domenica 27 marzo 2011

Conversando con... Massimo D’Alema «Quel giorno che Berlinguer mi convocò e mi disse: sarai il segretario della Fgci» da l'Unità del 26 Marzo 2011 "cartaceo" di Pietro Spataro


 
Non mi sono mai pentito di essere stato un militante e un dirigente del Pci».
Massimo D'Alema chiude così, dopo quasi due ore, questa conversazione su un periodo cruciale della storia d'Italia, quello che va dal 1975 al 1980, durante il quale guidò la Federazione dei giovani comunisti.
Un viaggio politico, ricco di ricordi e di aneddoti, che abbiamo fatto insieme per la mostra sulla storia del Pci «Avanti popolo» che da oggi, fino al 10 aprile, farà sosta a Livorno.
Un ragazzo comunista.
«Per essere precisi, mi sono iscritto alla Fgci nel 1963, avevo 14 anni e nel mio liceo a Genova ero l'unico comunista. La riscoperta della politica avvenne qualche anno dopo, quando nel '67 vinsi una borsa di studio per la Normale di Pisa e mene andai di casa. In quella scuola eravamo in tre iscritti al Pci: Fabio Mussi, io e il bibliotecario. Ma non ci scoraggiammo e dopo cinque anni 84 studenti su 101 si erano tesserati. Fu il segno di un cambiamento d'epoca. Certo, in quel partito succedevano anche cose curiose per un giovane. A me accadde di essere, non dico obbligato ma caldamente invitato a sposarmi.
Fu nel '70, avevo 21 anni ed ero capogruppo del Pci in Comune a Pisa. Allora vivevo con una ragazza giovanissima e il segretario cittadino a un certo punto mi fece questo discorso: Massimo, ti devi sposare perché ormai sei una personalità pubblica. Rimasi stupefatto e risposi che non avevo una lira. E lui: non ti preoccupare, facciamo tutto noi. Obbedii, era un'epoca in cui non era facile fare diversamente da quel che diceva il partito. Mi sposai a Volterra, ci fu una grande festa popolare.
Diciamo che fu un matrimonio non lungo, ma felice». Segretario della Fgci.«Me lo chiese Berlinguer di fare il segretario. Nel '75 alla guida della Fgci c'era Renzo Imbeni che gli aveva dato una grande forza, ma era il momento della successione: se la contendevano Paolo Franchi e Amos Cecchi. Il Pci, però, ritenne di puntare su un esponente della generazione del '68. Circolarono diversi nomi: Mussi, Fassino, insomma si fece una rosa. Io allora stavo per diventare segretario a Pisa. Proprio in quei mesi Berlinguer venne a chiudere la Festa dell'Unità. Il segretario della federazione mi raccontò che voleva sapere tutto su di me. Aggiunse: preparati, sta per succedere qualcosa. E infatti fui chiamato a Roma nell'ufficio di Berlinguer a Botteghe Oscure, dove solo metterci piede dava una certa emozione. Mi disse, di fronte a Chiaromonte e Pecchioli: abbiamo deciso che sarai il segretario della Fgci, che cosa pensi di fare? Risposi: preferirei restare a Pisa. Lui sorrise: no, abbiamo deciso che sarai il segretario della Fgci, che cosa pensi di fare come segretario della Fgci?
Devo dire che nella federazione giovanile, in nome dell'autonomia, ci fu una certa resistenza. Il gruppo dirigente era molto vivace: c'erano Domenici, Errani, Veltroni, Bettini, Livia Turco. Alla fine cercai di farmi accettare più sul piano della politica, perché credo che a molti stavo antipatico. Poi lavorammo bene insieme per cinque lunghi anni». Anni cruciali. «Sì, quelli furono anni cruciali. Ci fu, intanto, la grande ascesa del Pci alle elezioni del ‘75 e del ‘76 e i comunisti erano al centro dell'attenzione. Come segretario della Fgci partecipavo alle riunioni della Direzione, dove c'erano, per dire, Terracini, Amendola, Colombi. Per sei mesi non ebbi il coraggio di prendere la parola. Allora al Comitato centrale si discuteva in modo conformista, se dicevi “sono d'accordo con la relazione” e non “sono pienamente d'accordo” voleva dire che avevi qualche dubbio.
Nella Direzione invece se ne dicevano di tutti i colori. Ricordo quando Terracini criticò la solidarietà nazionale e parlò contro l'ipotesi di Andreotti presidente del consiglio. Ci fu un battibecco tra lui e Macaluso. Berlinguer intervenne spiegando che in ogni caso un dc sarebbe stato il capo del governo. E Macaluso interruppe: il problema è che Terracini lo vorrebbe comunista... E Terracini si girò, gelido, verso Macaluso: bisognerebbe vedere quale comunista, rispose. Dopo il '76 però cominciarono le difficoltà. Ci fu da una parte una reazione conservatrice all'avanzata del Pci e dall'altra la delusione della società che ci aveva votato per cambiare e si trovava un governo dc sostenuto da noi. La rivolta giovanile nasce in questo contesto e noi giovani comunisti ci trovammo stretti in mezzo.
Fu un periodo durissimo.
E il momento più drammatico fu l'assalto a Lama all'Università di Roma, nel '77, un giorno di violenza inaudita. Ricordo l'attivo che si svolse nella federazione romana, con una trentina di persone con le teste fasciate e il braccio al collo. Qualche giorno dopo ci fu un Comitato Centrale e io tenni la relazione. Berlinguer doveva fare le conclusioni ma si ammalò, si disse che ebbe un'indigestione di datteri, forse una malattia diplomatica. Vincino su Lotta Continua lo prese in giro disegnando tanti datteri, i “datteri metropolitani”, i “datteri autonomi”... Comunque finì che le conclusioni dovetti farle io. Sì, quello era un partito nel quale i giovani avevano uno spazio. Poi certo ci furono anche scontri drammatici. E uno di questi portò alla chiusura del nostro giornale, “La città futura”, che era diretto da Adornato ed era un gran bel giornale sul quale scrivevano bravissimi intellettuali in modo anticonformista.
Quando uscì un corsivo durissimo contro Trombadori firmato con uno pseudonimo venimmo convocati a Botteghe Oscure. Volevano sapere chi era l'autore, ma non lo dicemmo. Ora si può dire, tanto non ci sono più sanzioni: era stato Federico Rampini. Ho un altro ricordo di quegli anni: il festival mondiale della gioventù a Cuba nel '78, un evento straordinario anche a livello culturale. Arrivarono 40 mila ragazze e ragazzi da tutto il mondo, e non c'erano solo i comunisti. Non si dormì mai. Noi dall'Italia portammo gli “Area” di Demetrio Stratos, oltre al jazz, gente di grandissima qualità. E una notte Fidel Castro ci convocò in un night club, arrivò con la pistola alla fondina e facemmo una lunga discussione sull'eurocomunismo che a lui non piaceva per niente». Io e Berlinguer. «Come era Berlinguer? Aveva un'autentica passione per le questioni internazionali. Forse la conversazione più bella che ebbi con lui fu quando mandò noi giovani in Cina, dopo la vittoria dell'ala riformista di DengXiao Ping. Fu un viaggio straordinario e al ritorno portammo un volume di osservazioni. Rimanemmo a parlare con lui fino alle dieci di sera. Era un uomo riservato, non amava esibirsi. Una volta a Milano in albergo fu circondato dai giocatori della Juventus e qualcuno gli disse: sappiamo che lei ha simpatia per la nostra squadra. Chiunque avrebbe sorriso e lui invece disse: no no, io tifo per il Cagliari, anzi per la Torres. Era fatto così. Ma è stata una delle personalità più rilevanti della storia italiana. E' stato un innovatore, ebbe una percezione illuminante della rivoluzione femminile e di quella ambientale. Sicuramente, però, in lui ha sempre pesato una distanza rispetto all'esperienza socialdemocratica, questo fu il suo limite che ha condizionato anche il Pci.»
Quel drammatico 1978. «Sono d'accordo, il '78 è un anno periodizzante: segna la fine della prima repubblica e l'esaurirsi della democrazia dei partiti. Anche perché finisce il rapporto tra Berlinguer e Moro e l’idea di una fase nuova che il segretario del Pci aveva chiamato compromesso storico. Fu un passaggio drammatico. Ricordo ancora la mattina del 16 marzo, il giorno del rapimento di Moro e dell'uccisione della scorta. Andavo al lavoro in auto con mio padre, che era presidente
della commissione Finanze alla Camera, e sapemmo dalla radio. Si svolse una drammatica riunione della Direzione del Pci a Montecitorio perché proprio quel giorno c'era il dibattito sulla fiducia al governo Andreotti. Nel partito la tensione era forte, quell'esecutivo era particolarmente deludente: Moro aveva ceduto a tutte le pressioni delle correnti dc.
Mi tornano in mente le parole di Amendola: se non fossimo di fronte a questo dramma mi sarei opposto, ma ora bisogna che il Paese abbia subito un governo. Molti di noi la pensavano così». Comunisti e comunisti. «Certo che ci furono ritardi nel prendere le distanze dal socialismo reale. Ma, per la mia generazione, fu la Cecoslovacchia, nel '68, il punto di rottura. Nei giorni dell'invasione ero a Praga, all'alba del 18 agosto mi affacciai dal mio alberghetto e vidi i carri armati sovietici. Scesi in piazza con i ragazzi cecoslovacchi, si disegnavano le svastiche sui tank.
Quando arrivò la notizia che il Pci aveva disapprovato quell'invasione fu motivo di grande orgoglio. Però, da allora fino all'82, quando Berlinguer parlò dell'esaurimento della spinta propulsiva, sono troppi anni rispetto alla consapevolezza che quello era un mondo che non aveva nulla a che fare con quel che pensavamo noi». Noi e il Pci. «Il mio giudizio sulla storia del Pci? In due parole è impossibile, qui ho raccontato una parte della mia esperienza politica. Dico, quindi, una cosa più semplice: sono stato un militante e un dirigente comunista, ho anche ricoperto la mitica carica di responsabile dell'Organizzazione e non sono pentito.
Tra luci e ombre è stata una grandissima esperienza politica e umana». Il racconto di D'Alema finisce qui. Cosa accadde dopo è noto: la crisi del Pci, la morte di Berlinguer, la svolta di Occhetto e la nascita del Pds, tangentopoli e la fine della prima Repubblica, la comparsa sulla scena di Silvio Berlusconi... Ma questa è un'altra lunga storia.

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