sono aggiunti altri 8.800 miliardi in programma.
La casa automobilistica Toyota ha annunciato oggi il parziale riavvio della produzione in sette dei suoi ventidue stabilimenti sul territorio giapponese che erano stati tutti chiusi dopo il devastante terremoto. A ripartire sono state le fabbriche di componenti, così da poter fornire subito pezzi di ricambio al mercato domestico. Un portavoce del colosso nipponico ha fatto sapere che non è ancora stato deciso quando riapriranno gli stabilimenti che producono invece auto.
Sul fronte delle materie prime, le quotazioni petrolifere hanno fatto registrare un andamento molto contrastato in Asia. I timori per la crisi nucleare in Giappone hanno fatto scendere il prezzo del Brent a 107,35 dollari al barile, il minimo di tre settimane. Le notizie sulla repressione della rivolta in Bahrein hanno però fatto risalire il greggio del mare del Nord, che ora è scambiato a un dollaro a 109,52 dollari al barile. In lieve calo, invece, il light crude di New York, che cede 17 cent a 97,02 dollari al barile. Ieri, il Brent di Londra ha ceduto cinque dollari, assestandosi a 108,67 dollari al barile. Il Light Crude a Wall Street è arretrato di quattro dollari a 97,19 dollari al barile.
(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)
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E i cattolici diventarono
i difensori dell'unità
di SILVIA GUIDI "Se l'espressione non ricordasse sgradevolmente altre ridicole e millantate progeniture (è chiaro a quali altri celebri "figli" della storia italiana del Novecento sto pensando) io e quelli della mia generazione potremmo davvero dirci "figli della Repubblica"". Nella postfazione a L'identità italiana - ripubblicato insieme a Cavour di Luciano Cafagna La donazione di Costantino del nostro direttore alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell'unità nazionale (per festeggiare l'anniversario la casa editrice Il Mulino presenta anche i primi trenta titoli della collana "L'identità italiana" in versione digitale) - Ernesto Galli della Loggia rischia la prima persona singolare, inconsueta in uno storico; il titolo del capitolo aggiunto all'ultima ristampa L'identità di un italiano, indica esplicitamente che in questo caso il campione statistico esaminato coincide con l'autore stesso. All'analisi più strettamente scientifica dedicata agli aspetti geografici e storici dello Stivale, ottenuta intrecciando molti fili diversi - il paesaggio e il quadro ambientale, l'eredità latina e il retaggio cristiano cattolico, il policentrismo urbano e regionale, il familismo e l'invadenza della politica - si aggiunge un racconto autobiografico che "vuole essere una sorta di ricerca personale dei modi concreti, ma anche dei pensieri, delle emozioni, insomma dei più vari tramiti attraverso cui un italiano, nato più o meno all'alba della Repubblica, ha vissuto in tutti questi decenni l'appartenenza al proprio Paese, in che modo egli si è sentito (o non sentito) italiano".Frutto di una vicenda millenaria, ricca di prestiti e di contaminazioni, l'identità italiana è tuttora percepita come fragile e non ha saputo tradurre nelle forme della modernità un'idea unitaria del Paese; su questo tema, la "storia confidenziale" dell'Italia della seconda metà del Novecento tracciata dall'autore nelle pagine conclusive cede il passo alla cronaca di una delusione: "La mia generazione, mentre si schierava dalla parte delle res novae, ha però fatto ancora in tempo a sentire l'insieme di questo lascito del passato come il fondo decisivo, vivo e pulsante della propria identità. Abbiamo voluto scommettere, e abbiamo sperato, che anche nel futuro avrebbe potuto continuare a essere così. Apparentemente l'esito della scommessa è ancora incerto. Ma via via che passano i giorni la speranza diventa sempre più tenue e il passato sembra prendere il colore evanescente del superfluo, consegnandoci solo a un grigio presente". Anche la Chiesa percepisce questo scollamento, questo processo di disaggregazione, di disunione, di paura, di mancanza di speranza in un momento in cui "un disperato qualunquismo", per dirla con Galli della Loggia ("Corriere della Sera" del 30 dicembre scorso) è il chiaro sintomo di una disaffezione dalla politica, dal Paese, dalle istituzioni pubbliche avvertite a una distanza siderale rispetto alla realtà. Senza scomodare la società liquida di Bauman è evidente a tutti che lo spirito di unità, di condivisione di un comune destino, si è fatto tenue. La Chiesa vuole, oggi, tenere unito un popolo perché lo considera un valore, una vittoria sugli egoismi e sulle barriere, e ciò indipendentemente dal giudizio sulle modalità storiche con cui si è realizzata l'unità italiana e "mostra - scriveva ancorasul "Corriere della Sera" del primo dicembre scorso Aldo Cazzullo - un approccio sereno a fatti laceranti che richiederebbero qualche revisione sul fronte laico. Sono molti i segni dell'attenzione ai 150 anni: un convegno della Conferenza episcopale italiana, il segretario di Stato nel settembre scorso a Porta Pia, per la prima volta dal 1870, il dibattito in corso sui giornali cattolici. Paradossalmente a salvare quel Risorgimento che fu fatto contro la Chiesa potrebbe essere proprio la Chiesa".
Solo una battuta brillante o un'affermazione che contiene anche una parte di verità?
Penso che questa affermazione sia vera ma soltanto dal punto di vista politico. L'interesse per il Risorgimento credo sia più o meno equamente distribuito oggi tra tutte le persone che hanno un minimo di interesse per le cose pubbliche del Paese. Quello che è vero è che oggi i cattolici sono diventati i fautori più determinati dell'unità d'Italia, questo sì, dopo esserne stati non dico i nemici più accaniti, ma essere stati comunque all'opposizione, il gruppo sociale più ostile, insieme ovviamente a quelli che appoggiavano la vecchia monarchia preunitaria, oggi sono invece diventati i più determinati nell'appoggiare l'unità, nel riconoscere nell'unità nazionale un valore. C'è stato un grande spostamento negli ultimi decenni nel rapporto tra gli italiani e il Risorgimento e non solo, anche tra gli italiani e il sentimento patriottico-nazionale, le due cose sono molto accoppiate, negli ultimi tempi c'è stato un ingresso a vele spiegate nel fronte dei filo-risorgimentali e dei filo-italiani della sinistra che fino a qualche tempo fa manteneva delle riserve o comunque una distanza psicologica e sentimentale nei confronti di tutta la vicenda risorgimentale, in cui oggi invece si riconosce in pieno; viceversa nella destra c'è la creazione di una grande fetta di opinione pubblica polemica verso il Risorgimento e l'unità nazionale. I cattolici dal momento della conciliazione e poi dall'arrivo al potere nel 1945 si sono pienamente riconosciuti nell'unità nazionale, e quindi per forza nel Risorgimento; e ancora di più questa identificazione si è accresciuta con la comparsa sulla scena politica italiana della Lega.
Il disincanto - scrive Massimo Borghesi su Ilsussidiario.net - ha ucciso la retorica nazionale ma ne ha creato un'altra, celebrando al posto di questa, la "disunione" d'Italia.
Sicuramente nulla come l'esistenza di una cosa chiamata Stato italiano ha contribuito al fatto che gli italiani in un secolo e mezzo si siano alimentati meglio, abbiano abitato in case più confortevoli, abbiano avuto un'istruzione migliore, abbiano potuto crescere in ricchezza, e così via, lo Stato italiano è stato un grande promotore dello sviluppo economico, oggi tutto questo appare abbastanza dimenticato, colpevolmente dimenticato anche perché negli ultimi trent'anni il Risorgimento, l'unità nazionale, insomma tutto questo processo storico è stato sostanzialmente messo da parte nei programmi scolastici, non ha avuto grande spazio, poi perché sono ricomparse una serie di tensioni divisive e l'immigrazione che hanno ridato spazio a tutte le divisioni storiche del Paese: prima il nord contro il sud e poi il sud contro il nord, in una sorta di nostalgia borbonica anti-italiana, penso soprattutto a Terroni di Pino Aprile, tra i libri più venduti negli ultimi mesi, un atto di accusa violentissimo e infarcito di inesattezze e di dati sbagliati contro l'unificazione italiana sul tema del Mezzogiorno povero angariato e oppresso; è vero che fa sempre più notizia ciò che è negativo rispetto a ciò che è positivo: diciamo che negli ultimi trent'anni ha fatto sempre più notizia quello che era negativo dell'Italia, quello che non funzionava; cose che sono tutte vere naturalmente, ma tutto il resto non ha fatto notizia, è stato cancellato in qualche modo dalla memoria, e quindi gli effetti si vedono oggi.
Lei ha accusato più volte questa storiografia di un errore di metodo: scambiare i "giocattoli del re" per un indice di sviluppo.
Aprile sostiene che il regno di Napoli era la terza potenza industriale d'europa; molte delle "prove" di queste affermazioni sono dati reali mitizzati o fraintesi. Qualche esempio: le fabbriche di tessuti di San Leucio, vicino a Caserta, che producevano tessuti molto pregiati, erano tutte attività finanziate dal re e dalla casa reale per l'arredamento dei propri palazzi, così come le fabbriche di porcellana di Capodimonte; non è che ci fosse un mercato in Italia o nel regno del sud delle stoffe di San Leucio né dei prodotti di Capodimonte: erano fabbriche reali che servivano per la corte; il sud versava in condizioni economiche di arretratezza, anche rispetto a quei tempi. Sono cose che vengono completamente cancellate e dimenticate da questa moda di nostalgismo filo-sudista.
Il desiderio di riappropriarsi della propria storia, di per sé legittimo, se diventa ideologia porta a mitizzare dei particolari.
Non vedendo invece le cose generali. Una per tutte: la Lombardia da sola aveva più strade di tutto il regno del sud. Pensare a uno sviluppo economico senza strade è un po' difficile. Il tasso di analfabetismo dell'Italia meridionale era tra il 70 e il 90 per cento, in Sicilia il dieci per cento sì e no della popolazione sapeva leggere e scrivere (e nella popolazione femminile soltanto le donne dell'aristocrazia); nel nord invece il tasso di analfabetismo nel Lombardo-Veneto era tra il 40 e il 50 per cento, molto di meno. Ancora più forte era il dislivello tra le città, tra Milano e Napoli per esempio. I dati sono questi, e non vengono contestati, solo non vengono ricordati. Al loro posto viene citata la Napoli-Portici. Nessuno se lo chiede mai, ma a cosa servivano otto chilometri di ferrovia fra Napoli e Portici? Mentre la Torino-Genova fatta da Cavour serviva a molto, per il trasporto di merci, la Napoli-Portici non significava niente dal punto di vista commerciale, non esisteva neanche un traffico di viaggiatori. Era una grande novità la ferrovia, e il re di Napoli aveva voluto provare com'era andare in treno, le sensazioni che si provavano a bordo, viaggiando dalla sua residenza nella capitale alla villa fuori città.
"Un film riuscito proprio perché nessuno credeva che sarebbe mai stato girato"; Luciano Cafagna descrive così il miracolo politico dell'unità italiana, vedendo in Cavour il regista di un'opera riuscita quasi per caso.
È un paradosso intelligente, e come tale nasconde una verità. Nessuno avrebbe mai scommesso molto su un progetto del genere perché la quantità e la qualità dei fattori contrastanti erano molto superiori alla quantità e la qualità dei fattori a favore, eppure, miracolosamente, è il caso di dire, il progetto unitario riuscì, grazie soprattutto a Cavour, come Cafagna spiega molto bene. L'unità come un film che non si sa come fare a girare, ma viene girato perché ci fu un fortissimo elemento di improvvisazione e di casualità nella costruzione dell'Italia: su questo non ci sono dubbi. Cavour seppe sfruttare degli errori che l'Austria avrebbe potuto benissimo non fare, come l'ultimatum al Piemonte che dette il pretesto al conte di iniziare la seconda guerra di indipendenza (anticipazione dell'errore fatto con l'ultimatum alla Serbia intimato nel 1914 da Francesco Giuseppe dopo l'uccisione dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo). C'è un elemento di casualità e di fortuna, perché le cose potevano andare diversamente e prendere una piega imprevista. Tutti questi elementi nel libro di Cafagna sono messi molto in evidenza, viene descritta la decisiva dimensione politica, l'invenzione politica quasi giorno per giorno dovuta al genio di un uomo. Sicuramente il Risorgimento è la dimostrazione del ruolo della personalità, dell'individuo nella storia; se non ci fosse stata una persona dell'abilità, della spregiudicatezza, dell'intelligenza di Cavour non so se si sarebbe potuta fare l'unità d'Italia, e anche se non ci fosse stato un uomo come Garibaldi. La personalità del singolo conta nella storia, conta, eccome. Anzi, forse questo è stato un male perché ha lasciato una specie di dna nella storia italiana, un po' di culto eccessivo dell'uomo nella storia politica, l'idea che l'uomo geniale, lo statista di piglio può risolvere le situazioni più complicate, cosa che spesso ha prodotto effetti rovinosi.
Nel suo libro analizza le mille differenze del "policentrismo" italiano. Che cosa può contribuire di più a rinsaldare il senso di un'appartenenza comune?
Per rispondere a questa domanda servirebbe la sfera di cristallo; è un po' come cercare la mappa per l'Eldorado. Comunque più che far appello a qualche fattore concreto, servirebbe qualcuno - un partito o qualcosa di simile - che spiegasse agli italiani i vantaggi che hanno avuto a essere riuniti e continuano ad avere e il disastro che sarebbe il dividersi. Qualcuno che facesse riflettere più su dati di realtà di natura storica, che non vengono tenuti in considerazione, da mettere in campo per rinsaldare l'unità. A parte questi fattori di tipo ideologico culturale, penso che ci siano dei dati che producono un'immagine del sud come qualcosa di diversamente affidabile; qualunque battaglia contro la delinquenza organizzata per spazzare via questo fenomeno rinsalda l'unità del Paese, qualsiasi miglioramento delle condizioni civili del Mezzogiorno, da quello delle città a quello delle comunicazioni, è una cosa che gioca a favore dell'unità del Paese perché diminuisce la divisione che c'è, divisione di percezioni culturali e divisioni anche concrete naturalmente, è soprattutto sul terreno della cultura civica e della legalità che l'unità d'Italia si può oggi rinsaldare, perché è su questi punti che si sono prodotte le diversità maggiori.
"Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono" cantava Gaber. Gli italiani hanno un'ambivalente percezione di sé, che va dalla facile autodenigrazione all'orgoglio; "all'italiana" è un modo di dire inventato dagli stessi italiani per designare quel misto di pressappochismo e di insufficienza con cui si affrontano le emergenze o si organizza l'ordinario.
Quest'ambivalenza non esiste forse un po' in tutti i Paesi? Siamo sicuri che non abbiano anche loro questa ambivalenza, che i francesi, a esempio non dicano talvolta: la Francia è il più bel Paese del mondo ma qualche volta dovremmo essere come i tedeschi? In certe occasioni storiche l'hanno detto, per esempio nel 1870 dopo Sedan ci fu una grande corrente culturale in Francia. Faccio un nome per tutti: Ernest Renan pensò che quella sconfitta militare era anche il sintomo di un ritardo complessivo della Francia in molti campi e che bisognava imitare la Germania. Certo, a livelli molto alti e non di chiacchiera da bar, comunque fu un discorso che penetrò profondamente nell'opinione pubblica, che la Francia era in ritardo e bisognava rimettersi in carreggiata e "gli altri erano meglio". Gli italiani nella percezione di sé hanno un problema storico, sanno di aver avuto un grandissimo passato; più o meno loro, poi, perché è discutibile che il passato della Roma antica sia un passato italiano, si possono muovere ragionevoli obiezioni a questa filiazione, ma comunque sono cose che sono avvenute in Italia e hanno lasciato tracce sulla nostra vita, sul paesaggio e così via. Quindi da un lato sanno di avere questo glorioso passato alle spalle - magari non è il loro, ma comunque è alle loro spalle - e per almeno tre, quattro secoli hanno poi dovuto misurare che dal punto di vista politico e sociale contavano poco o niente, e questo forse ha prodotto questo doppio registro di percezione di sé. Poi possono esserci tanti altri fattori, ma probabilmente in noi parla la mentalità del nobile decaduto.
Nel recente film di Martone Noi credevamo la visione è quella di un Risorgimento senza eroi, cupo, dominato dal fanatismo nazionaltotalitario di Mazzini. Una stesso desiderio di smascherare "di che lacrime gronda e di che sangue" quest'epoca muove lo storico Alberto Mario Banti, che avanza dubbi "sulla opportunità di continuare a cercare nel Risorgimento il mito fondativo della nostra attuale Repubblica"".
Nell'analisi di Banti c'è una totale cancellazione del Risorgimento come fatto politico; non c'è Cavour, non c'è la politica. Il che è una cosa che forse corrisponde allo stato d'animo presente degli italiani che non ne possono più, hanno schifo della politica, la disprezzano. Dal punto di vista storico si tratta di una notevole...
Ingenuità?
Non ingenuità, contraffazione della realtà delle cose. C'è stato innanzitutto un processo guidato politicamente con un fortissimo investimento nella politica come spiega il libro di Cafagna, senza la politica non si sarebbe potuto realizzare. C'è invece un affollarsi di analisi di personaggi, sentimenti, situazioni che vengono troppo avulsi dal proprio contesto e a cui viene data troppa centralità. Non si può giudicare il passato con gli occhiali di oggi. Banti vorrebbe che ci dissociassimo dal Risorgimento perché aveva modelli di comportamento e di idee con i quali non ci possiamo riconoscere, ma con questo criterio tutti dovrebbero dissociarsi dal loro passato nazionale. I francesi non si possono riconoscere in una rivoluzione francese che aveva la ghigliottina e le stragi di settembre, che decapitava innocenti a migliaia, che ha fatto la Vandea. Se uno dicesse polemicamente "ma allora voi vi riconoscete in questo?" chi potrebbe dire "sì, mi riconosco nello sterminio dei vandeani?". Gli inglesi si possono riconoscere nelle stragi che alla metà del Settecento il regno di Inghilterra fece degli scozzesi e degli irlandesi? Tutti i passaggi nazionali sono cosparsi di sangue, di uccisioni, di oppressioni e la storia è un banco di macelleria, come diceva Hegel. Tutte le storie, la storia delle nazioni, ma anche la storia dei movimenti politici che non sono stati nazionali. Da questo a dire che allora noi non ci possiamo riconoscere nel linguaggio dell'inno d'Italia, nel virilismo che anima tutta la prosa risorgimentale, come sicuramente lo animava, come la prosa di tutto il nazionalismo di tutti i Paesi europei - non ce ne è stato uno in cui non ci fosse questo virilismo patriottico - è una notevole ingenuità nel lavoro di uno storico di professione. È la stessa operazione dei "sudisti" che per trovare una giustificazione alla situazione attuale dell'Italia meridionale invocano il passato. Sono due usi del passato assolutamente impropri e strumentali, uno per giustificare l'oggi, l'altro per dissociare l'oggi dallo ieri e affermare che esistiamo, che siamo italiani solo perché possiamo riconoscerci nella Costituzione italiana. Siamo italiani per moltissime altre ragioni, tra cui il fatto che c'è uno Stato che si chiama Italia ed è stato fondato durante il Risorgimento.
Quali piste di ricerca consiglierebbe a un giovane studioso interessato al tema della nascita dell'Italia?
Non tanto di occuparsi del Risorgimento, super scandagliato da decenni, quanto di investigare il dopo. Le cose più interessanti possono venir fuori da studi sul periodo immediatamente successivo all'unità, per esempio l'incontro del nord con il sud. Posto che gli storici quando studiano il passato sono mossi da interessi contemporanei, oggi a me piacerebbe molto leggere dei libri di ricerche che mettano in luce quali sono stati i problemi, le reazioni, gli stati d'animo di coloro che concretamente hanno prodotto l'incontro del nord con il sud: gli impiegati che sono andati al sud dal nord, il prefetto toscano che porta la famiglia dove lavora, il tenente dei carabinieri che viene dalla Lombardia, come è avvenuto nei piccoli crogiuoli della quotidianità locale quest'incontro, con la nascita di quali sentimenti, di quali opinioni, di quali percezioni, di quali tensioni. Alcune cose sono già state pubblicate; ci sono testi interessantissimi sui professori che andavano nei licei del sud, spaccati delle società dell'epoca che possono fornire materiale prezioso; lavorerei su questo filone di ricerca.
(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)
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La patria perduta del Nabucco
di MARCELLO FILOTEI Quando la musica aveva ancora un ruolo sociale se ne occupavano anche i patrioti. Aveva infatti senso chiedersi "perché il coro, che nel dramma greco rappresentava l'unità d'impressione e di giudicio morale, non otterrebbe nel dramma musicale moderno più ampio sviluppo, e non s'innalzerebbe, dalla sfera secondaria passiva che gli è in oggi assegnata, alla rappresentanza solenne ed intera dell'elemento popolare?".Certo Giuseppe Mazzini, nella sua Filosofia della musica del 1836 pensava a Rossini come traghettatore dal vecchio al nuovo. Il genovese col pallino di "costruire l'Italia in nazione una, indipendente, libera e repubblicana" non poteva immaginare che di lì a non molto sarebbe stato invece Verdi a essere preso a simbolo del sentimento unitario, complice oltre al genio anche il felice acrostico nel quale è stato sciolto il suo nome (Vittorio Emanuele Re D'Italia).
Per questo la profezia di Zaccaria nel Nabucco, attraverso la quale il gran pontefice degli ebrei comunica al suo popolo abbattuto nuove speranze e vigore, viene da alcuni studiosi messa in rapporto proprio con le parole di Mazzini, che si scaglia contro "i maestri e i trafficatori di note" e si rivolge a quanti "nell'Arte sentono il ministero, e intendono la immensa influenza che s'eserciterebbe per essa sulle società, se la pedanteria e la venalità non l'avessero ridotta a meccanismo servile, e a trastullo di ricchi svogliati". Scontata ma inattaccabile, dunque, la scelta di mettere in scena proprio la terza opera verdiana nel giorno delle celebrazioni per l'unità d'Italia il 17 marzo al Teatro dell'Opera di Roma, diretta da Riccardo Muti alla presenza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Certo non è ancora l'esplicito riferimento a I vespri siciliani che arriverà decenni dopo, ma la "patria perduta" che gli ebrei anelano nel celebre coro poteva a buon motivo rappresentare l'aspirazione degli idealisti che fecero l'impresa, che in realtà la patria non l'avevano perduta perché non l'avevano mai avuta. E certo la storia è per certi versi sempre la stessa, due giovani si amano ma appartengono a mondi diversi, in guerra tra loro. Come sempre salvare la diletta significa condannare il proprio popolo. Ma la tensione è verso quello che potrebbe essere: ogni parola è rivolta a un luogo lontano dove vivere in pace, tutti uniti. Impossibile, conoscendo l'opera, travisare questo messaggio. Ascoltando il Nabucco per intero, chi non fa propri i valori dell'unità, potrebbe cogliere l'occasione se non per cambiare idea - solo i visionari come Mazzini riconoscono tanto potere alla musica - almeno per scegliere un altro compositore di riferimento.
(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)
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Nel mirino degli estremisti
i musulmani aperti al dialogo
di ALESSANDRO TRENTIN Cresce la tensione in Indonesia per un nuovo atto di violenza volto a impedire la diffusione della cultura del dialogo e della pace tra le comunità religiose. Ignoti hanno compiuto un attentato presso la sede di Giacarta del Liberal Islamic Network, un'organizzazione che raggruppa diversi movimenti musulmani moderati per la tutela dei diritti delle minoranze, che ha rapporti di collaborazione anche con la comunità cristiana. L'attentato, in particolare, era diretto a colpire il fondatore dell'organizzazione, Ulil Abshar Abdalla, rappresentante del partito democratico, che in quel momento non era presente nel proprio ufficio. Secondo quanto affermato dallo stesso Abdalla si tratterebbe "di una chiara minaccia contro chi vuole promuovere nel Paese la difesa dei diritti di tutte le comunità".
L'attentato, come spiega a "L'Osservatore Romano" un rappresentante dell'Istituto Italiano di Cultura a Giacarta, Erlip Vitarsa, "è un segnale preoccupante" per il Paese, dove il fondamentalismo religioso di matrice islamica da tempo cerca di minare quelli che sono i principi costitutivi di pace e dialogo della nazione, sanciti nella Pancasila, che garantiscono in particolare la libertà religiosa. Il rappresentante dell'Istituto Italiano di Cultura, impegnato come volontario nella Comunità di Sant'Egidio, aggiunge che il Liberal Islamic Network "è un importante centro di riferimento per la promozione della tolleranza, di cui fanno parte una cinquantina di leader musulmani, che portano avanti iniziative comuni anche con altre comunità religiose". C'è una larga parte della società, conclude Vitarsa, "che rifiuta ogni forma di estremismo e che vuole favorire l'armonia sociale". Tra i membri del Liberal Islamic Network figura peraltro una donna, Siti Musdah Mulia Mulia, la quale dirige la Indonesian Conference on Religion and Peace, un'associazione composta da diversi organismi religiosi che lavorano per il confronto, la giustizia e la pace.
Diversi sono i gruppi musulmani moderati che operano nel Paese. Oltre all'Indonesian Conference on Religion and Peace, il Wahid Institute of Jakarta, il Lakpesdam Nu, l'Institute for Interfaith Dialogue, il Marif Institute. Questi gruppi svolgono attività di educazione al pluralismo, con particolare riferimento ai giovani oppure di carattere umanitario in caso di emergenze. I loro rappresentanti partecipano poi costantemente a convegni, seminari o altre iniziative di approfondimento culturale". Il Liberal Islamic Network sostiene, fra l'altro, una campagna contro la discriminazione della setta, considerata eretica, degli Ahmadi, oggetto di una specifica fatwa da parte del Consiglio indonesiano degli ulema. "Bandire l'attività degli Ahmadi - ha affermato Ulil Abshar Abdalla - è una violazione dei diritti delle minoranze e gli ulema hanno abusato della religione musulmana".
(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)
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La solidarietà
è più forte del terremoto
TOKYO, 16. Mentre chi può si mette in fuga, soprattutto per sottrarsi al rischio della contaminazione nucleare, la comunità cristiana, pur nella sua esiguità, è in prima linea nel prestare soccorso alla popolazione. "La solidarietà è più forte del terremoto", dice padre Charles-Aime Bolduc, missionario canadese e portavoce della diocesi di Sendai, dove lo tsunami ha cancellato il confine tra la terra e il mare. E dove i presuli cattolici del Paese si sono dati oggi appuntamento per mettere a punto, insieme con i responsabili di Caritas Giappone, un primo piano di interventi. A Sendai, infatti - è questa una delle decisioni scaturite nell'incontro - sarà istituito un "Centro di emergenza" per gestire le operazioni umanitarie. "Ci sono morti fra i fedeli cristiani, ma non abbiamo ancora cifre precise. Siamo scossi, ma abbiamo ricevuto il conforto dei vescovi giapponesi. Il sostegno che stiamo ricevendo dal Giappone e da tutto il mondo ci infonde speranza", ha detto il vescovo di Sendai, Martin Tetsuo Hiraga.
Attualmente, a decine di migliaia sono accampati nelle scuole, nelle palestre, negli edifici che restano in piedi. "Nonostante faccia molto freddo hanno una sola coperta", racconta ancora padre Charles. Le temperature invernali riducono il rischio di epidemie, ma le condizioni igieniche generali e la mancanza di acqua potabile sono un grosso problema". "Il dramma non ha piegato la disciplina e la dignità dei giapponesi anche perché dal resto del Paese e dal mondo continuano ad arrivare aiuti umanitari". La situazione più critica riguarda la regione costiera, a una decina di chilometri dalla città di Sendai. "Portare cibo e prestare assistenza - sottolinea padre Charles - è quasi impossibile: le strade sono state inghiottite dal mare, non si passa". Anche a Sendai, inoltre, c'è ansia per gli incidenti nell'impianto nucleare di Fukushima, circa 100 chilometri più a sud. Gli ordini di evacuazione e le disposizioni straordinarie del Governo si applicano alle zone in un raggio di 30 chilometri dalla centrale, ma la paura non si ferma lì. "La nostra squadra di soccorso - racconta Aine Ono di Caritas Giappone - ha raggiunto la diocesi di Sendai, quella più colpita, e dovrebbe cominciare a distribuire acqua e cibo nelle prossime ore".
Sempre a Sendai, si sono svolti ieri, nella cattedrale, i funerali del missionario canadese André Lachapelle, della Società per le Missioni Estere del Québec, in Giappone dal 1961, che è stato travolto dalle onde dello tsunami, mentre cercava di raggiungere in automobile la sua parrocchia di Shiogama.
Tra le testimonianze di solidarietà anche quella della Chiesa cattolica in Myanmar che ha indetto per domenica 20 marzo una Giornata speciale dedicata alle vittime giapponesi. L'arcivescovo di Yangon, Charles Maugun Bo, in accordo con gli altri presuli del Paese, ha invitato tutte le parrocchie a offrire le messe in suffragio delle vittime e a indire una speciale colletta da destinare alla Caritas giapponese.
(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)
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