Introduzione
Ringrazio di cuore la chiesa che è in Brescia e il suo
vescovo Luciano Monari per l’invito rivoltomi. Vorrei inoltre esprimere la mia
riconoscenza per mons. Ivo Panteghini e la Compagnia dei Custodi delle S.S.
Croci, presso la quale ritorno volentieri ogni volta che mi è possibile.
Il tema che è stato assegnato alla mia riflessione è il
capitolo 22 della Genesi, che vi presenterò in una traduzione un po’ più fedele
al testo originale. La tradizione cristiana definisce questa pagina «sacrificio
di Isacco»; la tradizione ebraica – a partire dal v. 9: «Abramo … legò (verbo
‘aqad) il figlio Isacco» – ne parla invece come della «legatura (‘aqedah) di
Isacco»: in conformità alla lettera del testo biblico, infatti, Isacco fu
legato in preparazione al sacrificio, ma poi non realmente sacrificato. Nella
dialettica tra questi due possibili titoli riassuntivi del testo sta il senso
profondo dell’itinerario che percorreremo insieme.
La narrazione è aperta da una sorta di titolo, un’enigmatica
sintesi dell’intero brano: «Dio mise alla prova Abramo» (Gen 22,1), versetto
che rimane in sospeso fino all’affermazione dell’angelo: «Ora so che tu temi
Dio» (Gen 22,12). Tra queste due estremità si svolge un racconto duro,
difficile, forse anche scandaloso, che non si lascia penetrare facilmente. Si
tratta di una pagina che necessita innanzitutto di essere compresa e commentata
alla lettera. Solo successivamente sarà possibile discutere alcune tra le
interpretazioni di Genesi 22, dando particolare rilievo a quelle sorte in
ambito cristiano. Tutto ciò senza dimenticare che questo testo, quanto più
viene letto e spiegato, tanto più suscita interrogativi e pone in questione la
nostra fede.
Commento letterale
a) Il comando di Dio
Nel tempo intercorso dal primo incontro con Dio (cf. Gen
12,1-3) Abramo ha approfondito la propria fede, ha imparato ad abbandonarsi
totalmente a colui che sempre porta a compimento le sue promesse. Egli è ormai
un credente maturo ed è giunto alla pienezza dei suoi giorni avendo svolto in
piena obbedienza il mandato affidatogli da Dio. Ed ecco che, quando Isacco è
adulto, arriva per Abramo l’ora di una nuova conoscenza di Dio. Dopo la
chiamata e la promessa sigillata dall’alleanza, dopo la promessa confermata e
realizzata con la nascita di Isacco, ora la promessa passa al vaglio della
prova suprema.
Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico, che tu ami,
Isacco, va’ (lekh lekha) nel territorio di Moria e offrilo in sacrificio su un
monte che io ti dirò» (Gen 22,1-2).
Perché Dio mette alla prova Abramo? Una parte della
tradizione rabbinica risponde che questa prova è opera di Satana, il quale
convince Dio ad agire in tal modo per vedere se Abramo gli rimarrà fedele anche
in questo frangente, non solo nella buona sorte che fino a quel momento l’ha
accompagnato. Non convince più di questa ingenua spiegazione neppure quella di
alcuni padri della chiesa, secondo i quali Dio intenderebbe in tal modo
accrescere la fama di Abramo agli occhi dei secoli futuri (così, per es., Agostino,
La città di Dio XVI,32,1). L’enigma resta e richiede una lettura più
approfondita per essere colto come mistero attinente allo spazio della fede.
Come agli inizi della storia di Abramo, anche qui non c’è
nessuna apparizione di Dio; solo una parola (cf. Gen 12,1; 13,14), o meglio una
chiamata ripetuta due volte, a indicare una rivelazione importante, decisiva:
«Abramo! Abramo!». E subito Abramo risponde: «Eccomi!» (hinneni), parola
straordinaria che riassume in sé la disponibilità piena a compiere la volontà
di Dio (cf. Lc 1,38). E la voce di Dio gli chiede: «Lekh lekha! Vattene! Va’
verso te stesso!». Si tratta delle medesime parole rivolte ad Abramo in Gen
12,1, con un parallelismo che si spinge anche oltre e comprende l’indicazione
di un luogo: là una terra, qui un monte nel territorio di Moria. Insomma,
Abramo è chiamato a un nuovo inizio, a ricominciare da capo il suo viaggio, ad
andare alle radici della sua vocazione per ripetere puntualmente la sua
obbedienza a Dio…
Abramo sa bene che avere obbedito al Signore ha significato
adempiere la propria vocazione, ma ora è chiamato a un nuovo cammino, ancora
più oscuro di quello iniziale. Qui infatti non si tratta più soltanto di
partire rinunciando ai legami con la famiglia d’origine, ma di offrire in sacrificio
il figlio trentasettenne (cf. Targum Jerushalmi a Gen 22,1); il figlio della
promessa di Dio, una promessa la cui realizzazione è stata progressivamente
differita (cf. Gen 15,2-5; 17,15-21; 18,9-15); il figlio da lui tanto amato,
come dimostrano le insistite annotazioni del testo: «tuo figlio, il tuo unico,
che tu ami, Isacco». Quest’uomo, che ha saputo rinunciare ai legami con il suo
passato, saprà ora rinunciare anche all’intenso legame con il suo futuro, il
figlio Isacco? Non si può dimenticare che Isacco è un figlio totalmente donato
da Dio, il quale «ha visitato Sara» (cf. Gen 21,1), compiendo ciò che
umanamente sarebbe stato impossibile per i due coniugi anziani e sterili; da
lui dipende la discendenza di Abramo, il suo futuro…
b) L’esecuzione dell’ordine
Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé
due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per il sacrificio e si mise in
viaggio verso il luogo che Dio gli aveva detto. Il terzo giorno Abramo alzò gli
occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi servi:
«Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e
poi ritorneremo da voi». Abramo prese la legna del sacrificio e la caricò sul
figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi camminarono insieme
tutti e due uniti. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Padre mio!».
Rispose: «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è
l’agnello per il sacrificio?». Abramo rispose: «Dio vedrà l’agnello per il
sacrificio, figlio mio!». Camminarono insieme tutti e due uniti; così
arrivarono al luogo che Dio gli aveva detto; qui Abramo costruì l’altare,
collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la
legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per sgozzare suo figlio
(Gen 22,3-10).
Dopo aver ascoltato il comando di Dio, Abramo non risponde
nulla; tace, immerso nel silenzio assordante che avvolge le sue azioni: egli si
alza di buon mattino, mette la sella all’asino, prende con sé due servi e
Isacco, spacca la legna per il sacrificio e si mette in viaggio verso il
territorio di Moria. Non si può dimenticare che già la Bibbia identificherà il
territorio di Moria con la collina sulla quale verrà edificato il tempio di
Gerusalemme (cf. 2Cr 3,1); e soprattutto che la tradizione cristiana, a partire
da Origene (Commento a Matteo 126), vi ha visto il monte della crocifissione di
Gesù.
Il testo non ci presenta nessuna parola dei protagonisti, né
fa alcun accenno ai loro sentimenti. Tutto però è descritto con estrema
precisione, fino ai particolari più banali, quasi al rallentatore: «il terzo
giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo»; segue
immediatamente l’ordine impartito ai servi di fermarsi, per lasciar proseguire
lui e il figlio. L’incontro che sta per accadere dovrà svolgersi solo tra
Abramo, Isacco e Dio, senza altri testimoni, nemmeno l’asino: nessuno deve
vedere, là dove «Dio vede» (cf. Gen 22,8.14)… Nell’ultima parte della salita al
monte, mentre Isacco appare «come uno che porta sulle spalle la croce» (Genesi
Rabbah 56,3; cf. Origene, Omelie sulla Genesi VIII,6), padre e figlio
«camminano insieme tutti e due uniti» – espressione che ritorna due volte nello
spazio di tre versetti –, pienamente concordi nell’andare verso quel sacrificio
che li separerà per sempre. E qui avviene un breve colloquio tra padre e
figlio, un dialogo scarno, essenziale, in cui Abramo pronuncia nuovamente il
suo: «Eccomi!». Tutto sembra concentrarsi sulla domanda decisiva formulata da
Isacco: «Dov’è l’agnello per il sacrificio?», alla quale Abramo replica: «Dio
vedrà»: risposta enigmatica o parola che testimonia una comprensione più
profonda di ciò che sta per accadere?
Nel silenzio che ritorna ad avvolgere la scena, i due
giungono al luogo indicato e gli eventi si susseguono a un ritmo incalzante:
Abramo costruisce l’altare, colloca la legna, lega Isacco e lo depone
sull’altare, sopra la legna. Tutto è pronto per il sacrificio, la tensione è
alta, quasi palpabile; eppure colpisce l’estrema concordia dei due
protagonisti. Isacco si mostra pienamente obbediente, non oppone alcuna
resistenza, non si preoccupa di sé, vive quella che potrebbe essere definita
attiva passività; Abramo compie i gesti che sanciscono la sua rinuncia al dono
di Dio, è ormai disposto a rendergli puntualmente il figlio della sua grazia.
Abramo, che sentiva il figlio così legato alla sua persona, ora sull’altare lo
lega a Dio e lo scioglie in qualche modo da se stesso…
«Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per sgozzare suo
figlio».
c) L’intervento di Dio
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse:
«Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano
contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai
rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio». Allora Abramo alzò gli occhi e vide
un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere
l’ariete e lo offrì in sacrificio invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo:
«Il Signore vede», perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore vede» (Gen
22,11-14).
Abramo si è mostrato obbediente fino alla fine, ed ecco che
il messaggero di Dio interviene e sospende l’atto del sacrificio: di nuovo una
duplice chiamata, di nuovo il risoluto: «Eccomi!». L’angelo ferma il braccio di
Abramo attraverso una parola: «Non stendere la mano contro il ragazzo»; Isacco
è ormai divenuto «il ragazzo», il suo essere figlio può solo essere detto in
relazione a Dio! Abramo si rivela pronto ad ascoltare Dio anche in quel momento
così intenso; dal suo cuore capace di ascolto nasce la prontezza degli occhi: a
poca distanza vi è un ariete impigliato con le corna in un cespuglio, lui può
essere offerto in sacrificio. Il narratore commenta: «Abramo chiamò quel luogo:
“Il Signore vede”, perciò oggi si dice: “Sul monte il Signore vede”». Il
Signore vede il cuore di Abramo, vede il cuore di Isacco, e prontamente
interviene, «si fa vedere» (altra traduzione possibile secondo una diversa
vocalizzazione del testo masoretico).
Il sacrificio è avvenuto, ma Isacco è rimasto in vita, e
Abramo ritrova il figlio in un nuovo modo, quale figlio di Dio; ecco perché al
termine del racconto si annota che «Abramo tornò dai suoi servi» (Gen 22,19),
solo, senza Isacco. Certamente l’esperienza del monte Moria ha posto una
distanza tra i due, li ha separati, li ha distinti. Da quel momento Isacco è un
figlio che può diventare padre, e Abramo un padre che riconosce di dover
nuovamente riporre tutta la sua speranza solo in Dio, del quale lui stesso è
figlio: il Dio Padre di tutti, il «Padre nostro» (Mt 6,9), appunto.
d) La promessa
Poi l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la
seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai
fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti
benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come
le stelle del cielo e come la sabbia che è sulla spiaggia del mare … Saranno
benedette per la tua discendenza tutte le genti della terra, perché tu hai
obbedito alla mia voce» (Gen 22,15-18).
Il rinnovamento della promessa rivolta da Dio ad Abramo a
favore degli uomini tutti si fonda su una semplice motivazione: «Tu, Abramo,
hai obbedito alla mia voce», così come poco prima l’angelo gli aveva detto:
«Ora so che tu temi Dio». Ma Dio aveva forse bisogno di quest’ultima prova? Non
conosceva già in anticipo l’obbedienza di Abramo? Anche qui si sprecano le
spiegazioni apologetiche, tra cui mette conto citare le due più nobili: «”Ora
so”: cioè “ora io rendo noto a tutti che tu mi ami”» (Genesi Rabbah 56,7); «Già
lo sapeva Dio, e non gli era nascosto, poiché “egli conosce tutte le cose prima
che accadano” (Dn 13,42). Ma ciò è scritto per te» (Origene, Omelie sulla
Genesi VIII,8), cioè per il lettore.
No, non è Dio che lo ha messo alla prova; piuttosto, si può
dire che tramite l’evento dell’‘aqedah, della legatura, Abramo ha rinnovato la
propria conoscenza di Dio, ha imparato a conoscere Dio in modo nuovo. Prima
egli contava su Dio come partner affidabile; dopo questo episodio sperimenta la
presenza di un Dio nel quale deve credere anche nella piena oscurità, anche
quando di lui non capisce nulla: «dal Dio su cui può contare, di cui può
disporre, passa gradualmente al Dio che dispone di lui» (Carlo Maria Martini).
2. Alcune piste di interpretazione
Dopo questa analisi letterale del testo, vorrei ora
presentare quelle che mi paiono le più significative interpretazioni di Gen 22,
tra le innumerevoli avanzate nel corso dei secoli (tralascio per ragioni di
tempo quella più tradizionale e più semplice da un punto di vista storico,
secondo cui questo brano vieta la pratica dei sacrifici umani e fonda quella
dei sacrifici animali).
a) La fede e l’obbedienza di Abramo
Secondo il Nuovo Testamento questa pagina di Genesi
evidenzia innanzitutto la fede e l’obbedienza di Abramo, colui che aderisce a
Dio senza vacillare. Si legge nella Lettera agli Ebrei:
Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco. Proprio
lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era
stato detto: «In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome» (Gen
21,12 LXX). Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai
morti: per questo lo recuperò e fu come un simbolo (Eb 11,17-19; cf. Gc
2,21-23).
Addirittura tra le righe di questo passo traspare che Abramo
avrebbe effettivamente sacrificato Isacco – dato su cui torneremo tra breve –
grazie alla sua fede nella resurrezione, l’opera per eccellenza di Dio… Abramo
è colui che supera la prova radicale, il caso limite, quello in cui l’uomo
mostra chi egli è in profondità; Abramo vede scossa alle fondamenta la propria
fiducia in Dio, attraversa la notte in cui Dio sembra smentire completamente le
sue promesse. In questo frangente egli vive certamente la confusione, cioè lo
stato angosciato di chi non comprende più se Dio è con lui, lo smarrimento di
chi perde la capacità di dare un senso alla propria esistenza, quella
situazione di fronte alla quale il salmista può solo invocare: «In te mi
rifugio, Signore, che io non resti confuso per sempre!» (Sal 71,1).
Ebbene, posto davanti a questa situazione fallimentare,
mentre tutto sembra andare in frantumi e il suo cuore è un «cuore spezzato»
(cor contritum: Sal 50 [51],19), Abramo continua ad avere fede in Dio,
«sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18). Anche se i tratti del volto di Dio a
lui noti fino a quel momento sembrano dissolversi, egli persevera nella sua
obbedienza fedele a quello stesso Dio, «rimane saldo come se vedesse
l’invisibile» (Eb 11,27), a dispetto di una situazione visibile che in quel
frangente si manifesta unicamente come incomprensibile contraddizione e
dolorosa smentita. Abramo attraversa tutto questo eppure rimane saldo: da quel
giorno si potrà dire a pieno titolo che «figli di Abramo sono quelli che
vengono dalla fede» (Gal 3,7).
b) Gesù Cristo, nuovo Isacco
Certamente la lettura cristiana più attestata di Gen 22 è
quella che potremmo definire tipologica: Gesù Cristo è il nuovo Isacco, ed è
precisamente in questo senso che la chiesa propone la lettura liturgica di Gen
22,1-18 al cuore della veglia pasquale.
Nel Nuovo Testamento diverse tradizioni attestano questa
interpretazione. Quella probabilmente più antica si trova nella Lettera ai
Romani, che allude in questo modo a Gen 22: «Se Dio è per noi, chi sarà contro
di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per
tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,31-32). Un altro
interessante richiamo al nostro brano si ha nella voce di Dio che risuona su
Gesù in due momenti decisivi per la sua autocoscienza, il battesimo e la
trasfigurazione:
Tu sei il Figlio mio, l’amato (cf. Gen 22,2); in te ho posto
la mia gioia (Mc 1,11 e par.).
Questi è il Figlio mio, l’amato (cf. Gen 22,2); ascoltatelo!
(Mc 9,7; Mt 17,5).
Ma come sempre colui che nel Nuovo Testamento ci presenta
una riflessione teologica più ricca e meditata è l’autore del quarto vangelo.
Ciò vale anche in riferimento alla relazione tra Gesù e Isacco: due sono i
passi interessanti a tale proposito. In primo luogo un’affermazione presente in
Gv 3. Subito dopo il dialogo tra Nicodemo e Gesù, nel quale quest’ultimo ha
affermato: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia
innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita
eterna» (Gv 3,14-15), l’evangelista commenta per noi lettori questa rivelazione
di Gesù. Egli sente il bisogno di interrompere il racconto per spiegare
l’annuncio di Gesù, e lo fa con parole che rappresentano una sorta di vangelo
nel vangelo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché
chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
L’innalzamento di Gesù, il suo mistero pasquale, avviene perché «Dio ha tanto
amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito»: come Abramo non ha esitato a
offrire al Signore il suo figlio unico, l’amato, Isacco, così Dio dona a noi
uomini il suo Figlio unico e amatissimo, affinché attraverso di lui possiamo
avere la vita in abbondanza (cf. Gv 10,10)…
Il secondo brano giovanneo che ci interessa si trova
all’altro estremo del vangelo:
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua
madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre
e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo
figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il
discepolo l’accolse tra le sue cose più care (Gv 19,25-27).
È un testo straordinario, inesauribile, che tante volte ho
commentato durante la liturgia dell’ora nona del venerdì santo. Qui evidenzio
solo un dato, che fa compiere un passo ulteriore rispetto ai brani
neotestamentari fin qui considerati. Queste parole che Gesù, il Figlio amato,
pronuncia sulla croce, consentono di accostare sua madre ad Abramo nel momento
del sacrificio sul monte Moria. Come Isacco – secondo una tradizione giudaica
che vedremo tra breve – implora il padre di legarlo con cura affinché il
sacrificio sia perfetto, così Gesù domanda a sua madre di rendere piena la
distanza tra sé e lei, affinché il suo sacrificio di amore sia più libero: per
questo la chiama «donna»! Di conseguenza, come Abramo grazie alla sua
obbedienza diventa padre di una moltitudine innumerevole di figli, padre dei
credenti (cf. Rm 4,16-18), così Maria diventa qui madre del discepolo amato,
che sintetizza in sé tutti i discepoli di Gesù: diventa anch’essa madre dei
credenti. In tal modo le parole di Gesù, che creano ciò che dicono, fanno di
sua madre la madre di tutti i discepoli, fondano la maternità della chiesa: e
questo proprio nell’ora in cui Gesù si sottrae a lei per fare ritorno al Padre
che è nei cieli…
Non posso infine non citare due dei tanti passi patristici
che attestano la lettura tipologica tradizionale di Gen 22:
È detto a proposito del Signore nostro Gesù Cristo: «fu
legato come un ariete» (cf. Gen 22,13), e anche: «fu tosato come una pecora,
condotto al macello come un agnello» (cf. Is 53,7). Sì, egli fu crocifisso come
un agnello e portò il legno sulle sue spalle, condotto per essere immolato come
Isacco da suo padre (cf. Gen 22,6) … Isacco era figura di colui che un giorno
avrebbe sofferto, il Cristo (Melitone di Sardi, Frammenti 9).
Il Signore ha detto: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza
di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò» (Gv 8,56). Penso che qui si
riferisca al giorno della croce, prefigurato dal sacrificio dell’ariete e di
Isacco (Giovanni Crisostomo, Omelie su Giovanni 55,2).
Senza dimenticare il particolare che gli studi esegetici
contemporanei hanno ormai mostrato con un buon grado di sicurezza: Gesù avrebbe
subito la crocifissione e la morte proprio a trentasette anni, l’età di Isacco
al momento della «legatura»…
c) «Papà, dove stiamo andando, noi soli?»
Come ultima interpretazione di Gen 22 vorrei citare quella
contenuta nel Midrash wa-josha‘ (§ 1), uno splendido testo della tradizione
giudaica, a tratti persino commovente, che integra con grande sapienza i
silenzi del racconto biblico.
Sta scritto: «Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino,
prese con sé due servi e il figlio Isacco» (Gen 22,3). Disse Isacco a suo
padre: «Papà, dove stiamo andando, noi soli?». Gli disse: «Figlio mio, fin là,
a un posto vicino». Sta scritto: «Abramo prese la legna del sacrificio e la
caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi
proseguirono insieme tutti e due uniti» (Gen 22,6) … Subito cadde un terrore
grande su Isacco, perché non vedeva nulla da offrire in sacrificio in mano a
suo padre. E sta scritto: «Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: “Padre
mio!”. Rispose: “Eccomi, figlio mio”. Riprese: “Ecco qui il fuoco e la legna,
ma dov’è l’agnello per il sacrificio?”» (Gen 22,7). Subito Isacco tremò e si
scossero le sue membra, perché comprese il pensiero di suo padre; e non
riusciva a parlare, tuttavia si fece forza, e disse a suo padre. «Se è vero che
il Santo mi ha scelto, allora la mia vita è donata a lui». E Isacco accettò con
pace la sua morte, per adempiere il precetto del suo Creatore. Disse Abramo:
«Figlio mio, io so che non ti opponi all’ordine del tuo Creatore e al mio
ordine». Rispose Isacco a suo padre: «Padre mio, fai presto! Compi la volontà
del tuo Creatore, ed egli compirà la tua volontà».
Dopo aver superato anche le insidie di Satana, il quale
cerca di ostacolare il loro cammino suscitando dubbi su ciò che stanno per
compiere, Abramo e Isacco
«arrivarono al luogo che Dio gli aveva detto; qui Abramo
costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose
sull’altare, sopra la legna» (Gen 22,9). Abramo costruiva l’altare e Isacco gli
porgeva la legna e le pietre: Abramo era come uno che costruisce il talamo per
suo figlio, e Isacco era come uno che si prepara per il letto nuziale, e lo fa
con gioia. Disse Isacco: «Papà, fatti forza! Snuda il tuo braccio, e lega bene
le mie mani e i miei piedi, perché io sono un giovane di trentasette anni, e tu
sei vecchio: che quando vedrò il coltello nella tua mano non mi agiti per paura
e non ti colpisca, che l’anima mia non si ribelli e io mi macchi di colpa
dibattendomi, rendendomi così indegno del sacrificio. Ti prego dunque, papà,
fai presto! Compi la volontà del tuo Creatore, non tardare!» … E subito Abramo
dispose la legna e legò Isacco sull’altare, sopra la legna; fece forte il suo
braccio, si rimboccò le vesti, e puntò su di lui le ginocchia con grande forza.
E il Santo vide come fosse uguale il cuore di entrambi. E sgorgarono lacrime da
Abramo e caddero su Isacco, e da Isacco caddero sulla legna, che subito fu
inondata dalle lacrime. «Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per
sgozzare suo figlio» (Gen 22,10). Allora il Signore disse agli angeli del
servizio: «Avete visto Abramo mio amato, come ha confessato l’unicità del mio
Nome nel mondo? Se avessi ascoltato voi, quando, alla creazione del mondo,
diceste: “Che cos’è l’uomo che tu lo ricordi, l’essere umano perché tu lo
visiti” (Sal 8,5), chi avrebbe confessato l’unicità del mio Nome in questo
mondo, come Abramo?» … E piansero gli angeli del servizio, e caddero le loro
lacrime sul coltello, tanto che fu fermato e non ebbe forza sul collo di
Isacco; ma subito la vita lo abbandonò. Allora il Santo disse a Michele:
«Perché stai fermo? Non lasciare che sia ucciso!». E subito Michele chiamò Abramo
e disse: «Abramo, Abramo! Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli
alcun male!» (Gen 22,11-12) … Subito Abramo desistette, e la vita di Isacco
ritornò in lui; egli stette ritto sui suoi piedi e pronunciò questa
benedizione: «Benedetto sei tu, Signore, che dai la vita ai morti!».
Oltre che per la grande qualità poetica, questo testo si
segnala anche per il particolare della resurrezione di Isacco, che costituisce
un chiaro parallelo a quanto espresso dalla Lettera agli Ebrei. È in questo
stesso solco che si colloca anche la connessione tra l’‘aqedah e la festa di
Pasqua contenuta in alcune opere della tradizione giudaica, probabilmente
influenzate dalla riflessione cristiane: «Vedendo il sangue dell’agnello
pasquale (cf. Es 12,13.23) – dice il Signore – io vedrò quello di Isacco»
(Mekilta de-Rabbi Jishma‘el 8; si veda anche il «Poema delle quattro notti»
contenuto in Targum Neofiti a Es 12,42: la seconda notte è quella
dell’‘aqedah).
Questo midrash contiene però a mio avviso un insegnamento ancora
più importante. Fino a questo momento Dio aveva stretto alleanza con il solo
Abramo, ma nella relazione tra i due ora entra anche Isacco. Abramo non cammina
più solo con Dio (cf. Gen 17,1), ma deve imparare a stare al passo di Isacco,
così come Isacco deve fare nei confronti del padre: «camminano insieme tutti e
due uniti» (cf. Gen 22,6.8), insieme portano gli strumenti per il sacrificio,
insieme si preparano a compierlo… La loro reciproca obbedienza, il loro
com-patire narra un riflesso del volto misericordioso di Dio: Dio cammina con
l’uomo, se questi si dispone a camminare con l’altro, a essere letteralmente
con-corde, animato cioè da un medesimo sentire, nella quotidiana sottomissione
reciproca.
Conclusione
«L’epifania del volto è etica»: queste parole di Emmanuel
Lévinas riassumono bene il senso profondo del testo su cui abbiamo meditato.
Sul volto di Isacco, Abramo scorge la verità del comandamento: «Non uccidere!»
(Es 20,13; Dt 5,17), e la sua mano già tesa nell’atto sacrificale è come
paralizzata:
«Abramo stese la mano» (Gen 22,10). Stendeva la mano per
prendere il coltello e dai suoi occhi scendevano lacrime, e le lacrime
provenienti dalla compassione paterna cadevano sugli occhi di Isacco (Genesi
Rabbah 56,8).
Abramo si commuove e le sue lacrime si uniscono a quelle di
Isacco: quando si soffre insieme, si comprende che ogni violenza è radicalmente
impossibile; anzi, si giunge a comprendere che Dio non può volere la morte né
alcun sacrificio violento, ma solo «la vita in abbondanza» (Gv 10,10), per
tutti gli uomini. E questa rinnovata conoscenza di Dio si accompagna a
un’altra, più profonda conoscenza di sé…
In questo senso la prova di Abramo – una prova non voluta da
Dio ma fornitagli dalla storia, perché è la nostra povera e travagliata vita umana
che ci può condurre in situazioni di prova – è quella in cui ogni uomo può
imbattersi: prima o poi il credente sperimenta che occorre rinunciare a ciò che
ha di più caro e su cui ha fondato la propria vita, per offrirlo puntualmente a
Dio. In caso contrario, egli entra in una logica idolatrica, in base alla quale
ripone la speranza non in Dio, ma nel suo dono, che finisce per diventare un
inciampo… Sì, il credente impara con fatica a rinunciare liberamente a ogni
persona, a ogni relazione, a ogni cosa, perché nulla gli appartiene: Dio dona
tutto, ma tutto a lui appartiene. Dirà Paolo: «Ogni cosa appartiene a voi, ma
voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,22-23).
Vorrei concludere questa impegnativa lettura con una
suggestione particolarmente significativa in vista della settimana santa ormai
alle porte: l’amore tra Abramo e Isacco può evocare la con-cordia tra Dio e
Gesù Cristo. Sul monte Golgota il cuore di Dio e di Gesù erano strettamente
uniti, come quelli di Abramo e Isacco sul Moria: «un figlio unico e amato in
questo caso, un Figlio unico e amato in quello» (Giovanni Crisostomo, Omelie
sulla Genesi 47,3). Il Padre non voleva la morte del Figlio, ma acconsentiva al
fatto che, in un mondo ingiusto, il giusto può solo essere rifiutato, perseguitato
fino a essere ucciso (cf. Sap 1,16-2,24); a sua volta Gesù vive pienamente
l’obbedienza alla volontà di Dio, volontà che chiede di vivere l’amore fino
all’estremo, anche a costo di andare incontro a una morte violenta. Questa
reciproca obbedienza sfocia nel libero gesto che nasce da un éros manikós, un
amore folle e inesauribile: Dio richiama Gesù dai morti, lo fa risorgere,
mettendo il sigillo su tutta la sua vita.
E come Dio ha richiamato dai morti Gesù Cristo, «il
primogenito di una moltitudine di fratelli» (Rm 8,29), così richiamerà ciascuno
di noi dalla morte alla vita eterna nel suo Regno.
Enzo Bianchi
Priore di Bose
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