venerdì 9 settembre 2016

Commento alla XXIV domenica del T.O. anno C «Quanto Amore e il Viaggio continua» a cura di fradiafon scarica qui pdf

Il Padre Misericordioso – Rembrandt, pittore fiammingo, 1666
Museo Hermitage – S. Pietroburgo
Il quadro si ispira alla parabola del padre misericordioso (Luca 15,11-32).
Dipinto da Rembrandt nel 1666 circa pochi anni prima della sua morte (avvenuta nel 1669). La storia biografica di Rembrandt lo ha reso capace di conferire al dipinto la sua espressività davvero unica.
Il dipinto si trova a San Pietroburgo (Russia) al museo dell’Hermitage.
La scena raffigura la conclusione della parabola, ovvero il perdono del padre nei confronti del figlio pentito della propria condotta.
La luce si sofferma sulla scena principale e cattura così l’attenzione dell’osservatore, che si trova con gli occhi alla stessa altezza del figlio pentito, come se il pittore volesse suggerire un’identificazione tra il personaggio del quadro e l’osservatore.
I personaggi:
1)  Il figlio più giovane: vestito di stracci logori, è in ginocchio dinanzi al padre, di cui ha sperperato le sostanze. Aveva chiesto la sua eredità (= morte!).
Il vestito è il segno della sua vita: strappata, lacerata. Il colore giallo-marrone è segno di miseria. Le cicatrici sono il segno delle umiliazioni sconfitte.
piedi rivelano un viaggio umiliante: il piede sinistro è scalzo e con cicatrici (simbolo di povertà e delle sofferenze patite), il destro con mezzo sandalo logoro, ultimo brandello della sua dignità (per molto tempo le scarpe sono state simbolo di ricchezza).
Resta una sola cosa: la spada appesa al fianco (ultimo segno, pallido, della sua nobiltà, e della sua dignità di figlio).
La testa è rasata: indice di prigionia, l’essere senza una libertà (questo figlio inseguiva la libertà e si trova schiavo, privo di identità). Ma anche evoca la testa di un bambino neonato: infatti, é inginocchiato, in atteggiamento penitente (cf. «Padre ho peccato»), ma appoggia il suo capo nel «grembo del padre», nel grembo della sua misericordia, per una nuova nascita. Sarà infatti rivestito dal padre.
2) Sulla destra, un personaggio identificato col figlio maggiore.
Atteggiamento eretto, impassibile, sembra una colonna, disegnato così, stabile, certo, ma duro, con un bastone stretto fra le mani. Luce gelida. Vuoto, distanza.
(Vediamo in dettaglio le mani, il capo e il suo sguardo.)
3) Sullo sfondo si distinguono due figure anonime, non ben identificate, più o meno indiffenti, scettiche, chiacchierone, probabilmente servi o persone di casa, che ben conoscevano i fatti, le sofferenze, le dinamiche interne e ora commentano. Chissà cosa pensano.
4) Il padre, anziano accoglie il figlio con un gesto amorevole e quasi protettivo.
Particolari del padre: (é già fuori di casa ad attendere!)
a) Gli OCCHI del Padre: sono gli occhi di un cieco. Il Padre ha consumato i suoi occhi a forza di scrutare l’orizzonte in attesa del ritorno del figlio. E resi ciechi dalla lacrime; questi occhi hanno versato tante lacrime in attesa del figlio.
«Negli ultimi anni della sua vita, dopo essere stato molto provato, nell’ambito della famiglia (ha perso la moglie e dei figli) e del lavoro, – scrive Nouwen – Rembrandt comincia a dipingere persone cieche come se fossero i ciechi i veri vedenti. […] Proprio quando la sua esistenza si avvia verso le ombre della vecchiaia, quando il successo svanisce e gli splendori esteriori della sua vita impallidiscono, il pittore entra più a contatto con l’immensa bellezza della vita interiore. Qui scopre la luce che emana da un fuoco interiore che mai non muore: il fuoco dell’amore.
b) Il MANTELLO del padre, rosso, sembra voler ricopre il figlio di misericordia
c) Il vero centro del dipinto di Rembrandt è costituito dalle MANI del padre. Su di esse si concentra tutta la luce; in esse si incarna la misericordia.
·                     Non sono uguali, ma sono una maschile (robusta, forte, muscolosa, che protegge, difende) ed una femminile (tenera, delicata, che accarezza). Attraverso le mani Rembrandt vuole comunicare il volto paterno e materno di Dio. Dio Padre e Dio Madre.
·                     Le mani che toccano le spalle del figlio sono gli strumenti dell’occhio interiore del padre. «Il tatto sostituisce la vista». Attraverso queste mani il padre afferma di «vedere»: vede lo smarrimento di donne e uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, sente compassione per la sofferenza di coloro che hanno scelto di andarsene da casa.
·                     Corrispondenza «mani del padre / piedi del figlio»: la mano destra del padre (mano femminile) corrisponde al piede sinistro del figlio, quello scalzo. La mano delicata e tenera si prende cura delle ferite, protegge la parte più vulnerabile. La mano sx del padre (mano maschile) corrisponde al piede dx del figlio, quello con mezzo sandalo: è la mano che sorregge, scuote, infonde fiducia sulla possibilità di riprendere il cammino.
·                     Il cuore del padre arde dal desiderio di riportare a casa i suoi figli. Ma il suo amore è troppo grande per comportarsi così. Non può forzare, costringere, spingere o trattenere. Questo Padre offre la libertà di rifiutare o ricambiare tale amore. Le sue mani non trattengono: accolgono, benedicono: In latino, benedire è benedicere, che letteralmente significa: dire  cose buone. Il Padre vuole dire, più col tocco che con la voce, buone cose dei suoi figli. Non desidera affatto punirli.

Sono stati già troppo puniti dalla loro caparbietà interiore o esteriore. Il Padre vuole semplicemente far loro capire che l’amore che hanno cercato in vie così distorte, è stato, è e sarà sempre li per loro.
Il Padre dall’inizio della creazione ha steso le sue braccia in una benedizione misericordiosa, non-forzando mai nessuno, ma aspettando sempre; non lasciando mai cadere le braccia per la disperazione, ma sperando sempre che i figli tornino per poter dire loro parole d’amore e lasciare che le sue braccia stanche si posino sulle loro spalle.


 Il Viaggio Continua… XXIV Domenica del T.O. Anno C

Le pagine evangeliche che abbiamo ascoltato le scorse domeniche ci hanno come afferrato e portato in alto, ci hanno mostrato il mondo dalle altezze di Dio, come se fossimo saliti sulla cima della più alta montagna del mondo. E, da questo singolare punto di osservazione, abbiamo potuto apprezzare la bellezza di una realtà dove trovano casa il senso dell’umiltà, l’esperienza della croce, il primato di Dio nella vita personale e sociale. Forse, in cuor suo, qualcuno tra noi avrà pensato amaramente: «Signore, mi dispiace, ma queste cose non fanno per me: questo sarà anche il tuo mondo, ma non è il mio». Eppure, oggi siamo tornati qui, come figli prodighi, a dirgli che abbiamo sperperato la ricchezza che lui ci aveva dato, a chiedergli perdono della nostra mediocrità, ad esprimergli la nostalgia struggente di questa casa, della sua casa, a riconoscere che, benché non ci sentiamo propriamente dei figli, lo siamo per grazia a tutti gli effetti.

Il Vangelo della Misericordia. Occorre effettuare preliminarmente una conversione dalla falsa alla vera immagine di Dio, una conversione dal nostro egoismo al Vangelo della Misericordia. “Universale”. Spieghiamoci meglio: quando i beneficiari del perdono divino siamo noi, va bene; ma quando l’offerta di Misericordia riguarda qualcun altro, magari uno di quelli che vediamo come il fumo negli occhi, allora preferiamo il Vangelo della Giustizia, il Vangelo dei Diritti. E questa la conversione, alla quale siamo chiamati, è la stessa che ha dovuto fare il pio israelita autore del brano tratto dal libro dell’Esodo, oggi proclamato come prima lettura. Quanto gli piaceva quel Dio terribile, vendicatore, giustiziere (più che giusto), un Dio che si fa scongiurare per dimenticare l’offesa, un Dio più simile al vitello d’oro, stigmatizzato dall’autore del brano, che al Dio incontrato da Mosè! Eppure nel Dio dell’esodo, nemico acerrimo del male, ma Misericordioso con chi lo commette, disposto a usare braccio teso e mano potente, ci sono già le tracce di quel Dio ricco di Misericordia, lento all’ira e grande nell’amore – sgradito persino un profeta come Giona -, del quale Gesù ci ha narrato i tratti, dipingendolo come un Padre Misericordioso.
Quello rivelato e annunciato da Gesù è un Padre esperto in delicatezza, in rispetto, in accoglienza, in promozione, in carità. Un Padre che potrebbe scandalizzare i rigorosi difensori dell’etichetta e del protocollo, come certuni più preoccupati dalla forma che dalla sostanza. Un Padre che se ne fa un baffo dei commenti, delle conseguenze, dei vantaggi, dell’utilità, della convenienza, della decenza umana. Un Padre che si diverte a sfidare le regole e il buon senso, che gode ad amare, che si realizza nel perdonare, che educa con la sua pedagogia i due figli entrambi colpevoli di una grave mancanza (uno per l’offesa alle premure del Padre, l’altro per la totale indifferenza di fronte all'amore che regna sovrano in quella casa). Un Padre che mette i figli in una vita riconciliata: con se stessi, con gli altri e con il cielo.

La medicina della Misericordia. Questo Dio ricco di Misericordia, che Gesù ha raccontato, è il medesimo che Gesù ha fatto incontrare a dei figli concreti, fuggiti da casa, come Zaccheo, il pubblicano; come Maria, la prostituta; come Pietro, il traditore. Ed è lo stesso Dio che Gesù ha svelato a Paolo come evento risolutivo della sua vita, lui che si è definito bestemmiatore, persecutore rabbioso, violento: tanto è stata sovrabbondante la Misericordia che lo ha vinto, avvolto, disarmato. Una delle poche fondamentali cose che contano nella vita di un credente la sottolinea l’Apostolo scrivendo a Timoteo: «Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io!» (1Tim 1,15). Ciascuno dica questa identica cosa a se stesso e di se stesso, dopodiché aggiungiamone un’altra: noi abbiamo riconosciuto l’amore e abbiamo creduto all’amore! Quello è l’unico sentimento che Dio prova per noi, l’unico atteggiamento che ha verso di noi. E quando anche il nostro cuore ci condanna (e quanti siamo portati a farlo), Dio è più grande del nostro cuore.

Non pensiamo che questa sia una cosa banale e scontata. Piuttosto, rendiamoci conto di quanto la società odierna abbia un bisogno estremo di quella medicina fondamentale che è la misericordia, per curare infinite patologie. Una Misericordia come quella del Padre è ricetta per risolvere conflitti etnici e razziali; è farmaco per curare l’angoscia e la solitudine che si manifesta nelle più diverse piaghe sociali; è pista per intraprendere cammini di amicizia e di fidanzamento; è la forza per superare il senso di fallimento, di frustrazione, di isolamento e solitudine; comporre contrasti politici e sindacali; è coraggio per perdonare l’imperdonabile; è speranza per costruire un futuro diverso, che non sia mai disumano; è modello per impostare il rapporto e garantire pari dignità all’uomo e alla donna…

Cosa può cambiare veramente il mondo? Veramente l’esperienza del cammino millenario dell’umanità ci fa dire che non sono le cuore o le rivoluzioni che cambiano il mondo, perché è Dio – e la fede nel Dio Misericordioso di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè, di Gesù Cristo – che ha cambiato la storia, creando fasi di rottura con il passato. Quando avremo il coraggio di abbattere tutti i vitelli d’oro che ci siamo costruiti, come immagine falsa e deforme del divino; quando avremo il coraggio di smettere l’atteggiamento altezzoso di figli maggiori, che ci pone nella condizione di giudici della Misericordia radicalmente incapaci di accoglienza; quando riconosceremo tutti di essere prodighi, abili a sperperare prontamente il tesoro ricevuto in eredità, allora potremo vedere un mondo di fratelli, perché finalmente avremo riconosciuto che la nostra esistenza non è identificabile nella condizione di servi, ma nella dignità di figli e, come tale, essa si risolve nella responsabilità verso i fratelli. Sulla base di questa consapevolezza, non ancora completamente acquisita, sarà possibile svestire finalmente i panni di Caino e indossare quelli di Abele. E rendere la Chiesa famiglia. Famiglia che accoglie e perdona, insegna ad accogliere e a perdonare. [1]

Una Parola le parole. Pecore, monete, figli. Quali beni maggiori può essere – e perciò “perdere” – un uomo, una donna, una famiglia palestinese del I secolo, e nel XXI in ogni parte del mondo? Con le tre parabole gemelle del capitolo 15 di Luca, Gesù penetra il cuore di ogni esistenza, svelandone il profondo bisogno di ritrovarsi. Perdere e ritrovare, questa è la dinamica della vita, e le cose che abbiamo possono sfuggirci, andare lontano da noi, smarrirsi. Per tale ragione, gli esempi che Gesù propone valgono per tutti i suoi ascoltatori: per i pubblicani e per i peccatori, affinché non si perdano d’animo; per i farisei e gli scribi perché non perdano l’occasione d’incontrare la salvezza che viene loro offerta in modo sorprendente. C’è infatti una differente meraviglia suscitata dal discorso di Gesù: quella di chi si sente accolto e consolato nella propria miseria, quella di chi si irrita per la supposta ingiustizia che pare escludere anziché offrire motivo di gioia comune.

La pecora ritrovata, abbracciata alle spalle del pastore, torna all’ovile piena di gioia, ma forse le novantanove lasciate per un momento nel deserto si saranno sentite abbandonate. Gli amici e i vicini si saranno rallegrati insieme al pastore, fiero della propria impresa, o avranno mormorato per la sua eccessiva letizia?

Le nove monete custodite al sicuro potrebbero essersi sentite trascurate per l’affanno della donna alla ricerca di quella nascosta. Le amiche e le vicine avranno condiviso l’esultanza dalla donna o avranno giudicato ironicamente la sua sproporzionata felicità?

I due brevi racconti d’apertura fanno da specchio ai presenti in modo che ognuno si prepari a valutare qual è il proprio modo di porsi davanti alla gioia altrui. Come per dire: sei capace di rallegrarti con chi è felice o ne sei invidioso e lo giudichi?

Quindi, Gesù passa alla storia più articolata ed importante: un padre e due figli, tutti “prodighi”, ossia generosi dispensatori. Il padre, di amore e perdono; il primo figlio, di peccato e di conversione; il secondo, di gelosia ed orgoglio. Qui le figure sono ben delineate, perciò emerge più diretta la domanda ai presenti, che sembra a prima vista chiedere: da quale parte stai? O meglio: di fronte a Dio che perdona il peccatore pentito - e quindi a Gesù che «accoglie i peccatori e mangia con loro», ti senti forse indignato come il figlio maggiore?

Ora, la nostra attenzione è attratta proprio da questo secondo figlio, dal momento che la sua gelosia ed il suo orgoglio chiamano in causa coloro che mormorano dietro a Gesù, e chiamano in causa anche noi, quando si facesse spazio nel cuore un sentimento sconsolato d’inimicizia dinanzi ad un Dio il cui amore che perdona «è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia» (Benedetto XVI, Deus Caritas este, n. 10).

Sentirsi messi da parte non fa piacere a nessuno. Tanto più se questo avviene tra persone intime, come in una coppia, tra due amici o tra fratelli. Il fatto che un’altra persona venga preferita suscita un immediato sentimento di ribellione, che fa sentire esclusi in modo doloroso. Si teme di perdere il primato nel cuore di chi amiamo, come se il posto unico che finora ci era riservato venisse ingiustamente sostituito. Questa è la forma di sdegno che sembra prendere il sopravvento nell’ambito del fratello maggiore della parabola, nella sua parte finale.

Con questa parabola, Gesù ha voluto porre davanti ai suoi ascoltatori uno specchio in cui ognuno possa riconoscersi. C’è posto per tutti nella parabola, perché c’è posto per tutti nella famiglia dei figli di Dio. Per chi si allontana e per chi ritorna, come per chi sembra vicino ed è lontano. Ma soprattutto vi è un padre che permette l’abbandono, festeggia il pentimento, sopporta la rabbia e l’indurimento. Per lui i figli rimangono tali qualunque cosa succeda, perché il suo amore trascende ogni ostacolo, li abbraccia comunque, sperando solo che vogliono abbracciarsi tra loro. [2]

L’Amore illogico di Dio

I testi sembrano suggerire un amore illogico di Dio: illogico perché va al di sopra del buon senso e della saggezza. La domanda che sorge è se Dio ha gli stessi sentimenti “umani” o siamo noi ad attribuire a lui pazienza, perdono, misericordia così da non essere giudicati male. Non ci sono dubbi: è Dio che ha donato alle sue creature cuori che superano le leggi della sopravvivenza.

Nel mondo della natura, il forte mangia il debole, in una catena dove la legge ultima rimane la sopravvivenza. Senza rimpianti, senza dubbi, per sempre.

Dio ha pensato all’umanità in maniera più raffinata e, alla dine, più coerente: ha dotato gli esseri umani di intelligenza e affetti così da far prevalere sentimenti di salvezza, quella stessa salvezza che ha guidato la sua mano.

Il difficile per ogni cristiano è la capacità di voler bene al di là delle emozioni: amare i propri cari e in qualche modo naturale, anche se non sempre è vero: non sono impossibili abbandoni, disinteresse, violenze anche verso le persone care. Il problema vero è voler bene “a tutti”, così come il creatore ha voluto per le creature.

La radice del rispetto e del desiderio del bene non è solo sensibilità umana, solidarietà, vicinanza: la radice vera è Dio.

La difficoltà più evidente per comportamenti amorevoli sono “i sensi”. La zavorra che non permette all’anima di essere libera, aperta la mondo, anche ai nemici, dirà il Vangelo. Una difficoltà grande perché l’altro può essere odioso, irriverente, non riconoscente, imbroglione, falso, vigliacco, aggressivo.
Solo la salvezza – quale disegno di Dio –può permettere di non chiudersi e di guardare al di là della realtà, per sognare un altro essere. È la sfida che viene posta al cristianesimo – prima vittima in assoluto Cristo stesso – quale religione dell’armonia, della libertà e della lealtà. Il perdono è possibile solo se la prospettiva è il bene, superando il male.

Sembra facile a dirsi e – per la verità – non sempre accade: da qui le paure, le chiusure, le difese verso chi si ritiene possa arrecare male. L’esperienza dice che quando si agisce con rispetto e generosità, offrendo l’aiuto onesto, la risposta è benevola, almeno elimina i mali estremi. (n.d.c. senza dimenticare l’ingratitudine, il non riconoscimento del bene ricevuto).

Quindi, l’amore di Dio non è illogico; è divino e per questo autentico. [3]

Concludendo con i due se… Abbiamo davanti a noi due possibili atteggiamenti nettamente opposti l’uno all’altro. Se riconosciamo di essere con il cuore lontano da Gesù, se ci sentiamo in colpa nei suoi riguardi, se siamo spinti dal desiderio di conoscerlo un po’ meglio, ci mettiamo, come i peccatori e come i pubblicani, ad ascoltarlo senza frapporre alcun preconcetto. Se invece siamo persone che si ammirano allo specchio e credono di essere il non plus ultra della perfezione, come gli scribi e i farisei, mentre Gesù parla, ci mettiamo a criticarlo, a mormorare e a dir male di Tizio e di Sempronio. [4]



Papa Francesco a Santa Martha

Chiedere a Dio la “saggezza” di fare la pace nelle cose di ogni giorno perché è dai piccoli gesti quotidiani che nasce la possibilità della pace su scala mondiale. Attorno a questo pensiero di fondo Papa Francesco ha sviluppato l’omelia della Messa celebrata in Casa Santa Marta nella Festa della Natività di Maria, la prima dopo la pausa estiva. La pace non si costruisce tanto nei grandi consessi internazionali. La pace è un dono di Dio che nasce in posti piccoli. In un cuore per esempio. O in un sogno, come accade a Giuseppe, quando un angelo gli dice di non temere di prendere Maria in sposa, perché lei donerà al mondo l’Emmanuele, il “Dio con noi”. E il Dio con noi, dice il Papa, “è la pace”. Un dono da lavorare ogni giorno Da qui parte la riflessione, da una liturgia che pronuncia il nome “pace” fin dalla prima orazione. Ciò che attira in particolare Francesco è il verbo che spicca nella preghiera della colletta, “che tutti noi possiamo crescere nell’unità e nella pace”. “Crescere” perché, sottolinea, la pace è un dono “che ha il suo cammino di vita” e dunque ognuno deve “lavorare” per farlo sviluppare: “E questa strada di santi e peccatori ci dice che anche noi dobbiamo prendere questo dono della pace e farlo strada nella nostra vita, farlo entrare in noi, farlo entrare nel mondo. La pace non si fa da un giorno all’altro; la pace è un dono, ma un dono che deve essere preso e lavorato ogni giorno. Per questo, possiamo dire che la pace è un dono che diviene artigianale nelle mani degli uomini. Siamo noi uomini, ogni giorno, a fare un passo per la pace: è il nostro lavoro. È il nostro lavoro con il dono ricevuto: fare la pace”. Guerra nei cuori, guerra nel mondo Ma come ci può riuscire in questo obiettivo, si chiede il Papa. Nella liturgia del giorno, indica, c’è un’altra parola-spia che parla di “piccolezza”. Quella della Vergine, di cui si festeggia la Natività, e anche quella di Betlemme, così “piccola che neppure sei nelle carte geografiche”, parafrasa Francesco:
"La pace è un dono, è un dono artigianale che dobbiamo lavorare, tutti i giorni, ma lavorarlo nelle piccole cose: nelle piccolezze quotidiane. Non bastano i grandi manifesti per la pace, i grandi incontri internazionali se poi non si fa, questa pace, nel piccolo. Anzi, tu puoi parlare della pace con parole splendide, fare una conferenza grande… Ma se nel tuo piccolo, nel tuo cuore non c’è pace, nella tua famiglia non c’è pace, nel tuo quartiere non c’è pace, nel tuo posto di lavoro non c’è pace, non ci sarà neppure nel mondo”.

La domanda da porsi

Bisogna chiedere a Dio, suggerisce il Papa, la grazia della “saggezza di fare la pace, nelle piccole cose di ogni giorno ma puntando all’orizzonte di tutta l’umanità”, proprio oggi – ripete ancora – in cui “stiamo vivendo una guerra e tutti chiedono la pace”. E intanto, conclude Francesco, sarà bene partire da questa domanda: 
“Come è il tuo cuore, oggi? E’ in pace? Se non è in pace, prima di parlare di pace, sistema il tuo cuore in pace. Come è la tua famiglia oggi? E’ in pace? Se tu non sei capace di portare avanti la tua famiglia, il tuo presbiterio, la tua congregazione, portarla avanti in pace, non bastano parole di pace per il mondo… Questa è la domanda che oggi io vorrei fare: come è il cuore di ognuno di noi? E’ in pace? Come è la famiglia di ognuno di noi? E’ in pace? E così, no? Per arrivare al mondo in pace”. [5]




[1] https://29febbraio.com/2013/02/24/il-padre-misericordioso-rembrandt-pittore-fiammingo-1666/
[2] SdP n° 419 pag. 106 ss
[3] Sdp n°479 pag. 97 ss
[4] Sdp n° 389 pag.90
[5] Papa Francesco, omelia a Santa Martha, 8 settembre 2016, sintesi da Avvenire

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