Il
Padre Misericordioso – Rembrandt, pittore fiammingo, 1666
Museo
Hermitage – S. Pietroburgo
Il
quadro si ispira alla parabola del padre misericordioso (Luca 15,11-32).
Dipinto
da Rembrandt nel 1666 circa pochi anni prima della sua morte (avvenuta nel
1669). La storia biografica di Rembrandt lo ha reso capace di conferire al
dipinto la sua espressività davvero unica.
Il
dipinto si trova a San Pietroburgo (Russia) al museo dell’Hermitage.
La
scena raffigura la conclusione della parabola, ovvero il perdono del padre nei
confronti del figlio pentito della propria condotta.
La luce
si sofferma sulla scena principale e cattura così l’attenzione
dell’osservatore, che si trova con gli occhi alla stessa altezza del figlio
pentito, come se il pittore volesse suggerire un’identificazione tra il
personaggio del quadro e l’osservatore.
I
personaggi:
1) Il
figlio più giovane: vestito di stracci logori, è in ginocchio dinanzi al
padre, di cui ha sperperato le sostanze. Aveva chiesto la sua eredità (=
morte!).
Il vestito è
il segno della sua vita: strappata, lacerata. Il colore giallo-marrone è segno
di miseria. Le cicatrici sono il segno delle umiliazioni
sconfitte.
I piedi rivelano
un viaggio umiliante: il piede sinistro è scalzo e con cicatrici (simbolo di
povertà e delle sofferenze patite), il destro con mezzo sandalo logoro, ultimo
brandello della sua dignità (per molto tempo le scarpe sono state simbolo di
ricchezza).
Resta
una sola cosa: la spada appesa al fianco (ultimo segno,
pallido, della sua nobiltà, e della sua dignità di figlio).
La testa è
rasata: indice di prigionia, l’essere senza una libertà (questo figlio inseguiva
la libertà e si trova schiavo, privo di identità). Ma anche evoca la testa di
un bambino neonato: infatti, é inginocchiato, in atteggiamento penitente (cf.
«Padre ho peccato»), ma appoggia il suo capo nel «grembo del padre», nel grembo
della sua misericordia, per una nuova nascita. Sarà infatti rivestito dal
padre.
2) Sulla
destra, un personaggio identificato col figlio maggiore.
Atteggiamento
eretto, impassibile, sembra una colonna, disegnato così, stabile, certo, ma
duro, con un bastone stretto fra le mani. Luce gelida. Vuoto, distanza.
(Vediamo
in dettaglio le mani, il capo e il suo sguardo.)
3) Sullo
sfondo si distinguono due figure anonime, non ben identificate, più
o meno indiffenti, scettiche, chiacchierone, probabilmente servi o persone di casa,
che ben conoscevano i fatti, le sofferenze, le dinamiche interne e ora
commentano. Chissà cosa pensano.
4) Il padre,
anziano accoglie il figlio con un gesto amorevole e quasi protettivo.
Particolari
del padre: (é già fuori di casa ad attendere!)
a) Gli OCCHI del
Padre: sono gli occhi di un cieco. Il Padre ha consumato i suoi occhi a forza
di scrutare l’orizzonte in attesa del ritorno del figlio. E resi ciechi dalla
lacrime; questi occhi hanno versato tante lacrime in attesa del figlio.
«Negli
ultimi anni della sua vita, dopo essere stato molto provato, nell’ambito della
famiglia (ha perso la moglie e dei figli) e del lavoro, – scrive Nouwen –
Rembrandt comincia a dipingere persone cieche come se fossero i ciechi i veri
vedenti. […] Proprio quando la sua esistenza si avvia verso le ombre della
vecchiaia, quando il successo svanisce e gli splendori esteriori della sua vita
impallidiscono, il pittore entra più a contatto con l’immensa bellezza della
vita interiore. Qui scopre la luce che emana da un fuoco interiore che mai non
muore: il fuoco dell’amore.
b) Il MANTELLO del
padre, rosso, sembra voler ricopre il figlio di misericordia
c) Il
vero centro del dipinto di Rembrandt è costituito dalle MANI del
padre. Su di esse si concentra tutta la luce; in esse si incarna la
misericordia.
·
Non sono uguali, ma sono una maschile (robusta, forte,
muscolosa, che protegge, difende) ed una femminile (tenera, delicata, che
accarezza). Attraverso le mani Rembrandt vuole comunicare il volto paterno e
materno di Dio. Dio Padre e Dio Madre.
·
Le mani che toccano le spalle del figlio sono gli strumenti
dell’occhio interiore del padre. «Il tatto sostituisce la vista». Attraverso
queste mani il padre afferma di «vedere»: vede lo smarrimento di donne e uomini
di tutti i tempi e di tutti i luoghi, sente compassione per la sofferenza di
coloro che hanno scelto di andarsene da casa.
·
Corrispondenza «mani del padre / piedi del figlio»: la mano
destra del padre (mano femminile) corrisponde al piede sinistro del figlio,
quello scalzo. La mano delicata e tenera si prende cura delle ferite, protegge
la parte più vulnerabile. La mano sx del padre (mano maschile) corrisponde al
piede dx del figlio, quello con mezzo sandalo: è la mano che sorregge, scuote,
infonde fiducia sulla possibilità di riprendere il cammino.
·
Il cuore del padre arde dal desiderio di riportare a casa i suoi
figli. Ma il suo amore è troppo grande per comportarsi così. Non può forzare,
costringere, spingere o trattenere. Questo Padre offre la libertà di rifiutare
o ricambiare tale amore. Le sue mani non trattengono: accolgono, benedicono: In
latino, benedire è benedicere, che letteralmente significa: dire cose
buone. Il Padre vuole dire, più col tocco che con la voce, buone cose dei suoi
figli. Non desidera affatto punirli.
Sono
stati già troppo puniti dalla loro caparbietà interiore o esteriore. Il Padre
vuole semplicemente far loro capire che l’amore che hanno cercato in vie così
distorte, è stato, è e sarà sempre li per loro.
Il
Padre dall’inizio della creazione ha steso le sue braccia in una benedizione
misericordiosa, non-forzando mai nessuno, ma aspettando sempre; non lasciando
mai cadere le braccia per la disperazione, ma sperando sempre che i figli
tornino per poter dire loro parole d’amore e lasciare che le sue braccia
stanche si posino sulle loro spalle.
Il
Viaggio Continua… XXIV Domenica del T.O. Anno C
Le pagine evangeliche che
abbiamo ascoltato le scorse domeniche ci hanno come afferrato e portato in
alto, ci hanno mostrato il mondo dalle altezze di Dio, come se fossimo saliti
sulla cima della più alta montagna del mondo. E, da questo singolare punto di
osservazione, abbiamo potuto apprezzare la bellezza di una realtà dove trovano
casa il senso dell’umiltà, l’esperienza della croce, il primato di Dio nella
vita personale e sociale. Forse, in cuor suo, qualcuno tra noi avrà pensato
amaramente: «Signore, mi dispiace, ma queste cose non fanno per me: questo sarà
anche il tuo mondo, ma non è il mio». Eppure, oggi siamo tornati qui, come
figli prodighi, a dirgli che abbiamo sperperato la ricchezza che lui ci aveva
dato, a chiedergli perdono della nostra mediocrità, ad esprimergli la nostalgia
struggente di questa casa, della sua casa, a riconoscere che, benché non ci
sentiamo propriamente dei figli, lo siamo per grazia a tutti gli effetti.
Il
Vangelo della Misericordia. Occorre effettuare
preliminarmente una conversione dalla falsa alla vera immagine di Dio, una
conversione dal nostro egoismo al Vangelo della Misericordia. “Universale”.
Spieghiamoci meglio: quando i beneficiari del perdono divino siamo noi, va
bene; ma quando l’offerta di Misericordia riguarda qualcun altro, magari uno di
quelli che vediamo come il fumo negli occhi, allora preferiamo il Vangelo della
Giustizia, il Vangelo dei Diritti. E questa la conversione, alla quale siamo
chiamati, è la stessa che ha dovuto fare il pio israelita autore del brano
tratto dal libro dell’Esodo, oggi proclamato come prima lettura. Quanto gli
piaceva quel Dio terribile, vendicatore, giustiziere (più che giusto), un Dio che
si fa scongiurare per dimenticare l’offesa, un Dio più simile al vitello d’oro,
stigmatizzato dall’autore del brano, che al Dio incontrato da Mosè! Eppure nel
Dio dell’esodo, nemico acerrimo del male, ma Misericordioso con chi lo
commette, disposto a usare braccio teso e mano potente, ci sono già le tracce
di quel Dio ricco di Misericordia, lento all’ira e grande nell’amore – sgradito
persino un profeta come Giona -, del quale Gesù ci ha narrato i tratti,
dipingendolo come un Padre Misericordioso.
Quello rivelato e annunciato da
Gesù è un Padre esperto in delicatezza, in rispetto, in accoglienza, in
promozione, in carità. Un Padre che potrebbe scandalizzare i rigorosi difensori
dell’etichetta e del protocollo, come certuni più preoccupati dalla forma che dalla
sostanza. Un Padre che se ne fa un baffo dei commenti, delle conseguenze, dei
vantaggi, dell’utilità, della convenienza, della decenza umana. Un Padre che si
diverte a sfidare le regole e il buon senso, che gode ad amare, che si realizza
nel perdonare, che educa con la sua pedagogia i due figli entrambi colpevoli di
una grave mancanza (uno per l’offesa alle premure del Padre, l’altro per la
totale indifferenza di fronte all'amore che regna sovrano in quella casa). Un
Padre che mette i figli in una vita riconciliata: con se stessi, con gli altri
e con il cielo.
La
medicina della Misericordia. Questo Dio ricco di
Misericordia, che Gesù ha raccontato, è il medesimo che Gesù ha fatto
incontrare a dei figli concreti, fuggiti da casa, come Zaccheo, il pubblicano;
come Maria, la prostituta; come Pietro, il traditore. Ed è lo stesso Dio che
Gesù ha svelato a Paolo come evento risolutivo della sua vita, lui che si è
definito bestemmiatore, persecutore rabbioso, violento: tanto è stata
sovrabbondante la Misericordia che lo ha vinto, avvolto, disarmato. Una delle
poche fondamentali cose che contano nella vita di un credente la sottolinea
l’Apostolo scrivendo a Timoteo: «Gesù è venuto nel mondo per salvare i
peccatori, il primo dei quali sono io!» (1Tim 1,15). Ciascuno dica questa
identica cosa a se stesso e di se stesso, dopodiché aggiungiamone un’altra: noi
abbiamo riconosciuto l’amore e abbiamo creduto all’amore! Quello è l’unico
sentimento che Dio prova per noi, l’unico atteggiamento che ha verso di noi. E
quando anche il nostro cuore ci condanna (e quanti siamo portati a farlo), Dio
è più grande del nostro cuore.
Non pensiamo che questa sia una
cosa banale e scontata. Piuttosto, rendiamoci conto di quanto la società
odierna abbia un bisogno estremo di quella medicina fondamentale che è la
misericordia, per curare infinite patologie. Una Misericordia come quella del
Padre è ricetta per risolvere conflitti etnici e razziali; è farmaco per curare
l’angoscia e la solitudine che si manifesta nelle più diverse piaghe sociali; è
pista per intraprendere cammini di amicizia e di fidanzamento; è la forza per
superare il senso di fallimento, di frustrazione, di isolamento e solitudine;
comporre contrasti politici e sindacali; è coraggio per perdonare
l’imperdonabile; è speranza per costruire un futuro diverso, che non sia mai
disumano; è modello per impostare il rapporto e garantire pari dignità all’uomo
e alla donna…
Cosa
può cambiare veramente il mondo? Veramente l’esperienza del
cammino millenario dell’umanità ci fa dire che non sono le cuore o le
rivoluzioni che cambiano il mondo, perché è Dio – e la fede nel Dio
Misericordioso di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè, di Gesù Cristo – che
ha cambiato la storia, creando fasi di rottura con il passato. Quando avremo il
coraggio di abbattere tutti i vitelli d’oro che ci siamo costruiti, come
immagine falsa e deforme del divino; quando avremo il coraggio di smettere
l’atteggiamento altezzoso di figli maggiori, che ci pone nella condizione di
giudici della Misericordia radicalmente incapaci di accoglienza; quando
riconosceremo tutti di essere prodighi, abili a sperperare prontamente il
tesoro ricevuto in eredità, allora potremo vedere un mondo di fratelli, perché
finalmente avremo riconosciuto che la nostra esistenza non è identificabile
nella condizione di servi, ma nella dignità di figli e, come tale, essa si
risolve nella responsabilità verso i fratelli. Sulla base di questa
consapevolezza, non ancora completamente acquisita, sarà possibile svestire
finalmente i panni di Caino e indossare quelli di Abele. E rendere la Chiesa
famiglia. Famiglia che accoglie e perdona, insegna ad accogliere e a perdonare.
[1]
Una
Parola le parole. Pecore, monete, figli. Quali beni maggiori può
essere – e perciò “perdere” – un uomo, una donna, una famiglia palestinese del
I secolo, e nel XXI in ogni parte del mondo? Con le tre parabole gemelle del
capitolo 15 di Luca, Gesù penetra il cuore di ogni esistenza, svelandone il
profondo bisogno di ritrovarsi. Perdere e ritrovare, questa è la dinamica della
vita, e le cose che abbiamo possono sfuggirci, andare lontano da noi,
smarrirsi. Per tale ragione, gli esempi che Gesù propone valgono per tutti i
suoi ascoltatori: per i pubblicani e per i peccatori, affinché non si perdano
d’animo; per i farisei e gli scribi perché non perdano l’occasione d’incontrare
la salvezza che viene loro offerta in modo sorprendente. C’è infatti una
differente meraviglia suscitata dal discorso di Gesù: quella di chi si sente
accolto e consolato nella propria miseria, quella di chi si irrita per la
supposta ingiustizia che pare escludere anziché offrire motivo di gioia comune.
La
pecora ritrovata, abbracciata alle spalle del pastore, torna all’ovile piena di
gioia, ma forse le novantanove lasciate per un momento nel deserto si saranno
sentite abbandonate. Gli amici e i vicini si saranno rallegrati insieme al
pastore, fiero della propria impresa, o avranno mormorato per la sua eccessiva
letizia?
Le nove
monete custodite al sicuro potrebbero essersi sentite trascurate per l’affanno
della donna alla ricerca di quella nascosta. Le amiche e le vicine avranno
condiviso l’esultanza dalla donna o avranno giudicato ironicamente la sua sproporzionata
felicità?
I due
brevi racconti d’apertura fanno da specchio ai presenti in modo che ognuno si
prepari a valutare qual è il proprio modo di porsi davanti alla gioia altrui.
Come per dire: sei capace di rallegrarti con chi è felice o ne sei invidioso e
lo giudichi?
Quindi,
Gesù passa alla storia più articolata ed importante: un padre e due figli,
tutti “prodighi”, ossia generosi dispensatori. Il padre, di amore e perdono; il
primo figlio, di peccato e di conversione; il secondo, di gelosia ed orgoglio.
Qui le figure sono ben delineate, perciò emerge più diretta la domanda ai
presenti, che sembra a prima vista chiedere: da quale parte stai? O meglio: di
fronte a Dio che perdona il peccatore pentito - e quindi a Gesù che «accoglie i
peccatori e mangia con loro», ti senti forse indignato come il figlio maggiore?
Ora, la
nostra attenzione è attratta proprio da questo secondo figlio, dal momento che
la sua gelosia ed il suo orgoglio chiamano in causa coloro che mormorano dietro
a Gesù, e chiamano in causa anche noi, quando si facesse spazio nel cuore un
sentimento sconsolato d’inimicizia dinanzi ad un Dio il cui amore che perdona
«è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la
sua giustizia» (Benedetto XVI, Deus Caritas este, n. 10).
Sentirsi
messi da parte non fa piacere a nessuno. Tanto più se questo avviene tra
persone intime, come in una coppia, tra due amici o tra fratelli. Il fatto che
un’altra persona venga preferita suscita un immediato sentimento di ribellione,
che fa sentire esclusi in modo doloroso. Si teme di perdere il primato nel
cuore di chi amiamo, come se il posto unico che finora ci era riservato venisse
ingiustamente sostituito. Questa è la forma di sdegno che sembra prendere il
sopravvento nell’ambito del fratello maggiore della parabola, nella sua parte
finale.
Con
questa parabola, Gesù ha voluto porre davanti ai suoi ascoltatori uno specchio
in cui ognuno possa riconoscersi. C’è posto per tutti nella parabola, perché
c’è posto per tutti nella famiglia dei figli di Dio. Per chi si allontana e per
chi ritorna, come per chi sembra vicino ed è lontano. Ma soprattutto vi è un
padre che permette l’abbandono, festeggia il pentimento, sopporta la rabbia e
l’indurimento. Per lui i figli rimangono tali qualunque cosa succeda, perché il
suo amore trascende ogni ostacolo, li abbraccia comunque, sperando solo che
vogliono abbracciarsi tra loro. [2]
L’Amore
illogico di Dio
I testi
sembrano suggerire un amore illogico di Dio: illogico perché va al di sopra del
buon senso e della saggezza. La domanda che sorge è se Dio ha gli stessi
sentimenti “umani” o siamo noi ad attribuire a lui pazienza, perdono,
misericordia così da non essere giudicati male. Non ci sono dubbi: è Dio che ha
donato alle sue creature cuori che superano le leggi della sopravvivenza.
Nel
mondo della natura, il forte mangia il debole, in una catena dove la legge
ultima rimane la sopravvivenza. Senza rimpianti, senza dubbi, per sempre.
Dio ha
pensato all’umanità in maniera più raffinata e, alla dine, più coerente: ha
dotato gli esseri umani di intelligenza e affetti così da far prevalere
sentimenti di salvezza, quella stessa salvezza che ha guidato la sua mano.
Il
difficile per ogni cristiano è la capacità di voler bene al di là delle
emozioni: amare i propri cari e in qualche modo naturale, anche se non sempre è
vero: non sono impossibili abbandoni, disinteresse, violenze anche verso le
persone care. Il problema vero è voler bene “a tutti”, così come il creatore ha
voluto per le creature.
La
radice del rispetto e del desiderio del bene non è solo sensibilità umana,
solidarietà, vicinanza: la radice vera è Dio.
La
difficoltà più evidente per comportamenti amorevoli sono “i sensi”. La zavorra
che non permette all’anima di essere libera, aperta la mondo, anche ai nemici,
dirà il Vangelo. Una difficoltà grande perché l’altro può essere odioso,
irriverente, non riconoscente, imbroglione, falso, vigliacco, aggressivo.
Solo la
salvezza – quale disegno di Dio –può permettere di non chiudersi e di guardare
al di là della realtà, per sognare un altro essere. È la sfida che viene posta
al cristianesimo – prima vittima in assoluto Cristo stesso – quale religione
dell’armonia, della libertà e della lealtà. Il perdono è possibile solo se la
prospettiva è il bene, superando il male.
Sembra
facile a dirsi e – per la verità – non sempre accade: da qui le paure, le
chiusure, le difese verso chi si ritiene possa arrecare male. L’esperienza dice
che quando si agisce con rispetto e generosità, offrendo l’aiuto onesto, la
risposta è benevola, almeno elimina i mali estremi. (n.d.c. senza dimenticare
l’ingratitudine, il non riconoscimento del bene ricevuto).
Quindi,
l’amore di Dio non è illogico; è divino e per questo autentico. [3]
Papa Francesco a Santa Martha
Chiedere a Dio la
“saggezza” di fare la pace nelle cose di ogni giorno perché è dai piccoli gesti
quotidiani che nasce la possibilità della pace su scala mondiale. Attorno a
questo pensiero di fondo Papa Francesco ha sviluppato l’omelia della Messa
celebrata in Casa Santa Marta nella Festa della Natività di Maria, la prima
dopo la pausa estiva. La pace non si
costruisce tanto nei grandi consessi internazionali. La pace è un
dono di Dio che nasce in posti piccoli. In un cuore per esempio. O in un sogno,
come accade a Giuseppe, quando un angelo gli dice di non temere di prendere
Maria in sposa, perché lei donerà al mondo l’Emmanuele, il “Dio con noi”. E il Dio con noi, dice il Papa, “è la
pace”. Un dono da lavorare ogni giorno Da qui parte la riflessione, da una
liturgia che pronuncia il nome “pace” fin dalla prima orazione. Ciò che attira
in particolare Francesco è il verbo che spicca nella preghiera della colletta,
“che tutti noi possiamo crescere nell’unità e nella pace”. “Crescere” perché,
sottolinea, la pace è un dono “che ha il suo cammino di vita” e dunque ognuno
deve “lavorare” per farlo sviluppare: “E
questa strada di santi e peccatori ci dice che anche noi dobbiamo prendere
questo dono della pace e farlo strada nella nostra vita, farlo entrare in noi,
farlo entrare nel mondo. La pace non si fa da un giorno all’altro; la pace è un
dono, ma un dono che deve essere preso e lavorato ogni giorno. Per questo,
possiamo dire che la pace è un dono che diviene artigianale nelle mani degli
uomini. Siamo noi uomini, ogni giorno, a fare un passo per la pace: è il nostro
lavoro. È il nostro lavoro con il dono ricevuto: fare la pace”. Guerra nei
cuori, guerra nel mondo Ma come ci può riuscire in questo
obiettivo, si chiede il Papa. Nella liturgia del giorno, indica, c’è un’altra
parola-spia che parla di “piccolezza”. Quella della Vergine, di cui si
festeggia la Natività, e anche quella di Betlemme, così “piccola che neppure
sei nelle carte geografiche”, parafrasa Francesco:
"La pace è un
dono, è un dono artigianale che dobbiamo lavorare, tutti i giorni, ma lavorarlo
nelle piccole cose: nelle piccolezze quotidiane. Non bastano i grandi manifesti
per la pace, i grandi incontri internazionali se poi non si fa, questa pace,
nel piccolo. Anzi, tu puoi parlare della pace con parole splendide, fare una
conferenza grande… Ma se nel tuo piccolo, nel tuo cuore non c’è pace, nella tua
famiglia non c’è pace, nel tuo quartiere non c’è pace, nel tuo posto di lavoro
non c’è pace, non ci sarà neppure nel mondo”.
La domanda da porsi
Bisogna chiedere a
Dio, suggerisce il Papa, la grazia della “saggezza di fare la pace, nelle
piccole cose di ogni giorno ma puntando all’orizzonte di tutta l’umanità”,
proprio oggi – ripete ancora – in cui “stiamo vivendo una guerra e tutti
chiedono la pace”. E intanto, conclude Francesco, sarà bene partire da questa
domanda:
“Come è il tuo
cuore, oggi? E’ in pace? Se non è in pace, prima di parlare di pace, sistema il
tuo cuore in pace. Come è la tua famiglia oggi? E’ in pace? Se tu non sei
capace di portare avanti la tua famiglia, il tuo presbiterio, la tua
congregazione, portarla avanti in pace, non bastano parole di pace per il
mondo… Questa è la domanda che oggi io vorrei fare: come è il cuore di ognuno
di noi? E’ in pace? Come è la famiglia di ognuno di noi? E’ in pace? E così,
no? Per arrivare al mondo in pace”. [5]
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