ROBINSON
Mein Kampf,
Chi ha letto un libro, ha visto una mostra, ha ascoltato un concerto è diverso da come era prima? E se è diventato diverso, è necessariamente migliore di prima? È una domanda che ciascuno pone a sé stesso, soprattutto se appassionato di arti, letteratura, musica, scienza, insomma di tutto ciò che siamo soliti chiamare “ cultura”. Peraltro, questa benedetta domanda, “ la cultura rende migliori?”, mi attraversa in quanto scrittore, ma mi attraversa ancora più fortemente, invece, nell’attività che svolgo insieme ad altri, e per altri, e cioè il lavoro nel carcere di Rebibbia come insegnante di lettere nella sezione staccata di un istituto tecnico: il ruolo classico del professore di scuola.
È chiaro che andare in posti come la galera dove comunque le esperienze sono estreme, le persone a cui tu insegni sono particolari e così via, ti fa domandare più volte al giorno, e più volte in un anno, e più volte nel corso di una carriera — posso chiamarla così visto che lavoro lì dal 1994, insomma, una carriera sempre ferma, un’anti- carriera, quella dell’insegnante, che comincia e finisce esattamente sempre sullo stesso gradino — perché sai che lì ci sarebbe da raggiungere un risultato ulteriore a quello meramente scolastico, e dunque non puoi non porti la domanda “ l’insegnamento a queste persone contribuisce in qualche misura ad allontanarle dalla ragione per cui sono qui?” — vale a dire, dalla delinquenza? Lo studio, la scuola, riducono o non riducono la cosiddetta “ recidiva”? Cosa accade ai tuoi studenti dal momento in cui entri nella classe fino al momento in cui ne esci a fine lezione? Intendo dire ogni giorno, non a fine anno o a fine studi.
Sì, usare la parola riscatto per una volta è opportuno: ogni ora della vita di un individuo ( e, incredibile a dirsi! persino i ragazzini e le ragazzine e i detenuti sono individui…) è irripetibile e unica, quindi, durante quel lungo tratto (se cominci dalle elementari e finisci col diploma, sono tredici anni di vita), cosa è successo? Di quell’ammasso di ore e di giorni, cosa ne è stato? E quei gruppi variabili formati da bambini e poi ragazzi e ragazze, e maestre e professoresse che sono entrate in classe davanti a quindici, venti, trenta persone, cosa hanno fatto? Che cosa è veramente accaduto loro?
La galera obbliga a prestare attenzione alla singola lezione, alla singola irrecuperabile giornata per una ragione semplice: tu non hai alcuna certezza che la persona con cui stai parlando, a cui stai insegnando matematica o disegno, o diritto, o una ballata di Cavalcanti, sarà con te il giorno seguente o il mese seguente. Le primissime lezioni e le prime settimane di scuola sono infatti decisive, devi catturare queste persone, che si trovano con te solo per non stare a marcire chiuse in cella e, piuttosto della cella, preferiscono sorbirsi quattro o cinque ore di fisica, di scienze o di grammatica. Queste persone vanno catturate prima che si disperdano, affinché non preferiscano restarsene a morire in branda piuttosto che venire ad ascoltare te, oppure se ne vadano al passeggio, dato che per venire a scuola rinunciano alle due ore d’aria della mattina… e poi tu sai fin dall’inizio che, per loro fortuna, alcuni verranno scarcerati; per loro sfortuna, alcuni si ammaleranno o forse moriranno, perché già malati; altri ancora verranno trasferiti nottetempo in altre galere, e non li vedrai più; altri ancora andranno a fare i loro processi che, come sapete bene, in Italia possono durare anni.
Negli anni ho avuto una interessante conferma di una sola cosa: la letteratura italiana è leggibile? Sì, lo è. Così alta, difficile, crudele, esasperante, perché Dante, Machiavelli, Leopardi sono autori estremi, quasi insostenibili nella loro radicalità: sono autori sempre sul punto di far crollare tutto, tutti i valori, tutte le cose in cui uno crede. Per esempio, il radicale materialismo leopardiano già è complicato farlo passare a un ragazzino di sedici anni, figurarsi a un uomo di quaranta o di cinquanta che lì in galera si attacca alla fede, alla famiglia, a qualche valore residuo, be’, arriva Leopardi e gli stronca pure quello. Infatti, alcuni miei studenti, onestamente, mi hanno confessato: « Guarda, preferisco la menzogna, preferisco l’illusione, preferisco ingannarmi, avrà forse ragione lui, non lo nego, però io devo appigliarmi a qualcosa per vivere » .
La domanda decisiva sulla letteratura italiana ha ricevuto una risposta lungo tutti questi anni, e ora posso affermarlo senza tentennamenti: la letteratura italiana è grande, è leggibile e si può leggere ovunque e a chiunque. Per esempio Dante, d’accordo, è difficile, però è talmente potente, è talmente pieno di cose per cui se non acchiappi l’intero, porterai sempre a casa qualcosa. Un po’ come Shakespeare: io ho visto tantissimi orrendi Shakespeare, però uscendo dal teatro mi accorgevo che mi ero portato a casa delle scene, magari gli attori erano cani, non importa, magari lo scenografo aveva combinato pasticci con la foresta di Macbeth, non importa, la grandezza filtrava comunque. Ecco, Dante, e faccio l’esempio massimo ma anche quello più arduo, passa. E se passa in galera, deve passare ovunque, anzi, mi correggo: non deve passare, può passare. Questa è la scoperta in positivo. La scoperta in negativo — ma è un negativo che io vorrei comunicarvi in quanto noi dobbiamo conviverci e coltivarlo e addirittura prosperare in esso, o almeno vivere negli interstizi, nelle fessure di questo negativo — è che in effetti la cultura non salva nessuno. Non salva proprio nessuno. Mi dispiace dirlo a chi è convinto che un uomo che ha letto un libro sia sicuramente migliore di uno che non l’ha letto: be’, non è così. Tra i peggiori e i pessimi ci sono tanti uomini colti, uomini che possedevano biblioteche e ascoltavano musica sublime. La cultura non rende migliori le persone. I campi di concentramento non li hanno ideati uomini ignoranti. Noi pensiamo che la barbarie si scateni solo a causa dell’ignoranza, ma questo è un falso storico. Anzi, l’ignoranza pura ( sarò forse un po’ roussoviano, o ingenuo io stesso), che peraltro nella sua purezza quasi non esiste più, protegge, per esempio, dalla cattiva cultura e dai suoi equivoci. A me nelle interviste chiedono di continuo, come una specie di mantra: “ Qual è il libro che ti ha cambiato la vita?”. E io rispondo: “ Guarda che se un singolo libro ti cambia la vita, vuol dire che sei un idiota… oppure che hai letto solo quello”, infatti tendo a pensare che il libro che cambia la vita sia il
quello sì che te la cambia! Lo leggi, e poi ti radi a zero i capelli, e cominci a urlare slogan, a marcare il passo… Sono i libri, semmai, che ti cambiano la vita, tanti libri, molto diversi, che te la cambiano e te la fanno cambiare ancora, in un senso e nell’altro. Quindi da questa idea della conversione tramite cultura, della cultura salvifica, io sono spaventato, e irritato, penso che indichi povertà e dogmatismo.
Quindi alla domanda iniziale: la cultura è un riscatto, serve a questo, garantisce questo? la risposta è no, non lo garantisce, non c’è alcuna garanzia. E soprattutto non esiste — questo luogo comune vorrei che venisse deposto una volta per tutte — alcun marchio di superiorità morale in chi ha ricevuto un’educazione rispetto a chi non la ha, o non l’ha avuta. La parola cultura rischia di essere una discriminante odiosa quanto quella razziale, anzi, persino più odiosa, perché colorata di un connotato di classe insopportabile. Il problema vero semmai è la mezza ignoranza, perché la santa e piena ignoranza è oramai rarissima, quasi impossibile da trovare, quella per capirsi del proverbiale contadino di una volta.
Visitando con mia figlia la mostra di fotografie di Berengo Gardin, le dicevo, in maniera un po’ schematica: «Guarda questi volti tipici italiani degli anni Cinquanta o Sessanta: non ci sono più, si sono estinti » . Una cosa del genere fu verificata da Stanley Kubrick, quando, per l’ultima scena di
Shining,
il lungo carrello al termine del quale si vede Jack Nicholson che stava lì, all’Overlook Hotel, già nel 1929, ha provato a scattare la foto- ricordo di quel capodanno usando delle comparse di oggi, e poi ha dovuto rinunciare perché si percepiva chiaramente che i volti degli uomini e delle donne degli anni Ottanta, quando ha girato il film, non erano credibili; perciò ha dovuto prendere una foto d’epoca e incollarci dentro la faccia di Jack Nicholson, in mezzo a una folla di fisionomie che sono inimitabili, non esistono più. Poi siamo usciti dalla mostra di Berengo Gardin e abbiamo incontrato per strada una foto vivente di Berengo Gardin, cioè, quattro vecchi signori pistoiesi che erano identici a quelli delle foto degli anni Quaranta e Cinquanta. Allora ho fatto immediatamente la mia ritrattazione: « Scusami, tutto quello che ti ho detto prima, Margherita,
non è vero » .
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Il libro
Il testo di Edoardo Albinati (premio Strega 2016 con La scuola cattolica)
che pubblichiamo in queste pagine è tratto dal libro La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi
(Utet, 128 pagine, 12 euro). Il libro fa parte della collana “Dialoghi sull’uomo” nata dalla collaborazione tra Utet e il festival “Dialoghi sull’uomo” di Pistoia, diretto da Giulia Cogoli e dedicato all’antropologia del contemporaneo. Tra gli altri, nel libro, i saggi di John Eskenazi, Vittorio Lingiardi e Paola Mastrocola
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