lunedì 28 marzo 2011

Il Quotidiano Osservatore Romano del 28 - 29 Marzo 2011


L'appello di Benedetto XVI all'Angelus

In Libia tacciano le armi
e si avvii il dialogo


Un "accorato appello" per "l'immediato avvio di un dialogo, che sospenda l'uso delle armi" in Libia è stato lanciato dal Papa all'Angelus di domenica 27 marzo, in piazza San Pietro.

Cari fratelli e sorelle,

Di fronte alle notizie, sempre più drammatiche, che provengono dalla Libia, cresce la mia trepidazione per l'incolumità e la sicurezza della popolazione civile e la mia apprensione per gli sviluppi della situazione, attualmente segnata dall'uso delle armi. Nei momenti di maggiore tensione si fa più urgente l'esigenza di ricorrere ad ogni mezzo di cui dispone l'azione diplomatica e di sostenere anche il più debole segnale di apertura e di volontà di riconciliazione fra tutte le Parti coinvolte, nella ricerca di soluzioni pacifiche e durature.

In questa prospettiva, mentre elevo al Signore la mia preghiera per un ritorno alla concordia in Libia e nell'intera Regione nordafricana, rivolgo un accorato appello agli organismi internazionali e a quanti hanno responsabilità politiche e militari, per l'immediato avvio di un dialogo, che sospenda l'uso delle armi. Il mio pensiero si indirizza, infine, alle Autorità ed ai cittadini del Medio Oriente, dove nei giorni scorsi si sono verificati diversi episodi di violenza, perché anche là sia privilegiata la via del dialogo e della riconciliazione nella ricerca di una convivenza giusta e fraterna.


(©L'Osservatore Romano 28-29 marzo 2011)
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Dall'abisso del male


Il pellegrinaggio di Benedetto XVI alle Fosse ardeatine - così l'ha voluto definire lo stesso Papa - per rendere omaggio alle vittime dello spaventoso eccidio, che resta indelebile tra i numerosissimi orrori della seconda guerra mondiale, non ha trovato molto spazio nei media. Forse anche per il succedersi incalzante e drammatico di notizie nel panorama internazionale.
Eppure la visita di Benedetto XVI a questo sacrario "caro a tutti gli italiani" - in continuità con quelle di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, e con la volontà di pregare e "rinnovare la memoria" - ha un significato particolare, che rimane. Il loro successore ha infatti compiuto un altro passo nella ricomposizione della memoria di quel conflitto che contribuì a sprofondare il Novecento nell'abisso del male. Come aveva affermato lo stesso Benedetto XVI un mese esatto dopo la sua elezione riflettendo sulle ultime successioni papali.
In questo modo bisogna considerare, aveva detto il nuovo Papa, "il fatto che sulla cattedra di Pietro, ad un Pontefice polacco sia succeduto un cittadino di quella terra, la Germania, dove il regime nazista poté affermarsi con grande virulenza, attaccando poi le nazioni vicine, tra le quali in particolare la Polonia? Entrambi questi Papi in gioventù - seppure su fronti avversi e in situazioni differenti - hanno dovuto conoscere la barbarie della seconda guerra mondiale e dell'insensata violenza di uomini contro altri uomini, di popoli contro altri popoli".
Alla presenza del rabbino capo della più antica comunità della diaspora occidentale, ferocemente colpita dalla persecuzione razziale anche alle Fosse ardeatine, il vescovo di Roma, "città consacrata dal sangue dei martiri", ha voluto incontrare a lungo i familiari delle vittime - cattolici ed ebrei insieme - e ha reso omaggio alla loro memoria, in un luogo vicino alle catacombe e dal quale ancora una volta si è levata la preghiera dei Salmi, con le parole che da molti secoli ebrei e cristiani innalzano all'unico Dio.
Quel Dio al quale, nell'ora delle tenebre, si rivolsero due caduti, come altri in quei giorni, per affermare la fede "in Dio e nell'Italia" e invocare la protezione degli ebrei "dalle barbare persecuzioni". Benedetto XVI ha citato le loro parole, ricordando il centocinquantesimo anniversario dell'unità del Paese e ripetendo che nel Padre di tutti è possibile un futuro diverso. Che non offenda il Nome santo di Dio e l'essere umano, creato a sua immagine.
g.m.v.


(©L'Osservatore Romano 28-29 marzo 2011)
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La visita di Benedetto XVI alle Fosse Ardeatine

È possibile un futuro
libero dall'odio e dalla vendetta


È possibile "un futuro diverso, libero dall'odio e dalla vendetta, un futuro di libertà e di fraternità": lo ha detto il Papa durante la visita compiuta domenica mattina, 27 marzo, al sacrario delle Fosse Ardeatine.
Cari fratelli e sorelle!

Molto volentieri ho accolto l'invito dell'"Associazione Nazionale tra le Famiglie Italiane dei Martiri caduti per la libertà della Patria" a compiere un pellegrinaggio a questo sacrario, caro a tutti gli italiani, particolarmente al popolo romano. Saluto il Cardinale Vicario, il Rabbino Capo, il Presidente dell'Associazione, il Commissario Generale, il Direttore del Mausoleo e, in modo speciale, i familiari delle vittime, come pure tutti i presenti.
"Credo in Dio e nell'Italia / credo nella risurrezione / dei martiri e degli eroi / credo nella rinascita / della patria e nella / libertà del popolo". Queste parole sono state incise sulla parete di una cella di tortura, in Via Tasso, a Roma, durante l'occupazione nazista. Sono il testamento di una persona ignota, che in quella cella fu imprigionata, e dimostrano che lo spirito umano rimane libero anche nelle condizioni più dure. "Credo in Dio e nell'Italia": questa espressione mi ha colpito anche perché quest'anno ricorre il 150° anniversario dell'unità d'Italia, ma soprattutto perché afferma il primato della fede, dalla quale attingere la fiducia e la speranza per l'Italia e per il suo futuro. Ciò che qui è avvenuto il 24 marzo 1944 è offesa gravissima a Dio, perché è la violenza deliberata dell'uomo sull'uomo. È l'effetto più esecrabile della guerra, di ogni guerra, mentre Dio è vita, pace, comunione.
Come i miei Predecessori, sono venuto qui a pregare e a rinnovare la memoria. Sono venuto ad invocare la divina Misericordia, che sola può colmare i vuoti, le voragini aperte dagli uomini quando, spinti dalla cieca violenza, rinnegano la propria dignità di figli di Dio e fratelli tra loro. Anch'io, come Vescovo di Roma, città consacrata dal sangue dei martiri del Vangelo dell'Amore, vengo a rendere omaggio a questi fratelli, uccisi a poca distanza dalle antiche catacombe.
"Credo in Dio e nell'Italia". In quel testamento inciso in un luogo di violenza e di morte, il legame tra la fede e l'amore della patria appare in tutta la sua purezza, senza alcuna retorica. Chi ha scritto quelle parole l'ha fatto solo per intima convinzione, come estrema testimonianza alla verità creduta, che rende regale l'animo umano anche nell'estremo abbassamento. Ogni uomo è chiamato a realizzare in questo modo la propria dignità: testimoniando quella verità che riconosce con la propria coscienza.
Un'altra testimonianza mi ha colpito, e questa fu ritrovata proprio nelle Fosse Ardeatine. Un foglio di carta su cui un caduto aveva scritto: "Dio mio grande Padre, noi ti preghiamo affinché tu possa proteggere gli ebrei dalle barbare persecuzioni. 1 Pater noster, 10 Ave Maria, 1 Gloria Patri". In quel momento così tragico, così disumano, nel cuore di quella persona c'era l'invocazione più alta: "Dio mio grande Padre". Padre di tutti! Come sulle labbra di Gesù, morente sulla croce: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito". In quel nome, "Padre", c'è la garanzia sicura della speranza; la possibilità di un futuro diverso, libero dall'odio e dalla vendetta, un futuro di libertà e di fraternità, per Roma, l'Italia, l'Europa, il mondo. Sì, dovunque sia, in ogni continente, a qualunque popolo appartenga, l'uomo è figlio di quel Padre che è nei cieli, è fratello di tutti in umanità. Ma questo essere figlio e fratello non è scontato. Lo dimostrano purtroppo anche le Fosse Ardeatine. Bisogna volerlo, bisogna dire sì al bene e no al male. Bisogna credere nel Dio dell'amore e della vita, e rigettare ogni altra falsa immagine divina, che tradisce il suo santo Nome e tradisce di conseguenza l'uomo, fatto a sua immagine.
Perciò, in questo luogo, doloroso memoriale del male più orrendo, la risposta più vera è quella di prendersi per mano, come fratelli, e dire: Padre nostro, noi crediamo in Te, e con la forza del tuo amore vogliamo camminare insieme, in pace, a Roma, in Italia, in Europa, nel mondo intero. Amen.


(©L'Osservatore Romano 28-29 marzo 2011)
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In Germania netta affermazione dei Verdi

Tracollo della Cdu
nel Baden-Württemberg


BERLINO, 28. Tracollo dell'Unione cristiana democratica (Cdu), il partito del cancelliere tedesco, Angela Merkel, nelle elezioni regionali di ieri nel Baden-Württemberg (sud).
La Cdu (al Governo nel Land dal 1953, con la maggioranza assoluta dal 1972 al 1988) è infatti precipitata dal precedente 44,2 per cento al 38 per cento, mentre i Verdi - spinti dalla protesta contro l'energia nucleare - hanno realizzato un risultato straordinario, passando dall'11,7 al 25 per cento. I Verdi hanno così superato per la prima volta nella storia tedesca il Partito socialdemocratico (Spd), sceso dal 25,2 per cento al 23,5 per cento. Disastroso risultato anche per il Partito liberale (Fdp), di Guido Westerwelle, crollato dal 10,7 per cento al 5 per cento, con il rischio di rimanere per la prima volta fuori dal Parlamento di Stoccarda, che per la prima volta sarà guidato da un governatore verde, Winfried Kretschmann.
Per Angela Merkel si tratta della terza grande sconfitta elettorale di quest'anno, dopo quella del 20 febbraio nella città-Land di Amburgo, dove è stata schiacciata dai socialdemocratici (21,9 per cento contro 48,9 per cento), e di domenica scorsa in Sassonia-Anhalt. E lo scorso maggio il cancelliere aveva già perso il Nord Reno-Westfalia, insieme alla maggioranza nel Bundesrat, la Camera alta dei rappresentanti regionali. La debacle di ieri nel Baden-Württemberg indebolisce ulteriormente la coalizione (Cdu-Csu, Fdp) nel Bundesrat, poiché la maggioranza perde altri 6 seggi su 69, scendendo a quota 25. Per molti analisti, le elezioni sono state un referendum sulla leadership di Merkel. Non a caso, i risultati di questi voti regionali peseranno non poco sul futuro della coalizione a Berlino. A cominciare dalla posizione del leader della Fdp, il ministro degli Esteri e vice cancelliere Guido Westerwelle, che potrebbe essere spinto alle dimissioni. Un'eventualità, questa, che costringerebbe Merkel a un rimpasto di Governo, dopo la recente uscita forzata dell'ex ministro della Difesa, Karl-Theodor zu Guttenberg.
Westerwelle non si è pronunciato sul suo futuro politico, limitandosi a dare tutta la colpa al nucleare. "È stato un voto sul futuro del nucleare e abbiamo capito", ha commentato a caldo. "Per noi liberali - ha aggiunto - questa è una serata difficile perché abbiamo perso le elezioni". Anche secondo il leader della Spd, Sigmar Gabriel, è stata presa la decisione definitiva sulla fine dell'energia nucleare in Germania. Una conclusione, questa, che per gli osservatori Merkel ha tratto troppo tardi. Dopo mille incertezze ed esitazioni di fronte al disastro di Fukushima, in Giappone, il cancelliere ha infatti auspicato solo questa settimana un'uscita dal nucleare il prima possibile. Ma la marcia indietro non è servita a salvare la Cdu dalla disfatta elettorale nel Baden-Württemberg. Anzi, molti commentatori sono convinti che ha solo aumentato la crisi di credibilità di Merkel. Tanto che anche ieri centinaia di migliaia di tedeschi sono scesi in piazza per chiedere l'abbandono immediato di questa forma di energia.
Si è votato anche nella Renania-Palatinato (sudovest), dove il Fdp - alleato della Cdu nella coalizione federale - è uscito dal Parlamento del Land dopo aver ottenuto solo il 4 per cento dei consensi contro l'8 per cento del 2006. La soglia di sbarramento per rimanere nel Parlamento è del 5 per cento dei voti. Anche in questo Land c'è da segnalare la forte affermazione dei Verdi, che sono passati dal 4,6 per cento al 15,4 per cento del favore popolare.


(©L'Osservatore Romano 28-29 marzo 2011)
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Ma l'esercito si schiera nelle città teatro delle proteste

Il Governo siriano promette riforme


DAMASCO, 28. Il Governo siriano è tornato a promettere la fine dello stato di emergenza in vigore da quasi mezzo secolo nel Paese, ma l'esercito resta schierato a Latakia, l'importante porto nordoccidentale, e non si placano le proteste dei residenti a Daraa, capoluogo della regione meridionale epicentro della dura repressione.
Secondo organizzazioni umanitarie internazionali e locali, dall'inizio delle proteste sono morte oltre centoventi persone, per lo più a Daraa e nella vicina Sanameyn, ma anche a Latakia, a Damasco e a Homs. Testimoni oculari citati dall'organizzazione Human Rights Watch, hanno dichiarato che gli ignoti cecchini che sabato avrebbero ucciso a Latakia almeno sei manifestanti, sarebbero membri della Guardia presidenziale, la forza comandata da Maher al Assad, fratello del presidente. Nella città portuale, abitata da sunniti, alawiti e cristiani, stazionano i blindati dell'esercito siriano, giunto sabato sera in soccorso delle forze di sicurezza. E all'esercito era stato affidato da giorni anche il controllo degli ingressi ai villaggi meridionali attorno a Daraa, diventata ormai il luogo simbolo della rivolta. Nella città meridionale anche ieri, in occasione di tre diversi funerali, folle di residenti sunniti hanno scandito lo slogan "il popolo vuole la caduta del regime".
Da parte sua, il Governo continua ad attribuire le violenze a quelle che definisce bande armate. Dopo aver accusato "parti straniere" di aver armato e istigato i "gruppi di sabotatori" a Daraa e a Sanameyn, gli organi di stampa vicini al Governo affermano che ignoti uomini armati hanno ucciso sabato a Latakia 12 persone, dieci dei quali agenti di polizia. L'agenzia di stampa ufficiale Sana aveva diffuso da sabato sera la notizia dell'arresto di uno statunitense, di origini egiziane, accusato di avere legami con Israele e di esser coinvolto negli scontri. Ieri sera, il consigliere Shaaban ha confermato l'arresto nelle ultime ore di diversi stranieri.
In attesa del più volte annunciato discorso alla Nazione del presidente Bashar al Assad, il consigliere presidenziale Buthayna Shaaban ha dichiarato ieri che la direzione del Baath, il partito al potere da 48 anni, ha deciso di abrogare la legge d'emergenza, in vigore da allora. Fonti citate anonimamente dagli organi di stampa, ma definite ufficiali, hanno però affermato che la decisione sarà formalizzata solo dopo l'approvazione di una legge antiterrorismo.
Altre non meglio precisate fonti ufficiali siriane hanno assicurato che entro questa settimana ci saranno sia le dimissioni del Governo guidato dal primo ministro Muhammmad al Utri - insediato nel 2003, ma da allora rimaneggiato sette volte - sia il varo di una nuova legge sulla stampa e un'altra sui partiti. Quest'ultima dovrebbe preparare la strada al tanto atteso emendamento dell'articolo 8 della Costituzione, che dal 1973 affida al Baath il ruolo di guida del Paese e della società.
E all'indomani della scarcerazione di 260 prigionieri politici, per lo più islamici, ieri mattina il Governo ha rimesso in libertà un'attivista originaria di Daraa, Diana Jawabira, tornata libera assieme ad altri quindici dissidenti finiti in carcere il 16 marzo durante una manifestazione nei pressi del ministero degli Interni. Una dozzina di loro compagni rimangono però dietro le sbarre, in forza proprio della legge d'emergenza.
Attivisti e dissidenti hanno intanto convocato su internet nuove manifestazioni di protesta. A Damasco, oggi è indetto un raduno nella centrale Grande Moschea degli Omayyadi, teatro il 18 e il 25 marzo scorso delle prime manifestazioni esplicite di dissenso.


(©L'Osservatore Romano 28-29 marzo 2011)
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Durante la Repubblica e la guerra di Spagna monsignor Federico Tedeschini spedì in Vaticano l'archivio della Nunziatura

Corsa contro il tempo per salvare i tesori di Madrid


di VICENTE CÁRCEL ORTÍ
Il 4 maggio 1931, appena venti giorni dopo la proclamazione della Seconda Repubblica spagnola e una settimana prima delle tragiche giornate del 10 e dell'11 maggio - che videro l'incendio di numerosi templi, conventi e collegi religiosi a Madrid, Valencia, Malaga e in altre importanti città, con la conseguente distruzione di un ingente patrimonio storico, artistico e documentale - di fronte alla passività totale del governo, che non volle impedirli con la forza pubblica e poi non cercò neppure i responsabili per giudicarli e condannarli, il nunzio Federico Tedeschini scrisse una lettera personale al sostituto della Segreteria di Stato, Alfredo Ottaviani, esprimendogli la sua preoccupazione per la conservazione dell'archivio della Nunziatura di fronte agli eventuali pericoli che la nuova situazione politica spagnola poteva comportare, in quanto temeva che potesse essere attaccato l'edificio della rappresentanza pontificia, e gli chiese istruzioni su come inviare la documentazione archivistica al Vaticano. Il timore di Tedeschini era più che giustificato poiché, poco tempo dopo, alcuni deputati chiesero nelle Cortes la rottura delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede e l'espulsione del nunzio.
"La situazione della Spagna - scrive Tedeschini a Ottaviani - quantunque hic et nunc non offra pericoli, pure non è temerario pensare che possa farsi critica e pericolosa da un momento all'altro. Mi hanno perciò consigliato a cominciare a preparare per tempo la spedizione degli oggetti che in caso di possibile precipitazione o fretta, non avrei neppure il tempo di mettere in ordine. E conseguentemente ho pronte per la spedizione a Roma varie casse, la cui partenza, mentre non mi reca pregiudizio, mi dà una certa tranquillità. Ma prima di farle partire, desidererei sapere da Lei come e a chi potrei indirizzarle per evitare le noie della dogana e per usufruire dei vantaggi che a determinati dignitari della Curia Romana concedono gli accordi coll'Italia. Le sarò molto grato se vorrà farmi conoscere, possibilmente per telegrafo, le desiderate istruzioni". (ASV, Segr. Stato 1931, rubr. 105, ff. 7-8).
Ottaviani rispose il 10 maggio con un breve telegramma nel quale si limitò a dirgli: "Spedisca le casse all'indirizzo seguente: Maestro di Casa S.P.A. Città del Vaticano. Prevenendomi della spedizione e numero di casse inviate". Dieci giorni dopo il cardinale Pacelli comunicò per telegrafo a Tedeschini che lasciava al suo prudente giudizio il modo di salvare l'archivio: "Lascia prudente consiglio V.E.I giudicare se e come convenga preparare e disporre salvaguardare archivio Nunziatura contro eventuali improvvisi pericoli" (Ibidem., f. 9). Di fronte all'insicurezza della situazione politica, dovuta al fatto che il Governo non riusciva a mantenere l'ordine pubblico, Tedeschini decise di trasferire in segreto l'archivio storico dalla nunziatura all'ambasciata di Germania a Madrid, e il 30 maggio informò dell'accaduto il cardinale Pacelli. "Mi è sembrato (...)il miglior partito d'inviare a Roma tutto ciò che tre anni addietro avevo lasciato qui, non perché fosse indispensabile ai bisogni di questa Nunziatura, ma solo a titolo di precauzione per il caso che occorresse di fare ricerche e studii sull'attuale Concordato (cosa ormai tramontata) e cioè tutto il materiale dal 1851, col quale si inizia la Nunziatura di Mgr. Brunelli, al 1913, col quale principia la Nunziatura del mio ultimo predecessore; e trattenere qui, come cosa di attualità, il materiale della Nunziatura dell'E.mo Sig. Card. Ragonesi e quello della mia, che ho già pensato a collocare in luogo sicuro, affidandolo alla custodia dell'ottimo Signor Conte de Welczeck, Ambasciatore di Germania (...) Fra qualche giorno, il materiale da inviare agli Archivi Vaticani sarà pronto per la spedizione ed io mi recherò a premure di avvertire l'Eminenza Vostra della partenza del medesimo" (Dispaccio nº. 5055, AES, Spagna, IV Periodo, 622, fasc. 28, ff. 58-59). Alla fine di giugno furono spedite alla Città del Vaticano 28 casse che contenevano l'archivio della Nunziatura dal 1851, quando era nunzio Giovanni Brunelli, al 1913, quando lo era Antonio Vico, insieme a un resoconto dettagliato dei documenti contenuti in ognuna di esse. La Segreteria di Stato le consegnò all'Archivio Segreto Vaticano, il cui prefetto, Angelo Mercati, si fece carico della loro custodia e catalogazione.
Due anni dopo sorsero nuovi pericoli perché si ripresentò la minaccia di rottura delle relazioni e Pio XI, che si preoccupò subito di salvare l'archivio, chiese al nunzio di metterlo in un luogo sicuro, se non lo aveva già fatto. Così risulta in un appunto autografo del cardinale Pacelli, del 24 giugno 1933, e in un telegramma cifrato che inviò immediatamente a Tedeschini, il quale il 13 giugno rispose dicendo: "Ho avuto l'onore di ricevere il venerato Cifrato distinto dal Nº 194 col quale l'Em.za Vostra Rev.ma si compiaceva di richiamare in nome del Santo Padre, la mia attenzione sulle disposizioni da Vostra Em.za impartitemi in ordine alla sicurezza dell'Archivio della Nunziatura, col Cifrato Nº 73. Prego l'Em.za Vostra Rev.ma di voler umiliare al Santo Padre i sensi della mia gratitudine per la paterna sollecitudine che mostra costantemente per questa Sua Rappresentanza. In pari tempo mi è grato informare l'Em.za Vostra che reputo per il momento sufficienti le misure già prese due anni addietro, e delle quali ebbi occasione di dare notizia a Vostra Em.za col rispettoso rapporto Nº 5055. Altra cosa non mi pare di dover fare per il momento, perché, se anche si desse il malaugurato evento delle rotture dello relazioni diplomatiche fra la Santa Sede e la Repubblica Spagnuola, non credo che il Governo prescinderebbe dall'osservanza delle norme diplomatiche proprie di simili casi di conflitti. Questa convinzione mi viene dal fatto che il Governo non mostra alcuna particolare animosità verso la Rappresentanza Pontificia; e malgrado la sua triste opera di laicismo e la sua legislazione così apertamente antireligiosa, mostra di voler conservare nelle relazioni con la Nunziatura le ordinarie norme di cortesia e di rispetto. Circa quanto io riferiva nel mio rapporto 6215, dove davo conto della audace ed inconsulta proposta del Deputato Gomáriz, di rottura di relazioni colla Santa Sede e di stabilimento delle relazioni colla Russia, mi è grato informare l'Em.za Vostra Rev.ma che su tale proposta si è fatto il silenzio più assoluto. Non so se questo sia dovuto, come da qualcuno si afferma, a desiderio e ad ordine del Governo, che avrebbe messo tutto in tacere; ma in ogni modo è un fatto che, almeno fino ad oggi 13 Luglio, cioè a distanza di più di un mese, la pericolosissima proposta del suddetto deputato radicale-socialista non ha avuto seguito veruno, come non lo ha avuto l'altra proposta di tre deputati radicali-socialisti, circa le rimostranze che si invocavano dal Governo contro la Santa Sede e la Nunziatura per la Enciclica Dilectissima Nobis" (ASV, Arch. Nunz. Madrid 895, ff. 693-693v).
L'archivio fu tenuto in un posto sicuro fino allo scoppio della guerra civile e suo responsabile fu l'incaricato d'affari Silvio Sericano, il quale, prima di tornare a Roma il 4 novembre 1936, lo chiuse "a chiave con sigillo" per impedire che qualcuno potesse vedere i documenti, e lasciò come responsabile dell'edificio e dell'archivio il redentorista Máximo-Alfonso Áriz Elcarte.
Nella plenaria del 14 giugno 1937 i cardinali membri della S.C. degli Affari Ecclesiastici Straordinari esaminarono la complessa e delicata questione del riconoscimento del governo nazionale e, sebbene alcuni fossero favorevoli, pur con molte riserve, il cardinale Tedeschini si oppose energicamente perché presupponeva una rottura con il governo della Repubblica e addusse, fra gli altri motivi, la situazione eccezionale in cui si trovava la nunziatura di Madrid, e, al suo interno, il suo prezioso archivio. Il cardinale temeva reazioni violente da parte dei repubblicani contro la nunziatura, reazioni che fino a quel momento non si erano verificate.
Solo un anno dopo, nel maggio 1938, quando i governi più importanti prevedevano una fine del conflitto armato a favore dei nazionali, la Santa Sede stabilì relazioni diplomatiche con il governo di Burgos. Terminata la guerra il 1° aprile 1939, la nunziatura di Madrid fu occupata dal suo nuovo titolare, l'arcivescovo Gaetano Cicognani, al quale Áriz consegnò pochi giorni dopo le chiavi dell'edificio e dell'archivio, alla presenza del nuovo segretario, Felice Dirozzi. Vari anni dopo, la documentazione della nunziatura, corrispondente ai pontificati di Benedetto XV e di Pio XI, fu trasferita nell'Archivio Segreto Vaticano e lì possiamo consultarla oggi noi ricercatori, grazie al prezioso aiuto che offrono i dettagliati indici elaborati dall'archivista suor Concepción López, carmelitana della carità.


(©L'Osservatore Romano 28-29 marzo 2011)
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La prolusione al Consiglio permanente del cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana

Una comunità solidale
che riparte dalla vita e dalla famiglia


Pubblichiamo ampi stralci della prolusione tenuta dal cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana per l'apertura, a Roma, del Consiglio permanente, che terminerà il 31 marzo.

di ANGELO BAGNASCO
Venerati e Cari Confratelli,

il nostro pensiero, e soprattutto la nostra preghiera, in queste settimane si sono insistentemente rivolti a Dio, in particolare per il popolo giapponese duramente colpito da un violento sisma e ancor più devastante tsunami. Nell'ora più grave, i giapponesi hanno dato al mondo una lezione formidabile di compostezza, determinazione e solidità. È quella che, con espressione efficace, è stata definita "la disciplina del dolore". Dolore che comunque siamo chiamati ad alleviare con i mezzi in nostro possesso. Quanto ancora ci è possibile fare, tramite la Caritas e in collegamento con la Conferenza episcopale locale, lo faremo; sicuri come siamo che ogni italiano avverte il Giappone vicinissimo oggi al proprio cuore. Questa convocazione è al centro del tempo quaresimale, per antonomasia tempo "forte" perché "propizio" alla conversione a cui apre (cfr. Benedetto XVI, Omelia del Mercoledì delle Ceneri, 9 marzo 2011). Ai nostri amati Sacerdoti - che, in questo tempo e in varie parti, sappiamo essere impegnati nella benedizione delle famiglie, diciamo grazie per ciò che sono e per quel che sempre di più, nonostante l'età e il numero più contratto, assicurano alle loro comunità.
È noto come la nostra Conferenza abbia voluto per tempo esprimere la convinta e responsabile partecipazione della comunità ecclesiale all'evento del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, e ciò in spirito di leale collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese tutto. Sentivamo il dovere, come vescovi, di dare pubblica attestazione del sentimento genuino e forte che lega la Chiesa, da duemila anni pellegrina su questo territorio, alla collettività italiana e alla forma statuale e nazionale che essa ha voluto darsi ad un certo punto della sua storia.
Un auspicio vorremmo esprimere per il tempo che ora si apre. E riguarda quel sentimento di consapevole solidarietà che non può non legare tra loro anzitutto i cittadini della stessa nazione. Pare a noi infatti - e lo esprimiamo quasi sottovoce che negli ultimi decenni questo sentimento sia andato affievolendosi, diventando vieppiù esile e a momenti quasi impalpabile. Siamo preoccupati per ciò che sta producendo quell'idea di individualismo secondo cui il singolo si sente come chi non deve nulla ad alcuno e non ha relazioni impegnative verso gli altri, quasi fosse senza genealogia e non sentisse alcuna responsabilità generativa verso il domani. Si comprende, tra l'altro, il motivo per cui il nostro Comitato per il Progetto culturale abbia, insieme a noi, identificato nella rarefazione demografica il tema che merita di essere considerato nell'occasione del suo prossimo Rapporto. Se vuole un suo domani, l'Italia non può non battersi per fronteggiare le derive dell'individualismo più esasperato e radicale, come non può affidarsi solamente alle relazioni di solidarietà e fecondità riscontrabili, per fortuna, tra gli immigrati.
Molte delle comuni preoccupazioni, in questi ultimi mesi, sono state assorbite dai fatti che stanno interessando i Paesi del Nordafrica. Al vescovo di Tripoli, s.e. mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, ho avuto l'opportunità di esprimere personalmente - via telefono - la vicinanza dell'Episcopato italiano e delle nostre comunità: la preghiera fervente e operosa accompagna non solo i cattolici e i cristiani di quel Paese, ma tutto il popolo della Libia e oltre. Ci si è molto interrogati sull'incubazione occulta o meno di queste vicende, nello sforzo di individuare l'evento-detonatore in una o l'altra delle turbolenze precedenti, ma certo dovendo ammettere, da parte delle opinioni pubbliche dell'Occidente, un evidente deficit di conoscenza circa la situazione interna ai vari Paesi. In realtà, per registrare esiti tanto vasti e partecipati, deve aver a lungo covato qualche febbre non irrilevante, senza che sollevasse tuttavia particolari allarmi. Eppure, viene detto oggi, qualche crepitio si sarebbe potuto cogliere se si fosse tenuto lo sguardo rivolto sulla vitalità dei popoli più che sull'immobilità dei regimi; se si fosse stati disposti a considerare gli indici antropologici più decisivi di quelli politici. L'andamento tendenzialmente pacifico che, per impronta dei cittadini, le manifestazioni avevano all'inizio assunto, ha indotto a sperare che il mutamento potesse compiersi al riparo dalla violenza. Oggi questa illusione sembra venuta meno. In ogni caso, l'intreccio tra emergenze concretissime, obiettivi politico-ideologici ed interessi economici, rende il quadro generale non solo complesso e complicato, ma anche confuso. Nel frattempo, di evidente ed indubitabile c'è a tutt'oggi il patire di tanta povera gente! E non ci si può non rammaricare per il ricorso alla forza che, contrapponendo tra loro i figli poveri di uno stesso popolo e di uno stesso continente, provoca dolore più grande e lutti - se possibile - ancora più drammatici. L'invocato e improvviso intervento internazionale ideato sotto l'egida dell'Onu e condotto con il coinvolgimento della Nato ha fatto sorgere interrogativi e tensioni. Ci uniamo alle accorate parole che il Santo Padre in più occasioni ha espresso di solidarietà a quelle popolazioni e di auspicio per un immediato superamento della fase cruenta: ad intervento ampiamente avviato, auspichiamo che si fermino le armi, e che venga preservata soprattutto l'incolumità e la sicurezza dei cittadini garantendo l'accesso agli indispensabili soccorsi umanitari, in un quadro di giustizia. Noi crediamo che la strada della diplomazia sia la via giusta e possibile, forse tuttora desiderata dalle parti in causa, premessa e condizione per individuare una "via africana" verso il futuro invocato soprattutto dai giovani. Ma anche per evitare possibili spinte estremiste che avrebbero esiti imprevedibili e gravi.
Cosa fare, dinanzi a simili rivolgimenti? Se l'interrogativo trascende per buona parte le nostre competenze, siamo però, oltre che Pastori, anche cittadini di questa Italia che si distende come una propaggine singolare al centro del Mediterraneo, tornato ad essere nevralgico per equilibri pacifici nel mondo. Tempo addietro ci trovammo ad osservare come la lingua di terra chiamata Italia sia naturalmente disposta a ponte verso altri continenti e altri popoli. Quasi che neppure i particolari in essa siano a caso e tutto concorra a determinare una vocazione specifica di questa terra e della nazione che in essa risiede. Ed è ciò che oggi torniamo a dire ai nostri concittadini: non ci è consentito di disinteressarci di quel che avviene fuori di noi, nelle coste non lontane dalle nostre. È un'illusione pensare di vivere in pace, tenendo a distanza popoli giovani, stremati dalle privazioni, e in cerca di un soddisfacimento legittimo per la propria fame. Coinvolgerci, e sentirci in qualche modo parte, rientra nell'unica strategia plausibile dal punto di vista morale ma riteniamo anche sotto il profilo economico-politico. L'interdipendenza è condizione ormai fuori discussione ed essa si fa ancora più cruciale e ineluttabile in forza delle vicinanze geografiche. Che però, nel nostro caso, riguardano l'Italia alla stessa stregua con cui riguardano l'Europa, di cui siamo parte: i confini costieri della prima infatti coincidono con i confini meridionali della seconda. L'emergenza dunque è comunitaria, e va affrontata nell'ottica di destinare risorse per uno sforzo di sviluppo straordinario, che non potrà non raccogliere poi benefici in termini di sicurezza complessiva. Continuare a ritenere interi popoli poveri come fastidiosi importuni non porterà lontano. Essi domandano, a loro modo, di partecipare alla fruizione dei beni materiali, mettendo a frutto la loro capacità di lavoro, e intanto chiedono ciò che finora non hanno potuto produrre. Nei nuovi scenari, è un'illusione riuscire a piantonare le coste di un continente intero. È l'ora dunque di attuare quelle politiche di vera cooperazione che sole possono convincere i nostri fratelli a restare nella loro terra, rendendola produttiva. Non si diceva forse, nel momento in cui ci si preparava a far fronte alla crisi economica internazionale, che sarebbe stata l'occasione per ridefinire le priorità e le scale di valore, in ordine alle scelte strategiche?
L'Italia ha esigenze di sicurezza e di stato sociale che non può disattendere e vincoli di compatibilità economica che pure vanno rispettati. Dinanzi alla nuova emergenza, ci si sta muovendo tra comprensibili difficoltà e qualche resistenza, al fine di offrire una prima accoglienza a quanti arrivano dall'Africa. Ma per predisporre soluzioni minimamente adeguate per gli sfollati, i profughi o i richiedenti asilo c'è bisogno, oltre che dell'apporto generoso delle singole Regioni d'Italia, anche della convergenza dell'Europa comunitaria, chiamata a passare - come giustamente si è detto - da una "partnership della convenienza" a quella della "convivenza". Tutta l'Europa è non da oggi in debito verso l'Africa, e deve ora operare per non rendere fallimentari gli sforzi di questi popoli in cammino verso approdi più democratici e rispettosi dei diritti dell'uomo. Bisogna avere l'intelligenza della storia, e un senso del dovere commisurato alla svolta in atto al fine di corrispondere immediatamente alle sfide in maniera concreta e attraverso misure confacenti. Quale sarà il traguardo di tanti fratelli e sorelle in umanità, esso beneficerà o danneggerà tutti. Come Chiesa, con l'umiltà dei nostri mezzi, siamo già in campo, e in particolare attraverso la Caritas italiana si stanno rinforzando gli aiuti alle Caritas del Nordafrica, si sostiene una presenza fissa nei principali campi di raccolta, e si dà appoggio alle strutture delle Diocesi più esposte. Una particolare, fraterna vicinanza la vogliamo esprimere all'arcivescovo di Agrigento, s.e. mons. Francesco Montenegro, che ha la cura pastorale dell'isola di Lampedusa, avamposto sospirato di tanti profughi. È noto che gli immigrati colà superano ormai la popolazione locale determinando involontariamente una condizione di generalizzato, profondo disagio. L'attività lavorativa della piccola comunità rischia di finire seriamente compromessa, tra le crescenti preoccupazioni delle famiglie. Nell'esprimere cordiale ammirazione per la generosità e il senso dell'accoglienza che da sempre contraddistingue la popolazione lampedusana, chiediamo ai Responsabili un ulteriore sforzo perché, avvalendosi di tutti gli strumenti anche comunitari, si dia sollievo all'isola e ai suoi abitanti. Non devono infatti sentirsi soli.
Si ha conferma che la stragrande maggioranza di coloro che arrivano sono giovani, al pari di quanti, attraverso le immagini della televisione, si sono visti e si vedono manifestare nelle piazze. In tal modo si profila un sottile problema di interfaccia tra coloro che, vogliosi di vita, spingono per entrare e la vecchia Europa che tenta di difendere i propri bastioni. Ma proprio qui si annida anche, sotto il profilo culturale, la carica più dirompente di questa emergenza.
Non possiamo tacere il nostro dolore per le vittime che si sono registrate, tra la popolazione copta dell'Egitto, in scontri successivi alla caduta del regime. In ciò, il dopo Mubarak non si è presentato per ora troppo diverso dalla precedente situazione, nonostante gli incoraggianti segnali di condivisione raccolti durante le manifestazioni di piazza. L'esito peraltro del referendum che lì già si è svolto induce a molta prudenza. A ciò vanno aggiunte le condizioni di abbandono in cui restano i cristiani dell'Iraq, ai quali vengono talora fatte promesse, senza che si esplichi poi alcuna concreta tutela. Lo stesso dicasi per il Pakistan, dove grande impressione ha suscitato l'attentato nel quale è rimasto ucciso il ministro per le minoranze religiose Bhatti, un cristiano ora martire che si era a lungo impegnato per abrogare le leggi discriminatorie, di cui la più drammaticamente nota è quella sulla blasfemia, a causa della quale è a rischio anche la vita di Asia Bibi. Realmente non si riesce a comprendere come un Paese grande e importante come il Pakistan possa tollerare una situazione di illegalità tanto clamorosa e pesante.
Dopo una titubanza incomprensibile quanto amara, e grazie al marcato impegno del nostro governo, l'Unione Europea ha finalmente condannato le discriminazioni religiose e gli attacchi condotti anche contro i cristiani. Bisogna ora che ci si batta in ogni sede internazionale per rendere, di conseguenza, inaccettabili le politiche che umiliano i cittadini, schiacciando ciò che nell'uomo è più sacro. È questo il crinale che, con più precisione, segna avanzamento o regressione sulla frontiera fondamentale dei diritti dell'uomo. Sullo scenario comunitario un rilievo marcatissimo viene ad assumere la sentenza emessa dalla Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell'uomo che si è pronunciata sul ricorso presentato dall'Italia per la condanna subita nel 2009 a proposito dell'esposizione del crocifisso nelle scuole statali. E ciò pur riconoscendo che la scuola pubblica è, nel nostro Paese, aperta a tutti, senza discriminazioni di sorta. Un pronunciamento che da una parte riconosce come ogni Paese abbia il diritto di assegnare il giusto rilievo alla propria tradizione religiosa che è un fattore vivo, con un ruolo pubblico da svolgere. Dall'altra lascia intendere che il simbolo religioso non comporta in sé una lesione dei diritti. Ed è, anzi, elemento integrante l'identità italiana e dunque, a questo punto, anche europea.
Quanto finora richiamato, ci suggerisce di mettere a fuoco quel senso del disagio che qua e là dà prova di nascondersi nelle pieghe profonde del Paese. Nessuno può negare che delle ragioni ci siano e vadano affrontate con l'apporto intelligente, propositivo e onesto di tutti. Avere in mente solo se stessi e la propria parte, anziché il Paese, significa tradire il Paese. Ma vorremmo, altresì, scongiurare tutti affinché il senso diffuso di malessere non intacchi la fiducia della nostra gente verso le proprie capacità, la propria cultura, verso l'Italia stessa e i suoi destini. Qualcuno parla addirittura di un possibile cedimento strutturale della "casa comune". Un contributo non irrilevante a tale lettura, a tratti depressiva, pensiamo provenga da certa rappresentazione mediatica che tende a esasperare episodi marginali, mentre tace di altri ben più importanti o rende invisibili le realtà positive di cui l'Italia è ricca. A volte il sensazionalismo o la spettacolarizzazione creano una specie di "inquinamento ambientale".
Si tratta naturalmente di meccanismi complessi, che si influenzano a catena, ma ciò non può costituire una scusante al fine di trascurare l'impatto dei fenomeni mediatici sulle persone, sui giovani in particolare, e però non solo loro. Ci deve essere la percezione delle soglie da non superare, pena ottenere guasti superiori all'immediato guadagno. È troppo importante e vitale che il Paese accetti di riconoscersi - non come un fatto solo stagionale in un quadro di valori sostanziali, che sarebbe poi autolesionismo accantonare per esigenze opportunistiche. Il concetto di etica pubblica, per potersi strutturare e poter reggere all'urto degli eventi, ha bisogno di radicarsi in una consapevolezza: il bene non coincide con i desideri personali, ma possiede una propria, austera oggettività. L'etica senza un proprio contenuto, autonomo dai gusti soggettivi, infiacchisce e certo non consolida le coscienze. Il bene esiste, e a partire da questa fondante esperienza trovano spiegazione l'ethos di riferimento, ma anche il criterio obbligante e la cura sapiente di sé, cioè la formazione del proprio essere.
L'Italia ha un estremo bisogno di ricomporsi, quasi raccogliendosi in se stessa e radunando le proprie energie migliori, per metterle tutte in circolo e produrre un passo in avanti, fuori dagli immobilismi come dai proclami apodittici. Non tocca a noi vescovi suggerire spinte di tipo politico, e dunque neppure di misurare i tempi o cadenzare i passi della comunità civile. Possiamo invece ricordare a tutti le conclusioni tratte da quanto ogni giorno osserviamo: il Paese ha un insopprimibile bisogno che si parta dai dati della realtà. Non i dati incartati nell'enfasi propagandistica o, al contrario, nel catastrofismo più nero, ma i dati per quanto possibile semplici e netti. Anche da soli, sono eloquenti: sulla disoccupazione specialmente giovanile e femminile, sul differenziale tra Nord e Sud d'Italia, sulla produttività, sull'imposizione e sull'evasione fiscale, sulla corruzione e sull'amministrazione della giustizia, sull'insicurezza del territorio e sul fabbisogno energetico… Si potrebbe anche aggiungere che c'è, ad un tempo, urgenza di umiltà per potersi effettivamente piegare quanto serve sui dati della realtà stessa, che è l'unico modo per prenderli sul serio, saperli interrogare, applicarsi per istruire processi decisionali. C'è bisogno di una riflessione partecipata, al fine di scegliere e rispondere. C'è bisogno che tutti agiamo senza troppo reclamizzare e senza continuamente recriminare, avendo il gusto di stupire la comunità nazionale per il fervore dell'impegno, per la capacità di dialogo, per l'efficacia delle azioni, utilizzando al meglio tempi, spazi, occasioni. Più che di scomuniche reciproche, la collettività ha bisogno di una seria dialettica, che esalti i ruoli a ciascuno affidati dal cittadino-elettore. È a partire dall'applicazione alle urgenze congiunturali, che è preferibile recuperare - tessera dopo tessera - il mosaico di una visione, di cui pure si sente la necessità: la visione cioè di dove stiamo andando, e perché dobbiamo affrontare determinati sacrifici. In questa stagione, tuttavia, conviene farsi guidare anzitutto dal criterio della concretezza: essa dà credibilità. Capiremo allora probabilmente che una visione forte non può non includere la sola medicina capace di guarire alle radici: la vita, la sua cura, e la sua promozione. La vita cioè elevata a creazione sociale, dunque a orizzonte di cultura, di bellezza, di arte.
Per questo, cioè secondo questa chiave interpretativa, vorremmo dire una parola che inducesse l'opinione pubblica a ritenere che una legge sulle dichiarazioni anticipate di fine vita è necessaria e urgente. Si tratta infatti di porre limiti e vincoli precisi a quella "giurisprudenza creativa" che sta già introducendo autorizzazioni per comportamenti e scelte che, riguardando la vita e la morte, non possono restare affidate all'arbitrarietà di alcuno. Non si tratta di mettere in campo provvedimenti intrusivi che oggi ancora non ci sono, ma di regolare piuttosto intrusioni già sperimentate, per le quali è stato possibile interrompere il sostegno vitale del cibo e dell'acqua. Chi non comprende che il rischio di avallare anche un solo caso di abuso, poiché la vita è un bene non ripristinabile, non può non indurre tutti a molta, molta cautela? Per rispettare la quale è necessario adottare regole che siano di garanzia per persone fatalmente indifese, e la cui presa in carico potrebbe un domani - nel contesto di una società materialista e individualista risultare scomoda sotto il profilo delle risorse richieste. È noto come il dolore soggettivo, con le possibilità offerte dalla medicina palliativa, debba al presente spaventare di meno. Piuttosto, sono i criteri di una sana precauzione a dover suggerire pensieri non ideologici ma informati a premura e tutela, e ispirati a vera "compassione". Questa, infatti, non elimina la vita fragile e indifesa, ma la "com-patisce", induce cioè a sopportarla insieme all'ammalato, si fa condivisione, sostegno, accompagnamento fino al traguardo terreno. In determinate condizioni, la paura più impertinente scaturisce dalla solitudine e dall'abbandono, mentre l'atteggiamento d'amore trova vie misteriose per farsi percepire e saper medicare. È qui, su questo versante massimamente precario e bisognoso, che una società misura se stessa. Questa mostra la sua umanità specialmente di fronte alla vita quando è troppo debole per affermare se stessa e potersi difendere; altresì quando concepisce la vita di ciascuno non solo come un bene dell'individuo, ma anche - in misura - come un bene che concorre al tesoro comune.
Un altro pensiero vorremmo dedicarlo alla famiglia, senza lasciarci prendere dall'ansia di apparire troppo insistenti. Crediamo di conoscere il popolo italiano: tutt'altro che prevenuto o chiuso anche nei confronti dei sacerdoti. Non si faticherà a intuire perché l'insistere ci appaia qui un dovere: non c'è di mezzo alcun tornaconto, vi è piuttosto l'interesse sommo della collettività. Alla quale - immaginiamo - dovrà pur premere che le difficoltà economiche, i problemi del lavoro e della casa, formando magari un tutt'uno con l'incertezza culturale, non diventino un ostacolo sempre più grande alla realizzazione del progetto di felicità e ancora di benessere che potenzialmente è ogni famiglia. Davvero è auspicabile che, fatto salvo il rispetto per la libertà personale, nessuno nell'ambito pubblico provveda a decisioni che mettano in ombra l'istituto familiare, architrave portante di ogni realistico futuro.


(©L'Osservatore Romano 28-29 marzo 2011)
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Decisioni del sinodo della Chiesa ortodossa russa

Il Patriarcato di Mosca
avrà un Consiglio supremo


MOSCA, 28. L'istituzione di un nuovo organismo collegiale al fine di svolgere regolari consultazioni tra i presidenti di tutte le commissioni sinodali: l'ha decisa nei giorni scorsi il sinodo della Chiesa ortodossa russa, riunitosi a Mosca sotto la presidenza del Patriarca Cirillo. L'idea di un Consiglio ecclesiale supremo - questo il nome della nuova struttura - risale al 1917, quando il Consiglio ecclesiale di tutta la Russia stabilì la creazione di un organismo simile, idea poi tramontata a causa della "rivoluzione d'ottobre", a cui seguirono decenni di persecuzioni per la Chiesa ortodossa, da parte del regime sovietico.
A febbraio il Consiglio episcopale, venendo incontro al desiderio del Patriarca Cirillo, ha ripreso in mano il progetto; nella prossima riunione verrà approvata la relativa normativa e si conoscerà la composizione ufficiale del Consiglio ecclesiale supremo. Ne dovrebbero comunque far parte diciotto membri: tra essi, il metropolita di Volokolamsk, Hilarion, presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca, l'arciprete Vsevolod Chaplin, responsabile del Dipartimento sinodale per le relazioni tra Chiesa e società, e Vladimir Legoida, capo del Dipartimento per l'informazione, unico laico. I membri verranno nominati da Cirillo, che presiederà anche il nuovo organismo.
Il sinodo ha provveduto inoltre alla nomina dell'igumeno Filarete (Bulekov), fino ad ora rappresentante della Chiesa ortodossa russa al Consiglio d'Europa, a vice-presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne. Al suo posto, a Strasburgo, andrà l'igumeno Filippo (Riabykh), attuale vice-presidente del dicastero.
La riunione ha affrontato diversi temi: dalla vita interna del Patriarcato alle relazioni esterne, dai rapporti tra Chiesa e società all'educazione teologica (al riguardo è stato approvato un piano di sviluppo dell'insegnamento religioso). All'esame del sinodo anche le procedure, più uniformi e trasparenti, relative alla perdita dei titoli e all'interdizione dei chierici. Presi in considerazione inoltre gli emendamenti al testo concernente le lettere di ordinazione, tenendo conto delle decisioni prese a febbraio dal Consiglio episcopale riguardo il clero celibatario.
Il sinodo ha poi deciso la creazione di due nuove diocesi nel Caucaso settentrionale: si tratta della diocesi di Pjatigorsk e ?erkessk, che includerà parrocchie del Territorio di Stavropol' e delle Repubbliche di Cabardino-Balcaria e di Kara?ajevo-?erkessia, e della diocesi di Vladikavkaz e Maha?kala, che comprenderà parrocchie presenti in Ossezia settentrionale-Alania, Dagestan, Inguscezia e Cecenia.
E sempre dei giorni scorsi è l'annuncio che sessanta nuove chiese saranno presto costruite a Mosca su terreni liberi del Comune. A dare la notizia è stato lo stesso sindaco di Mosca, Sergey Sobianin, dopo un incontro con il Patriarca Cirillo. Il primo edificio potrebbe sorgere in prossimità del teatro Dubrovka, dove, nell'ottobre 2002, morirono centotrenta persone tenute in ostaggio da un commando armato ceceno. La chiesa verrà edificata in memoria delle vittime. "Salutiamo questa decisione senza precedenti", ha commentato il portavoce del Patriarcato, padre Vladimir Vigiljanskij, secondo cui, nella capitale russa, c'è una chiesa ortodossa ogni venticinquemila abitanti contro una media di una per diecimila abitanti nel resto del Paese. Dopo ottant'anni di ateismo sovietico, ha detto ancora il portavoce, "Mosca conta oggi trecentocinquanta chiese ortodosse, ossia un numero cinque volte inferiore rispetto a prima della rivoluzione bolscevica" del 1917. Il Patriarcato si assumerà per intero il costo dei lavori. Le sessanta nuove chiese - parte delle duecento che Cirillo si è impegnato a costruire nella capitale - potranno accogliere, ciascuna, fra i cento e i cinquecento fedeli.


(©L'Osservatore Romano 28-29 marzo 2011)
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