domenica 14 maggio 2017

Domenica 14 Maggio, 2017 LA LETTURA Credere, disobbedire , lottare

Lorenzo Milani, di cui la casa editrice Mondadori pubblica in questi giorni Tutte le opere (a cura di Alberto Melloni), nacque il 27 maggio 1923, a Firenze, da una famiglia ricca e colta. Il ramo paterno apparteneva all’alta borghesia fiorentina: quello materno discendeva dal mondo intellettuale ebraico russo e mitteleuropeo. Don Milani non parlò mai, per tutta la vita, delle proprie ascendenze ebraiche. Ma si sentiva profondamente colpevole della ricchezza e della cultura che l’avevano nutrito. Odiava con ferocia la borghesia, di cui pensava di essere erede e complice; e la proprietà agricola e finanziaria, che voleva abolire.
La sua vocazione religiosa si rivelò relativamente tardi. Dopo una giovinezza indifferente, torturata dalle malattie, a diciannove anni lesse per la prima volta il testo della messa; e scrisse a un amico: «Ho letto la messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi ?». Si mise a leggere i Vangeli e i testi liturgici. Quando diede l’ultimo saluto a un sacerdote moribondo, disse a un amico: «Io prenderò il suo posto». Con la sua abituale violenza fece «un’indigestione di Gesù Cristo»; e cominciò la sua tumultuosa scalata al cielo, negando se stesso con una pervicacia che ricordava quella del tardo Tolstoj. Lasciò una ragazza che amava. Entrò in seminario il 9 novembre 1943: fu nominato sacrestano; le funzioni gli piacevano moltissimo. «Quando uno liberamente regala la sua libertà, è più libero di uno che è costretto a tenersela. Chi regala la propria libertà si libera dal peso di portarla». Amava l’obbedienza: voleva in primo luogo obbedire. Amava la sua tonaca da seminarista. Realizzò il proprio sogno diventando prima ostiario e poi sacerdote il 1° aprile 1944.
Non aveva nessun dubbio religioso: detestava tutto ciò che era eretico, o aveva un, sia pure vago, profumo di protestantesimo. Non poneva domande teologiche. A più riprese scrisse: «Sono severamente ortodosso e disciplinato. Nessuno può accusarmi di eresia o di indisciplina. Sono parte viva della Chiesa… Non potrei vivere un minuto se non avessi questa garanzia dell’obbedienza al vescovo. La salvezza si trova solo attraverso la Chiesa. La religione vera è quella cattolica: perché c’è il Libro che viene dall’alto, e l’interpretazione del Libro che viene dall’alto. Obbedisco ciecamente. Sono figlio divoto della Chiesa. Accetterei dalla Chiesa qualsiasi umiliazione».
Con violenza e disperazione don Milani cercò di definire se stesso, e presto disegnò la propria figura, per sé e per gli altri. Amava, forse per eredità famigliare, il «rigore scientifico»: ma lo fondeva con la passione e il sarcasmo. Era duro, aspro, intollerante, intransigente: affilato e sprezzante. La sua vita doveva essere «grave e pensosa», senza oscillazioni, fughe e divertimenti, che odiava come li odiava Pascal. Voleva soggiogare se stesso e gli altri. Non accettava consigli di prudenza e di moderazione. Viveva ogni minuto nella massima tensione. Come scrisse Anna Maria Ortese, il suo viso rivelava un profondissimo disprezzo, per nessuno in particolare, ma per qualcuno e qualcosa di ignoto. Non era isolato, perché «un prete isolato non serve a niente», ma una tra le tante rotelle «della grande macchina di Dio». Voleva pagare le proprie colpe, anche (e soprattutto) quelle immaginarie, che aveva inventato per torturarsi. Non era pessimista. Se avesse assunto il volto tragico della catastrofe, sarebbe stato segno che non credeva in Dio. Non rinunciava mai alle speranze e all’entusiasmo. Talvolta si compiaceva di essere un eroe, un protagonista della storia.
Come san Francesco (a cui non assomigliava), voleva imitare Gesù: diventare Gesù nel cuore indifferente del ventesimo secolo. Anche lui, come Gesù, era venuto a portare non la pace e la quiete, ma il fuoco, la spada, la violenza. Rinunciava a tutto: in primo luogo, al padre e alla madre. In due casi, era lontanissimo dai Vangeli. Se Gesù aveva detto «non giudicate, affinché non siate giudicati», lui valutava, analizzava, considerava, giudicava, talora senza pazienza e senza pietà. Se Gesù aveva detto che il suo giogo era leggero, lui, invece, voleva che il suo giogo fosse pesante e quasi intollerabile.
Nell’ottobre 1947 venne nominato cappellano a San Donato di Calenzano. Disse la prima messa: insegnò la dottrina ai ragazzi; infine fece scuola. Gli piaceva moltissimo. La scuola — non la mistica, alla quale non era affatto portato — fu la sua vocazione. La sua vera patria fu Barbiana, dove arrivò il 7 dicembre 1954: una punizione da parte della Chiesa; e don Milani accettò questa punizione, che fu per lui un profondissimo trauma, come un «giudizio dall’alto». Barbiana era un piccolo paese a 470 metri nella montagna del Mugello: aveva soltanto centotredici abitanti. Non c’erano luce né telefono: né posta, talvolta nemmeno pane: la terra era poverissima: cattive strade giungevano fin lassù; gli abitanti avevano la rigidezza dei montanari. Ma don Milani fu accolto con grande amore: appena giunto gli portarono latte, zucchero, caffè, tè, sale, riso, marmellata, insalata, verdura, cacao, frutta. Diventò parroco. Non volle mai lasciare Barbiana: «Ho sposato — scrisse — un popolo tutt’altro che fine, e non posso abbandonarlo come si abbandona un vestito usato». A Barbiana conobbe i poveri. Nel Vangelo non si parla di poveri, ma di mendicanti: coloro che si curvano e si rannicchiano per la paura, coloro che piangono col cuore spezzato, gli affamati, gli assetati, gli umiliati, i perseguitati, i coperti di piaghe, le vedove, gli orfani, gli schiavi; in una parola gli ultimi. Luca diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno dei cieli». E Matteo: «Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli»: poveri di spirito sono coloro che rendono vuota la mente, liberandola da qualsiasi saggezza umana, in modo che la grazia divina scenda senza ostacoli dentro di loro.
Don Milani non parlò mai di «poveri di spirito»: un’idea che non amava; ma soltanto di poveri, i contadini e gli operai moderni. Divideva il mondo tra diseredati e oppressi da un lato, e privilegiati e oppressori dall’altro. Pensava che Dio avesse fatto tutti gli uomini poveri e ignoranti: ma gli uomini, non si sa come e perché, avevano creato i ricchi e i colti. Per i poveri, solo per i poveri, Gesù era sceso in terra ed era stato crocifisso. «Se i poveri saranno con te, don Milani diceva, anche Dio sarà con te, e se Dio sarà con te, di cosa hai paura?». Con il suo spirito utopico e apocalittico, pensava che i poveri avrebbero rifatto e ricreato il mondo. Alla fine, «il nostro mondo sbagliato verrà lavato in un immenso bagno di sangue».
Specialmente a Barbiana don Milani elaborò la sua idea di scuola. Essa era per lui la vera religione: non ne conosceva altra forma. La missione del prete era appunto questa: molto più che dire messa o predicare, doveva far scuola: sempre, tutto il giorno, sedici ore al giorno, estate e inverno, senza smettere mai. «Non mi sento parroco — diceva — che nel far scuola». I ragazzi giungevano e si chiudevano nella povera stanza, illuminata dalla luce della candela, con i grandi occhi sgranati sui libri, tutti intenti alle sue parole, con la mente capace di intendere, e l’anima sensibile, attenta, aperta, piena di fede e di pensiero. In quella stanza — lui diceva — soffiava l’aria di Nazareth. La scuola era, per don Milani, la pupilla destra del suo occhio destro: «Una comunità religiosa, una loggia massonica, un casino, una comunità di apostoli, una cosa interamente sacra».
«Stanotte, non potendo dormire — scrisse negli ultimi anni — ho pensato che era meraviglioso vedere sgorgare dalla mia scuola un virgulto rigoglioso, con tutti i suoi gelosi segreti». Non doveva esserci mai la cosiddetta «ricreazione»: l’orribile divertimento. La ricreazione era un peccato, con cui si sperperava uno dei più grandi doni di Dio. Niente partite di calcio: niente gioco a carte, niente gare ciclistiche, niente televisione, niente radio. Il divertimento era «un atto blasfemo», una forma di «ateismo attivo».
Don Milani era posseduto da un immenso sentimento paterno: amava quei giovani più della madre, più di Dio, davanti al quale stava in ginocchio, molto più dei libri che scriveva insieme a loro, più della Chiesa e del Papa. «Non vivo — diceva — che per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare». Con la sua fecondissima immaginazione, cresciuta a dismisura in quel luogo chiuso, immaginava ed escogitava infinite cose per loro. Leggeva libri, in primo luogo l’ Apologia di Socrate e i Vangeli, ma anche l’autobiografia di Gandhi e le lettere del pilota che aveva gettato la bomba atomica su Hiroshima, e Il Gattopardo . Si fermava sulle parole, le sezionava, le faceva vivere come persone con una nascita e una trasformazione. Faceva recitare i Sei personaggi e La giara di Pirandello, Il malato immaginario di Molière e La piccola città di Thornton Wilder, Goldoni e I promessi sposi ; colorare una carta della Palestina ai tempi di Cristo; proiettare La corazzata Potëmkin ; ascoltare le sinfonie di Beethoven; guardare il cielo con un «enorme telescopio»; spiegare la Costituzione italiana; sviluppare fotografie; dipingere quadri; preparare vetrate per la piccola chiesa; vedere Roma città aperta e Ladri di biciclette ; e ascoltare i discorsi di Churchill.
Non aveva mai avuto una buona salute: fin dalla giovinezza era passato di malattia in malattia; ma dopo il 1951 si avvicinò rapidamente alla malattia definitiva. La tisi lo assalì: cominciò a tossire, a sputare sangue e a vomitare: ebbe i primi sintomi del morbo di Hodgkin che lo avrebbe portato alla morte: passò dal linfogranuloma benigno alla leucemia mieloide, due malattie — diceva — ugualmente inguaribili: gli si gonfiarono le ghiandole del collo; soffriva di insonnia; venne sottoposto a irradiazioni di cobalto; per stare in piedi doveva appoggiarsi ai tavoli; non sopportava le medicine; aveva dolori tremendi; e finì per stare a letto tutta la settimana, alzandosi soltanto mezz’ora la domenica per dire la messa.
Non perse mai la propria violenza. Negli ultimi tempi ebbe un obiettivo: il cardinale Florit, arcivescovo di Firenze. Perse ogni pietà, ogni ritegno: parlò del suo comportamento «superficiale e crudele»; lo accusò di falsità e inganno; disse che era un indemoniato; e aveva voglia di scrivergli «sputando tutto il veleno», accumulato in lui. Ma comprese di aver passato il segno. Era solo: nemmeno la madre venne a trovarlo a Barbiana, perché — lui diceva — aveva bisogno dei giornali, del telefono, della luce, delle amiche. Ormai era tempo di morire. Passò gli ultimi giorni a casa della madre, a Firenze, a letto. La lingua gli si era gonfiata, al punto che non poteva parlare: comunicava con brevi biglietti. Il 18 maggio 1967 inghiottì il viatico: il giorno dopo, disse, non avrebbe più potuto inghiottirlo. Sempre muto, morì il 26 giugno 1967. La salma venne sepolta nel cimitero di Barbiana: Barbiana dalla quale riuscì dunque a non separarsi mai.


Anche Eraldo Affinati, autore del romanzo
L’ uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani (Mondadori) rende omaggio al prete di Barbiana con una l ectio domenica 21 maggio (Sala Filadelfia, ore 13). Si intitola Don Milani e Barbiana 50 anni dopo l’incontro a cui, sempre domenica (Spazio Autori, ore 14.30), partecipano Aldo Bozzolini e Oliviero Toscani che, in gioventù, passò del tempo a Barbiana, immortalando don Lorenzo e i suoi allievi.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.