Carissimo
Tommaso, tu non mi conosci ma
io sono tuo fratello gemello, mi chiamo Francesco. Mi consentirai in questa mia
l’uso del noi, così oltre a te ci mettiamo dentro la stragrande maggioranza
degli uomini. Siamo persone concrete, cresciute nell’oggettività e nella
scientificità dei fatti. Tutto dev’essere dimostrato in maniera
incontrovertibile. Nessuno che abbia un minimo di cultura vuole farsi
imbrogliare, quindi è meglio non fidarsi mai; specialmente quando fidarsi
significa mettere la propria vita nelle mani di qualcun altro. Ed è qui che le
cose si fanno complicate. Una persona non è una quantità che si possa
semplicemente misurare, né un insieme di cellule di cui basta capire il
funzionamento. Per cui è necessario coltivare almeno un minimo di fiducia verso
qualcuno, senza la quale siamo morti. Anche nel tuo cuore caro Tommaso c’è
questo minimo di fiducia: la tua pretesa di Toccare non è stata così assoluta,
tanto che ti è bastato Vedere per credere che Colui che ti stava davanti era ed
è davvero il tuo e nostro Maestro risorto dalla morte. Per come raccontano le
cronache tu, caro Tommaso, non hai voluto autoconvincerti della risurrezione di
Gesù. Le parole degli altri non ti sono sufficienti. Alcuni di noi, forse, si
sarebbero allineati, per paura di essere esclusi dal gruppo. Ma tu Tommaso, tu
no: e quella che chiamiamo testardaggine è in realtà la prova di grande
sincerità verso se stesso e verso gli altri. Anche la nostra fede passa per
questa sincerità. Credere non significa autoconvincersi perché
l’autoconvinzione mette al centro noi stessi e non il Signore. È come se un
bambino cercasse con tute le sue forze di rispettare le regole che gli hanno
dato quei due adulti con cui vive, ma si fosse dimenticato di essere nato da
loro e di dovere la sua vita ai suoi due genitori, che lo hanno accolto e
amato. È solo un paragone ma non molto distante dalla realtà. Impariamo ad
amare perché siamo generati da Dio, non perché ci sforziamo a fare cose che
dovrebbero essere amorevoli. Se ci lasciamo toccare dall’amore di Gesù, più
forte delle sofferenze che ha subito, saremo generati anche noi in quello
stesso amore. Abbiamo tanto bisogno di rigenerare ogni giorno le nostre
capacità di amare, consumate dalle preoccupazioni, dalle ingiustizie a cui
assistiamo e dalle meschinità di cui noi stessi siamo consapevoli. Occorre
lasciarsi (ri)generare ogni giorno dall’amore, con amore e nell’amore,
altrimenti esso tenderà a spegnersi e quando ne sentiremo parlare ci sembrerà
una parola morta, buona solo per le canzonette sdolcinate o romanzetti
sentimentali. Tu, caro Tommaso, che hai seguito il Maestro, hai ascoltato il suo
insegnamento, non ti ha parlato dell’Amore ma ti e vi ha dimostrato con i fatti
come si ama fino alla fine, fino a morire per amore. Quando può essere vuota la
parola “amore”! ma qual è il senso che noi credenti le diamo? Abbiamo parlato
di generazione nella fede e nell’amore: siamo quindi di fronte alla vita,
l’unica cosa che piò essere generata in senso proprio. Una volta che accettiamo
di entrare in questo rapporto strettissimo con il Signore, ci accorgiamo che,
in un modo o nell’altro, “lasciamo andare” la nostra vita, facendola passare
dalle nostre mani alle mani degli altri. Anche senza riprodurre alla lettera lo
stile di vita comune della Chiesa primitiva (o Prima Chiesa), ci rendiamo conto
di quanti legami rallenta noi nostri rapporti con gli altri, di quanto chiuse a
pugno possono essere le nostre mani, invece di essere aperte nel gesto del dare
e di ricevere gratuitamente. E questo innanzitutto tra noi credenti! Se c’è una
cosa ancor più scandalosa del mancare di carità verso gli estranei, è mancare
verso i propri fratelli nella fede, anch’essi generati da Dio come noi, non per
meriti speciali, ma per la morte e risurrezione di Gesù. Potremmo dire, con le
parole di Chesterton: «Il Signore ci ha chiesto di amare il nostro prossimo e
il nostro nemico; probabilmente perché di norma sono la stessa persona». A
volte siamo rigidi e timorosi o aggressivi di fronte agli altri: cerchiamo
invece di lasciarci andare, di fronte ai bisogni e alle ferite che segnano il
corpo di Gesù. Tu, caro Tommaso, quella sera ci hai fatto una bella lezione di come si può
passare dal riconoscimento della Persona alla Riconoscenza. Mi verrebbe da
scrivere un’affermazione ma sono costretto a porla sotto forma di domanda tanto
è il dubbio ancora: il cristiano riconosce di essere amato da qualcuno di più
grande? di sentirsi la presenza di Dio e del suo mistero rivelato pienamente
nella croce? «mistero di amore infinito che si consegna». E di questo amore il
cristiano è riconoscente, perché sa che è un dono di grazia al di là dei limiti
e delle fragilità umane. Da qui una fede che non è volontarismo, ma vera e
propria attrazione che diventa l’unica scelta valida per una vita in autentica
comunione con Dio. Ciò che colpisce ancora oggi, caro fratello Tommaso,
dell’incontro di quella sera è la tua splendida confessione di fede in Gesù
risorto, dopo l’iniziale incredulità: «Mio Signore e Mio Dio!». Continua a
parlarci Tommaso e raccontaci di quella tua singolare esperienza di come
possiamo ritrovare la nostra difficoltà nel credere. Che cosa ha provocato in te quella svolta così profonda? Leggo
accuratamente la cronaca di quel giorno, noto che con la Sua Parola Gesù vince
la tua resistenza e ti indica che è possibile aprirsi alla fede: non mettendo
il dito nelle ferite, nel vano tentativo di avere delle prove, ma lasciandosi
toccare dalla Sua Parola efficace. La tua esperienza è dunque esemplare per i
credenti di ogni tempo, quelli di ieri come quelli di oggi e di domani: è la
Parola di Dio a suscitare e a custodire la fede in lui, non la ricerca di prove
o la pretesa di segni, che non portano da nessuna parte. Oggi, caro Tommaso, scrivo duemila anni
dopo a te che sei l’Eterno Presente. Le regole della comunicazione ci vuole
brevi e lapidari ed ecco il don Tonino Bello, testimone fino alla morte di
questo bell’amore, diceva che bisogna passare dalle ferite
alle feritoie… e in un’altra parte
ci esortava ad essere credibili più che credenti. Concludendo, caro Tommaso, anche nella Prima Chiesa si faticava a credere al
risorto. La Chiesa è Santa e perennemente bisognosa di conversione. Il credente
non è che un povero “ateo”, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere.
La fede è un continuo convertirsi a Dio, un permanente consegnargli il cuore
per vivere quotidianamente la fatica di credere, di sperare e di amare.
Franco Diacono Fontana
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.