sabato 11 aprile 2015

Lettera aperta a San Tommaso Apostolo. Commento alla Seconda Domenica di Pasqua. Tommaso e tutti noi.

Carissimo Tommaso, tu non mi conosci ma io sono tuo fratello gemello, mi chiamo Francesco. Mi consentirai in questa mia l’uso del noi, così oltre a te ci mettiamo dentro la stragrande maggioranza degli uomini. Siamo persone concrete, cresciute nell’oggettività e nella scientificità dei fatti. Tutto dev’essere dimostrato in maniera incontrovertibile. Nessuno che abbia un minimo di cultura vuole farsi imbrogliare, quindi è meglio non fidarsi mai; specialmente quando fidarsi significa mettere la propria vita nelle mani di qualcun altro. Ed è qui che le cose si fanno complicate. Una persona non è una quantità che si possa semplicemente misurare, né un insieme di cellule di cui basta capire il funzionamento. Per cui è necessario coltivare almeno un minimo di fiducia verso qualcuno, senza la quale siamo morti. Anche nel tuo cuore caro Tommaso c’è questo minimo di fiducia: la tua pretesa di Toccare non è stata così assoluta, tanto che ti è bastato Vedere per credere che Colui che ti stava davanti era ed è davvero il tuo e nostro Maestro risorto dalla morte. Per come raccontano le cronache tu, caro Tommaso, non hai voluto autoconvincerti della risurrezione di Gesù. Le parole degli altri non ti sono sufficienti. Alcuni di noi, forse, si sarebbero allineati, per paura di essere esclusi dal gruppo. Ma tu Tommaso, tu no: e quella che chiamiamo testardaggine è in realtà la prova di grande sincerità verso se stesso e verso gli altri. Anche la nostra fede passa per questa sincerità. Credere non significa autoconvincersi perché l’autoconvinzione mette al centro noi stessi e non il Signore. È come se un bambino cercasse con tute le sue forze di rispettare le regole che gli hanno dato quei due adulti con cui vive, ma si fosse dimenticato di essere nato da loro e di dovere la sua vita ai suoi due genitori, che lo hanno accolto e amato. È solo un paragone ma non molto distante dalla realtà. Impariamo ad amare perché siamo generati da Dio, non perché ci sforziamo a fare cose che dovrebbero essere amorevoli. Se ci lasciamo toccare dall’amore di Gesù, più forte delle sofferenze che ha subito, saremo generati anche noi in quello stesso amore. Abbiamo tanto bisogno di rigenerare ogni giorno le nostre capacità di amare, consumate dalle preoccupazioni, dalle ingiustizie a cui assistiamo e dalle meschinità di cui noi stessi siamo consapevoli. Occorre lasciarsi (ri)generare ogni giorno dall’amore, con amore e nell’amore, altrimenti esso tenderà a spegnersi e quando ne sentiremo parlare ci sembrerà una parola morta, buona solo per le canzonette sdolcinate o romanzetti sentimentali. Tu, caro Tommaso, che hai seguito il Maestro, hai ascoltato il suo insegnamento, non ti ha parlato dell’Amore ma ti e vi ha dimostrato con i fatti come si ama fino alla fine, fino a morire per amore. Quando può essere vuota la parola “amore”! ma qual è il senso che noi credenti le diamo? Abbiamo parlato di generazione nella fede e nell’amore: siamo quindi di fronte alla vita, l’unica cosa che piò essere generata in senso proprio. Una volta che accettiamo di entrare in questo rapporto strettissimo con il Signore, ci accorgiamo che, in un modo o nell’altro, “lasciamo andare” la nostra vita, facendola passare dalle nostre mani alle mani degli altri. Anche senza riprodurre alla lettera lo stile di vita comune della Chiesa primitiva (o Prima Chiesa), ci rendiamo conto di quanti legami rallenta noi nostri rapporti con gli altri, di quanto chiuse a pugno possono essere le nostre mani, invece di essere aperte nel gesto del dare e di ricevere gratuitamente. E questo innanzitutto tra noi credenti! Se c’è una cosa ancor più scandalosa del mancare di carità verso gli estranei, è mancare verso i propri fratelli nella fede, anch’essi generati da Dio come noi, non per meriti speciali, ma per la morte e risurrezione di Gesù. Potremmo dire, con le parole di Chesterton: «Il Signore ci ha chiesto di amare il nostro prossimo e il nostro nemico; probabilmente perché di norma sono la stessa persona». A volte siamo rigidi e timorosi o aggressivi di fronte agli altri: cerchiamo invece di lasciarci andare, di fronte ai bisogni e alle ferite che segnano il corpo di Gesù. Tu, caro Tommaso, quella sera ci hai fatto una bella lezione di come si può passare dal riconoscimento della Persona alla Riconoscenza. Mi verrebbe da scrivere un’affermazione ma sono costretto a porla sotto forma di domanda tanto è il dubbio ancora: il cristiano riconosce di essere amato da qualcuno di più grande? di sentirsi la presenza di Dio e del suo mistero rivelato pienamente nella croce? «mistero di amore infinito che si consegna». E di questo amore il cristiano è riconoscente, perché sa che è un dono di grazia al di là dei limiti e delle fragilità umane. Da qui una fede che non è volontarismo, ma vera e propria attrazione che diventa l’unica scelta valida per una vita in autentica comunione con Dio. Ciò che colpisce ancora oggi, caro fratello Tommaso, dell’incontro di quella sera è la tua splendida confessione di fede in Gesù risorto, dopo l’iniziale incredulità: «Mio Signore e Mio Dio!». Continua a parlarci Tommaso e raccontaci di quella tua singolare esperienza di come possiamo ritrovare la nostra difficoltà nel credere. Che cosa ha provocato  in te quella svolta così profonda? Leggo accuratamente la cronaca di quel giorno, noto che con la Sua Parola Gesù vince la tua resistenza e ti indica che è possibile aprirsi alla fede: non mettendo il dito nelle ferite, nel vano tentativo di avere delle prove, ma lasciandosi toccare dalla Sua Parola efficace. La tua esperienza è dunque esemplare per i credenti di ogni tempo, quelli di ieri come quelli di oggi e di domani: è la Parola di Dio a suscitare e a custodire la fede in lui, non la ricerca di prove o la pretesa di segni, che non portano da nessuna parte. Oggi, caro Tommaso, scrivo duemila anni dopo a te che sei l’Eterno Presente. Le regole della comunicazione ci vuole brevi e lapidari ed ecco il don Tonino Bello, testimone fino alla morte di questo bell’amore, diceva che bisogna passare dalle ferite alle feritoie… e in un’altra parte ci esortava ad essere credibili più che credenti. Concludendo, caro Tommaso, anche nella Prima Chiesa si faticava a credere al risorto. La Chiesa è Santa e perennemente bisognosa di conversione. Il credente non è che un povero “ateo”, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. La fede è un continuo convertirsi a Dio, un permanente consegnargli il cuore per vivere quotidianamente la fatica di credere, di sperare e di amare.
Franco Diacono Fontana

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