lunedì 1 febbraio 2016

Il concetto della tristezza nella musica da repubblica del 1 febbraio 2016

Il concetto di tristezza è comune alla musica di Adele, di Billie Holiday, del cantante folk inglese Nick Drake, del gruppo metal Slayer e di Wolfgang Amadeus Mozart, ma nessun servizio streaming vi dirà una cosa del genere. Sembra che tali servizi preferiscano che voi continuiate a seguire i vostri consueti schemi di ascolto — che loro si sono impegnati a individuare — oppure che, in una playlist basata sullo stato d’animo, restiate nell’ambito di generi facilmente riconosciuti e di musiche malinconiche. Vorrei invece suggerire un altro spirito di ascolto. Quando sentiamo il disco “Pink
Moon” di Nick Drake, se sappiamo qualcosa della persona che l’ha inciso probabilmente ascoltiamo usando il filtro della simpatia. Sappiamo che quest’uomo è morto giovane, per overdose di un farmaco stabilizzatore dell’umore, non molto tempo dopo aver inciso questo disco. Potremmo pensare che le sue ultime canzoni siano simili alle ultime parole, una sorta di suicidio o testamento. Oppure, potremmo pensare che esse siano arrivate da una piccola forza vitale al suo interno che non ha potuto essere distrutta. E quando lo ascoltiamo, potremmo pensare anche agli aspetti più vulnerabili di noi stessi e delle nostre stesse sensibilità, a quelle parti di noi che sono irrimediabilmente tristi, o alle parti timide o ingenue.
Ma la tristezza traslata in musica, che si tratti della riserva di un qualche cantante folk degli anni Sessanta o di una tonalità bassa, sostenuta su un violoncello, è come l’acqua del Lete, il fiume dell’oblio: ne riconosci la simbologia, la bevi mentre l’ascolti, e dimentichi tutte le possibili circostanze contingenti della tristezza che pensi di stare ascoltando. Le circostanze di un’esperienza di ascolto “triste” possono in verità non essere tristi: l’esigenza di una frazione di tempo, intensa e isolata, da dedicarsi in esclusiva; l’esigenza di un effetto corroborante per concentrarsi mentre si fa qualcosa di noioso, per esempio viaggiare da pendolari; o l’esigenza di rimettere in scena le emozioni riguardanti qualcosa di tremendo, che paradossalmente fa sentire più vivi che mai: una morte, una rottura, un rifiuto, un fallimento. La tristezza può essere feconda. La depressione, invece, è lontana dalla creazione, è muta.
Che cosa è la tristezza del suono, di per sé? Niente. Non esiste nota, né tipo di nota, che in sé sia soltanto triste. Ma l’invenzione della tristezza, e il contratto che essa contribuisce a creare tra il musicista e l’ascoltatore, ha a che vedere col modo col quale noi possiamo riconoscerla: per mezzo del silenzio e di lunghi toni dissonanti, o con l’agitazione e la smania; tramite chiusi sistemi armonici o di fraseggio, o tramite altri, aperti e oscuri. La ascoltiamo nelle voci e negli strumenti. E come gli ascoltatori accettano di giocare secondo le regole ufficiali della tristezza, così pure fa la maggior parte dei musicisti e dei cantanti, imitando il suono degli strumenti. Naturalmente, però, non ogni voce flebile e non ogni melodia decrescente sta a significare tristezza. Le cose cambiano a seconda dei casi, a seconda del rapporto di tonalità tra quelle melodie, e di tutto il contesto che ruota attorno a esse. (Il movimento Adagio-Allegro del Quartetto per Archi N. 19 di Mozart include varie melodie decrescenti. Le prime, lente e con piccole dissonanze, in una chiave indeterminata, suonano tristi; le ultime, più elevate, vivaci, in scala maggiore, suonano allegre.) Lo scrittore Albert Murray ha formulato la tesi che il blues non sia stato un’espressione o manifestazione di tristezza, bensì un gesto di sfida e di sopravvivenza; che la grande capacità della cultura americana di colore sia stata l’abilità di improvvisare un modo per uscire dall’abisso. Sembrava un controsenso: non c’erano abbondanti esempi di voci o strumenti che imitavano il suono del pianto e della delusione? ( I’m a Fool to Want You di Billie Holiday, I’m Through With Love di Etta Jones, Stones in My Passway di Robert Johnson, Smokestack Lightning di Howlin’ Wolf.) In quello che dice Murray credo che ci sia qualcosa di sbagliato. Esiste una cultura attorno a ogni musica, e il modo col quale comprendi quella cultura può influenzare il modo col quale la ascolti. Ascoltare è sentire a un grado superiore, sentire attraverso determinati strati. Ma l’umore di fondo sopravvive, e si trasmette. Di volta in volta. Il flamenco, simile al blues, è spesso una musica di sfida e resistenza. È la musica della gente povera che ricorda o assume una posizio- ne precisa su ciò che nella vita quotidiana può provocare rabbia e sfidare la logica. È una tentazione chiamarla tristezza. In parte, ciò nasce dallo stile dell’esibizione: sembra quasi che alcuni cantanti di flamenco — Manuel Agujetas, morto il giorno di Natale, ne è un buon esempio — stiano per esplodere, e cantino in quello stesso modo, di conseguenza.
Non esiste codice della tristezza e del fatalismo più variegato e meglio sviluppato dell’heavy metal. La musica si sviluppò essa stessa in risposta al concetto moderno di tristezza: “Chronic ennui”, la noia cronica, che arriva dai critici letterari romantici francesi del XIX secolo — Baudelaire, Sainte-Beuve — fino all’epoca in cui i Black Sabbath hanno preso a calci la cultura. I sottogeneri estremi del genere metal degli ultimi quarant’anni possono essere considerati stadi diversi del ciclo della noia: il tedio apprensivo, l’ansia immotivata (black metal), l’attività frenetica (death metal), l’ottundimento (drone o doom metal).
Il metal non fornisce false garanzie. Ti dice che le guerre continueranno. Dopo God Hates Us All degli Slayer, non resta molto spazio per altre canzoni. L’heavy metal vuole schiacciare l’ascoltatore a terra. Scoprirete che chi suona questo genere musicale ammonisce ripetutamente che non esiste un contesto intellettuale completo per ogni cosa. Non potrete capire il mondo. Ha a che vedere con i limiti, ma non quelli del tipo «Non riesco a correre otto chilometri questa mattina ». Parlo di limiti come «Che tipo di ordine dovremmo prenderci la pena di creare nelle nostre vite, sapendo che l’esistenza umana è dolorosa dal Paleolitico? ».
Questo articolo è tratto dal libro Every Song Ever ( Farrar, Straus and Giroux). Traduzione di Anna Bissanti © 2016, The New York Times

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