Il
giorno dei funerali delle vittime del terremoto è il momento in cui il dolore
dei singoli assume una dimensione e una visibilità comunitaria, sociale. Nelle bare, che sono sempre troppe,
insopportabilmente troppe, sono rinchiuse le speranze di chi è rimasto sotto le
macerie e di chi da quelle macerie è uscito distrutto nei suoi sentimenti più
cari.
In
modo misterioso, i veri celebranti del rito funebre sono proprio i morti: sono
infatti le loro vite spezzate, la comunione che alimentavano attorno a sé,
l’amore di cui si sono mostrati capaci ad aver convocato quanti li hanno amati
e quanti hanno tragicamente scoperto la fragilità di ogni esistenza, la
solidarietà nella comune debolezza umana. Non ci sono parole all’altezza di
questi eventi: ciò che spetta a noi tutti è assumere, ciascuno con i propri limiti,
la responsabilità di farsi prossimo con umiltà e nella compassione.
Da
alcuni giorni non cessano di risuonare due domande che sono un unico grido di
dolore: "Perché?" e "Dio, dove sei?". Sono domande antiche
come il mondo e brutalmente nuove di fronte a ogni catastrofe. Soprattutto sono
domande che ciascuno sente sgorgare in sé all’improvviso, dopo che tante volte
aveva potuto illudersi che riguardassero solo gli altri. Poi, più ancora che la
forza delle immagini trasmesse dai media, basta l’evocazione di un luogo
conosciuto, la somiglianza con un volto familiare, il ricordo di un’amicizia
lontana per rendere la disgrazia vicina, nostra.
Il
"perché?" riguarda le cause del terremoto, che non sono mai solo
naturali, e che dovrebbero essere affrontate con lucidità e serietà
nell’immediato, ma ancor più nelle fasi successive, per dare non una risposta
ma un fine a questo "perché" e renderlo un "affinché", così
che il "mai più!" non risuoni come generica promessa, reiterata in
modo scandalosamente inutile a ogni sciagura.
"Dio,
dove sei?" invece è l’interrogativo che scuote la nostra fede nel Dio
narratoci da suo figlio Gesù: un Padre che non castiga né punisce, ma che
perdona, resta misericordioso e invita tutti a non peccare più. È l’antica
domanda rilanciata da Voltaire dopo il terremoto di Lisbona del 1755: «O Dio è
onnipotente, e allora è cattivo, oppure Dio è impotente, e allora non è il Dio
in cui gli uomini credono».
Eppure
tutta la tradizione spirituale ebraica e cristiana, ci dice che Dio non è
lontano, è con le vittime, accanto a loro, in qualche misura partecipa alle
sofferenze umane e accompagna silenziosamente ciascuna di loro per abbracciarla
al di là della morte e darle quella vita promessa che è stata contraddetta e negata
nella storia. Dio è misericordioso, compassionevole, fedele nell’amore: egli ci
accompagna senza mai abbandonarci, anche se il male, la sofferenza e la morte
restano un enigma che solo a fatica, grazie alla fede e a Gesù Cristo, può
diventare mistero di vita.
Ma
chiediamoci anche: può Dio intervenire nel mondo con eventi di cui lui è
protagonista senza l’azione degli uomini? Può intervenire castigando o
compiendo materialmente il bene senza la cooperazione degli uomini? Oppure Dio
interviene solo inviando il suo spirito nella mente e nel cuore delle persone
che poi agiscono per il bene o per il male? Molti cristiani oggi sono persuasi
che il mondo abbia una propria autonomia da Dio, che siamo veramente liberi e
che Dio non può costringerci né con il castigo né con il premio terreno e che
quindi la vera domanda da porsi è "Dov’è l’uomo?".
Già
Rousseau rispondeva in questi termini all’interrogativo di Voltaire. Sì, dov’è
l’uomo con le sue responsabilità concrete nella mancata prevenzione, nella
cattiva gestione del territorio, nel prevalere dell’interesse personale su
quello comune? Eppure questi tragici eventi ci rivelano un duplice volto
dell’essere umano: quello assente, irresponsabile, cinico che purtroppo ben
conosciamo. Ma anche quello radicalmente "umano", quello della
compassione, della dedizione spontanea, volontaria, del lanciarsi in soccorso
di sconosciuti, dell’umanissimo piangere con gli altri, del ritrovare proprio
scavando tra le macerie del dolore l’appartenenza all’unica famiglia umana che
era andata smarrita. Ecco dov’è l’uomo, l’essere umano nella sua verità più
profonda: lì, a mani nude e a cuore aperto, accanto al fratello, alla sorella
nella disgrazia.
Anche oggi che siamo senza parole dobbiamo ripeterci gli uni
altri che l’ultima parola non è e non sarà la morte, ma la vita piena che Dio
dona a tutti noi, suoi figli e figlie: l’ultima parola spetterà a Dio, nella Pasqua
eterna, quando asciugherà le lacrime dai nostri occhi, distruggerà la morte e,
perdonando il male da noi compiuto, trasfigurerà questa terra in terra nuova,
dimora del suo Regno.
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