Il concetto di
tristezza è comune alla musica di Adele, di Billie Holiday, del cantante folk
inglese Nick Drake, del gruppo metal Slayer e di Wolfgang Amadeus Mozart, ma
nessun servizio streaming vi dirà una cosa del genere. Sembra che tali servizi
preferiscano che voi continuiate a seguire i vostri consueti schemi di ascolto
— che loro si sono impegnati a individuare — oppure che, in una playlist basata
sullo stato d’animo, restiate nell’ambito di generi facilmente riconosciuti e
di musiche malinconiche. Vorrei invece suggerire un altro spirito di ascolto.
Quando sentiamo il disco “Pink
Moon” di Nick Drake, se
sappiamo qualcosa della persona che l’ha inciso probabilmente ascoltiamo usando
il filtro della simpatia. Sappiamo che quest’uomo è morto giovane, per overdose
di un farmaco stabilizzatore dell’umore, non molto tempo dopo aver inciso
questo disco. Potremmo pensare che le sue ultime canzoni siano simili alle
ultime parole, una sorta di suicidio o testamento. Oppure, potremmo pensare che
esse siano arrivate da una piccola forza vitale al suo interno che non ha
potuto essere distrutta. E quando lo ascoltiamo, potremmo pensare anche agli
aspetti più vulnerabili di noi stessi e delle nostre stesse sensibilità, a
quelle parti di noi che sono irrimediabilmente tristi, o alle parti timide o
ingenue.
Ma la tristezza
traslata in musica, che si tratti della riserva di un qualche cantante folk
degli anni Sessanta o di una tonalità bassa, sostenuta su un violoncello, è
come l’acqua del Lete, il fiume dell’oblio: ne riconosci la simbologia, la bevi
mentre l’ascolti, e dimentichi tutte le possibili circostanze contingenti della
tristezza che pensi di stare ascoltando. Le circostanze di un’esperienza di
ascolto “triste” possono in verità non essere tristi: l’esigenza di una
frazione di tempo, intensa e isolata, da dedicarsi in esclusiva; l’esigenza di
un effetto corroborante per concentrarsi mentre si fa qualcosa di noioso, per
esempio viaggiare da pendolari; o l’esigenza di rimettere in scena le emozioni
riguardanti qualcosa di tremendo, che paradossalmente fa sentire più vivi che
mai: una morte, una rottura, un rifiuto, un fallimento. La tristezza può essere
feconda. La depressione, invece, è lontana dalla creazione, è muta.
Che cosa è la tristezza
del suono, di per sé? Niente. Non esiste nota, né tipo di nota, che in sé sia
soltanto triste. Ma l’invenzione della tristezza, e il contratto che essa
contribuisce a creare tra il musicista e l’ascoltatore, ha a che vedere col
modo col quale noi possiamo riconoscerla: per mezzo del silenzio e di lunghi
toni dissonanti, o con l’agitazione e la smania; tramite chiusi sistemi
armonici o di fraseggio, o tramite altri, aperti e oscuri. La ascoltiamo nelle
voci e negli strumenti. E come gli ascoltatori accettano di giocare secondo le
regole ufficiali della tristezza, così pure fa la maggior parte dei musicisti e
dei cantanti, imitando il suono degli strumenti. Naturalmente, però, non ogni
voce flebile e non ogni melodia decrescente sta a significare tristezza. Le
cose cambiano a seconda dei casi, a seconda del rapporto di tonalità tra quelle
melodie, e di tutto il contesto che ruota attorno a esse. (Il movimento
Adagio-Allegro del Quartetto per Archi N. 19 di Mozart include varie melodie
decrescenti. Le prime, lente e con piccole dissonanze, in una chiave
indeterminata, suonano tristi; le ultime, più elevate, vivaci, in scala maggiore,
suonano allegre.) Lo scrittore Albert Murray ha formulato la tesi che il blues
non sia stato un’espressione o manifestazione di tristezza, bensì un gesto di
sfida e di sopravvivenza; che la grande capacità della cultura americana di
colore sia stata l’abilità di improvvisare un modo per uscire dall’abisso.
Sembrava un controsenso: non c’erano abbondanti esempi di voci o strumenti che
imitavano il suono del pianto e della delusione? ( I’m a Fool to Want You di
Billie Holiday, I’m Through With Love di Etta Jones, Stones in My Passway di
Robert Johnson, Smokestack Lightning di Howlin’ Wolf.) In quello che dice
Murray credo che ci sia qualcosa di sbagliato. Esiste una cultura attorno a
ogni musica, e il modo col quale comprendi quella cultura può influenzare il
modo col quale la ascolti. Ascoltare è sentire a un grado superiore, sentire
attraverso determinati strati. Ma l’umore di fondo sopravvive, e si trasmette.
Di volta in volta. Il flamenco, simile al blues, è spesso una musica di sfida e
resistenza. È la musica della gente povera che ricorda o assume una posizio- ne
precisa su ciò che nella vita quotidiana può provocare rabbia e sfidare la
logica. È una tentazione chiamarla tristezza. In parte, ciò nasce dallo stile
dell’esibizione: sembra quasi che alcuni cantanti di flamenco — Manuel
Agujetas, morto il giorno di Natale, ne è un buon esempio — stiano per
esplodere, e cantino in quello stesso modo, di conseguenza.
Non esiste codice della
tristezza e del fatalismo più variegato e meglio sviluppato dell’heavy metal.
La musica si sviluppò essa stessa in risposta al concetto moderno di tristezza:
“Chronic ennui”, la noia cronica, che arriva dai critici letterari romantici
francesi del XIX secolo — Baudelaire, Sainte-Beuve — fino all’epoca in cui i
Black Sabbath hanno preso a calci la cultura. I sottogeneri estremi del genere
metal degli ultimi quarant’anni possono essere considerati stadi diversi del
ciclo della noia: il tedio apprensivo, l’ansia immotivata (black metal),
l’attività frenetica (death metal), l’ottundimento (drone o doom metal).
Il metal non fornisce
false garanzie. Ti dice che le guerre continueranno. Dopo God Hates Us All
degli Slayer, non resta molto spazio per altre canzoni. L’heavy metal vuole
schiacciare l’ascoltatore a terra. Scoprirete che chi suona questo genere
musicale ammonisce ripetutamente che non esiste un contesto intellettuale
completo per ogni cosa. Non potrete capire il mondo. Ha a che vedere con i
limiti, ma non quelli del tipo «Non riesco a correre otto chilometri questa
mattina ». Parlo di limiti come «Che tipo di ordine dovremmo prenderci la pena
di creare nelle nostre vite, sapendo che l’esistenza umana è dolorosa dal
Paleolitico? ».
Questo articolo è
tratto dal libro Every Song Ever ( Farrar, Straus and Giroux). Traduzione di
Anna Bissanti © 2016, The New York Times
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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