La pluralità non contraddice l'unità della nazione
La "variegata molteplicità di città e paesi" caratteristica dell'Italia "non è in contraddizione con l'unitàdella nazione, che è richiamata dal 150° anniversario che si sta celebrando". Lo ha sottolineato il Papa nel discorso rivolto stamane, sabato 12 marzo, ai membri dell'Associazione nazionale comuni italiani (Anci), ricevuti in udienza nella Sala Clementina.
Illustri Signori Sindaci!
Rivolgo il mio cordiale saluto a voi tutti e sono grato per la vostra presenza, che rientra in una tradizione consolidata nel tempo, come testimoniano le udienze concesse dal Venerabile Giovanni Paolo II e dai precedenti Pontefici e come ha ricordato il Presidente dell'Associazione, che ringrazio per le belle parole piene di realismo, ma anche di poesia e bellezza, con cui ha introdotto il nostro incontro. Questo fatto attesta il particolare legame che esiste tra il Papa, Vescovo di Roma e Primate d'Italia, e la Nazione italiana, la quale ha proprio nella variegata molteplicità di città e paesi una delle sue caratteristiche.
La prima idea che viene alla mente incontrando i Rappresentanti dell'Associazione Nazionale Comuni Italiani, è quella dell'origine dei comuni, espressioni di una comunità che si incontra, dialoga, fa festa e progetta insieme, una comunità di credenti che celebra la Liturgia della domenica, e poi si ritrova nelle piazze delle antiche città o, nelle campagne, davanti alla chiesetta del villaggio. Anche un poeta italiano, Carducci, in un'ode sulla gente della Carnia, richiama: "del comun la rustica virtù / Accampata all'opaca ampia frescura / Veggo, ne la stagion de la pastura / Dopo la messa il giorno de la festa...". È sempre vivo anche oggi il bisogno di dimorare in una comunità fraterna dove, ad esempio, parrocchia e comune siano ad un tempo artefici di un modus vivendi giusto e solidale, pur in mezzo a tutte le tensioni e sofferenze della vita moderna. La molteplicità dei soggetti, delle situazioni, non è in contraddizione con l'unità della Nazione, che è richiamata dal 150° anniversario che si sta celebrando. Unità e pluralità sono, a diversi livelli, compreso quello ecclesiologico, due valori che si arricchiscono mutuamente, se vengono tenuti nel giusto e reciproco equilibrio.
Due principi che consentono questa armonica compresenza tra unità e pluralità sono quelli di sussidiarietà e di solidarietà, tipici dell'insegnamento sociale della Chiesa. Tale dottrina sociale ha come oggetto verità che non appartengono solo al patrimonio del credente, ma sono razionalmente accessibili da ogni persona. Su questi principi mi sono soffermato anche nell'Enciclica Caritas in veritate, dove il principio di sussidiarietà è considerato "espressione dell'inalienabile libertà umana". Infatti, "la sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l'autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità" (n. 57). Come tale, "si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano" (ibid.). "Il principio di sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell'assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno" (n. 58).
Questi principi vanno applicati anche a livello comunale, in un duplice senso: nel rapporto con le istanze pubbliche statali, regionali e provinciali, così come in quello che le autorità comunali hanno con i corpi sociali e le formazioni intermedie presenti nel territorio. Queste ultime svolgono attività di rilevante utilità sociale, essendo fautrici di umanizzazione e di socializzazione, particolarmente dedite alle fasce emarginate e bisognose. Tra esse rientrano anche numerose realtà ecclesiali, quali le parrocchie, gli oratori, le case religiose, gli istituti cattolici di educazione e di assistenza. Auspico che tale preziosa attività trovi sempre un adeguato apprezzamento e sostegno, anche in termini finanziari.
A questo proposito, desidero ribadire che la Chiesa non domanda privilegi, ma di poter svolgere liberamente la sua missione, come richiede un effettivo rispetto della libertà religiosa. Essa consente in Italia la collaborazione che esiste fra la comunità civile e quella ecclesiale. Purtroppo, in altri Paesi le minoranze cristiane sono spesso vittime di discriminazioni e di persecuzioni. Desidero esprimere il mio apprezzamento per la mozione del 3 febbraio 2011, approvata all'unanimità dal vostro Consiglio Nazionale, con l'invito a sensibilizzare i Comuni aderenti all'Associazione nei confronti di tali fenomeni e riaffermando, allo stesso tempo, "il carattere innegabile della libertà religiosa quale fondamento della libera e pacifica convivenza tra i popoli".
Inoltre, vorrei sottolineare l'importanza del tema della "cittadinanza", che avete posto al centro dei vostri lavori. Su questo tema la Chiesa in Italia sta sviluppando una ricca riflessione, soprattutto a partire dal Convegno Ecclesiale di Verona, in quanto la cittadinanza costituisce uno degli ambiti fondamentali della vita e della convivenza delle persone. Anche il prossimo Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona dedicherà una giornata a tale rilevante tematica, giornata alla quale sono stati opportunamente invitati, come ci è stato detto, i Sindaci italiani.
Oggi la cittadinanza si colloca, appunto, nel contesto della globalizzazione, che si caratterizza, tra l'altro, per i grandi flussi migratori. Di fronte a questa realtà, come ho ricordato sopra, bisogna saper coniugare solidarietà e rispetto delle leggi, affinché non venga stravolta la convivenza sociale e si tenga conto dei principi di diritto e della tradizione culturale e anche religiosa da cui trae origine la Nazione italiana. Questa esigenza è avvertita in modo particolare da voi che, come amministratori locali, siete più vicini alla vita quotidiana della gente. Da voi si richiede sempre una speciale dedizione nel servizio pubblico che rendete ai cittadini, per essere promotori di collaborazione, di solidarietà e di umanità. La storia ci ha lasciato l'esempio di Sindaci che con il loro prestigio e il loro impegno hanno segnato la vita delle comunità: giustamente lei ha ricordato la figura di Giorgio La Pira, cristiano esemplare e amministratore pubblico stimato. Possa questa tradizione continuare a portare frutto per il bene del Paese e dei suoi cittadini! Per questo assicuro la mia preghiera e vi esorto, illustri amici, a confidare nel Signore, perché - come dice il Salmo - "se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella" (127,1). Invocando la materna intercessione della Vergine Maria, venerata dal popolo italiano nei suoi tanti Santuari, luoghi di spiritualità, di arte e di cultura, e dei santi Patroni Francesco d'Assisi e Caterina da Siena, benedico voi tutti, i vostri collaboratori e l'intera Nazione italiana.
(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2011)
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nella centrale atomica di Fukushima danneggiata dal terremoto
Il Giappone reagisce al cataclisma
Benedetto XVI esprime cordoglio per le vittime e solidarietà con i soccorritori
TOKYO, 12. All'indomani del peggiore terremoto della storia del Giappone, il Paese cerca di reagire al cataclisma che lo ha colpito. Ma oggi l'attenzione internazionale si è tutta spostata sull'emergenza nucleare. Il sisma di ieri ha infatti pesantemente danneggiato quattro centrali atomiche, facendo ripiombare il Paese nell'incubo della contaminazione da radiazioni. Stamane, è stata infatti udita una forte esplosione nell'impianto numero 1 della centrale nucleare di Fukushima, quella più colpita.Lo ha riferito l'agenzia di stampa nipponica Jiji, precisando che si sarebbe polverizzata la gabbia esterna di contenimento di uno dei reattori. Quattro operai sarebbero rimasti feriti dal crollo del tetto dell'edificio, ma nessuno di loro - informa l'agenzia Kyodo - è in pericolo di vita.
Il Governo giapponese ha tuttavia reso noto che l'esplosione non ha riguardato il reattore e che il livello di radiazioni dopo la deflagrazione è sceso. Lo ha detto il portavoce, Yukio Edano, sottolineando che l'esplosione non causerà una fuga di sostanze radioattive. In particolare Edano ha spiegato che la deflagrazione è avvenuta nella struttura esterna alla camera di contenimento - che non ha subito danni - ed è stata causata da una reazione chimica tra l'idrogeno e l'ossigeno. Il portavoce del Governo ha poi spiegato che operazioni di evacuazione non sono state ordinate per un pericolo reale ma solo a titolo precauzionale.
La televisione di Stato Nhk ha mostrato le immagini del fumo bianco che si levava dalla centrale. Ancora tutta da chiarire la dinamica degli eventi, ma esperti del settore non hanno escluso l'opzione di esplosione intenzionale per raffreddare il reattore principale. L'Aiea (l'Agenzia internazionale per l'energia atomica) ha chiesto precise informazioni sull'accaduto.
La commissione per la Sicurezza nucleare del Giappone ha accertato una fuga di cesio radioattivo attorno alla centrale. Proprio per questo, il Governo - che si è riunito oggi a Tokyo in seduta straordinaria per fare il punto della situazione - ha ordinato lo sgombero dei residenti in un raggio di venti chilometri attorno alla centrale. Nell'estremo oriente della Russia, vasta area prospiciente il Giappone, i livelli di radioattività sono comunque ancora normali. Lo hanno confermato fonti del Servizio di monitoraggio idrometeorologico russo.
Dopo le notizie sull'incidente a Fukushima, gli abitanti di Tokyo stanno facendo incetta di beni di prima necessità nei negozi, mentre lunghe code si segnalano davanti alle pompe di benzina. Molti residenti si starebbero preparando a lasciare la capitale e i pochi treni in funzione sono stracarichi di passeggeri.
E mentre la terra continua incessantemente a tremare (nelle ultime ore sono state registrate più di 100 forti scosse di assestamento), peggiorano con il passare delle ore le conseguenze del movimento tellurico di magnitudo 8,9 sulla scala Richter e del successivo tsunami, che ieri hanno devastato il nord est del Giappone. Un telegramma, a firma del segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, è stato inviato dal Papa a monsignor Leo Jun Ikenaga, arcivescovo di Osaka e presidente della Conferenza episcopale giapponese. Nel messaggio, Benedetto XVI esprime il proprio cordoglio per le vittime del cataclisma e per le loro famiglie e si dice vicino ai soccorritori.
Finora, i morti accertati sono 1.400, ma il mare che si sta ritirando continua inesorabilmente a restituire cadaveri senza nome. Il bilancio sembra quindi destinato ad aggravarsi. Se da un lato il terremoto ha tutto sommato provocato poche vittime - in un Paese abituato a convivere con gli eventi sismici - è stato proprio lo tsunami a uccidere il maggiore numero di persone. Un autentico muro di acqua alto 10 metri si è infatti abbattuto con inaudita violenza sulla prefettura di Fukushima, dove almeno 1.800 case sono state letteralmente spazzate via. Devastate anche le città di Miyagi, capoluogo del Sendai, e di Ofunato. Tutto il mondo ha potuto seguire in diretta televisiva l'impetuoso avanzamento del maremoto.
L'esercito giapponese ha trovato oggi 400 cadaveri nella città di Rikuzentakata, nella prefettura di Iwate. Sotto la pressione dell'onda anomala ha ceduto la diga di Funjinuma, le cui acque si sono poi riversate a valle cancellando dalle carte geografiche la cittadina di Sukugawa, fatta precedentemente sgomberare. Quattro convogli ferroviari con a bordo centinaia di persone sono però stati inghiottiti dal fango e dai detriti. Solo molte ore dopo è stata invece ritrovata una nave con 100 passeggeri data per dispersa. Le persone sono tutte salve. Gli esperti hanno confermato che la violenza del sisma ha spostato l'asse terrestre di 10 centimetri.
Da una sponda all'altra del Pacifico si è intanto allentato l'allarme tsunami. Sulle coste di molte Nazioni si è infatti registrato solo un moderato aumento del livello del mare e numerosi Governi hanno ormai ritirato l'allerta. L'allarme tsunami era stato lanciato nelle Hawaii, ma anche nelle Filippine, a Taiwan, in Russia, in Indonesia, in molte isole del Pacifico, sulle coste sudamericane e in Messico. In California un'onda di due metri ha investito il porto di Crescent, trascinando in mare 4 persone. Tre sono state tratte subito in salvo, della quarta non si hanno ancora notizie.
La comunità internazionale si è subito stretta attorno al Giappone, dove la macchina dei soccorsi è già in moto. Secondo quanto riferisce la Bbc, circa 300 velivoli dell'aeronautica nipponica e una quarantina di navi della marina saranno impiegati in quella che si preannuncia come una operazione senza precedenti. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ha parlato di un disastro potenzialmente catastrofico, ha deciso di inviare due portaerei per aiutare la popolazione, mentre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha osservato un minuto di silenzio. Su richiesta del Giappone, la Commissione europea ha subito attivato il meccanismo di protezione civile per fornire assistenza attraverso l'invio di squadre di soccorritori e di cani specializzati nelle ricerche delle vittime sotto le macerie.
(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2011)
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Wall Street scommette sulla ricostruzione
NEW YORK, 12. Il terremoto in Giappone non ferma Wall Street che ha chiuso ieri positiva con gli investitori che scommettono che le aziende beneficeranno della ricostruzione. Il Dow Jones sale di 59,79 punti, o lo 0,50 per cento, a 12.044,40 punti, ma archivia la settimana in calo dell'1 per cento. Il Nasdaq avanza di 14,59 punti, o lo 0,54 per cento, a 2.715,61 punti con il bilancio settimanale in rosso con l'indice che perde il 2,5 per cento. L'indice S&P 500 mette a segno un progresso di 9,17 punti, o lo 0,71 per cento, 1.304,28 punti ma cede l'1,3 per cento nella settimana. Fra i singoli titoli 3M e Caterpillar salgono rispettivamente dell'1,8 per cento e dell'1,7 per cento. EXXon Mobil avanza dello 0,9 per cento. Gli investitori statunitensi ritengono che il sisma non avrà impatti significativi sulla crescita mondiale, ma scommettono che la ricostruzione spingerà la domanda per le aziende. Le Borse europee invece hanno avuto un contraccolpo dal terremoto: l'indice Stxe 600, che fotografa l'andamento dei principali titoli quotati sui listini del Vecchio continente, ha perso lo 0,89 per cento, ma molte piazze azionarie hanno fatto peggio. Il devastante sisma potrebbe inoltre fare deragliare la ripresa economica giapponese e aumentare il debito nipponi
(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2011)
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Sì al nuovo patto Ue
Previsti una stretta sui debiti pubblici, l'aumento del fondo salva-Stati e più aiuti alla Grecia
BRUXELLES, 12. Un impegno politico da realizzare su base volontaria e senza cifre, secondo modalità scelte da ciascun Governo, anche se Bruxelles vigilerà. L'obiettivo è quello di rilanciare la crescita attraverso l'eliminazione di squilibri strutturali. Si punta sul rigore dei conti pubblici, su una maggiore coordinazione e su una riforma del mercato del lavoro per renderlo più flessibile.
L'intesa raggiunta ieri sera, a Bruxelles, dai diciassette capi di Stato e di Governo dell'Eurogruppo è, per il momento, soltanto un accordo politico: un successo - dicono gli analisti - ma solo apparente. Sulla carta, comunque, i risultati sono importanti: questa almeno l'opinione del cancelliere tedesco, Angela Merkel, che ha definito il vertice "un successo". L'ultima parola spetterà al summit del 24 e 25 marzo.
I capi di Stato e di governo dell'euro si sono impegnati a fissare ogni anno degli obiettivi comuni che i singoli Governi dovranno recepire nel piano nazionale per le riforme e nel programma di stabilità da inviare a Bruxelles. Tra gli obiettivi indicati nel patto, la moderazione salariale, l'adeguamento dell'età pensionabile alle reali aspettative di vita, l'inserimento dei vincoli europei di bilancio nella legislazione nazionale, il taglio del costo del lavoro, norme più efficaci per la risoluzione delle crisi bancarie.
Viste le difficoltà in cui ancora si trova Atene e considerati gli sforzi compiuti dal Governo Papandreou, è stato deciso di tagliare di cento punti base il tasso di interesse sugli aiuti concessi, portandolo dal 5,8 al 4,8 per cento, e di allungare i tempi del rimborso dei prestiti a sette anni e mezzo. Nessuna concessione invece all'Irlanda né sui tassi di interesse né sui tempi di rimborso né sul regime fiscale agevolato per le imprese. Tanto più che Dublino - ha affermato il presidente del Consiglio Ue, Hermann Van Rompuy - non ha soddisfatto a pieno le condizioni per poter ottenere dei benefici.
La dotazione effettiva dello European financial stability facility (Efsf) sarà portata da 250 a 440 miliardi di euro. E l'attuale fondo salva-Stati avrà anche la capacità di poter intervenire sul mercato primario dei titoli, acquistando i bond dei Paesi dell'euro in gravi difficoltà finanziarie, ma sempre in cambio di maggiori sforzi sul fronte del risanamento delle finanze pubbliche. Confermata anche la dotazione del futuro meccanismo anticrisi permanente, lo European stability mechanism (Esm), operativo dalla metà del 2013. Sarà di 500 miliardi di euro. Restano da definire nel dettaglio il giro di vite sui debiti pubblici e il grado di automatismo delle sanzioni per i Paesi poco virtuosi. Il debito in eccesso (sopra il sessanta per cento del pil) dovrà essere tagliato di un ventesimo l'anno nell'arco di tre anni. Si discute ancora se questo triennio debba partire subito, cioè dall'entrata in vigore della riforma del Patto, o se debba esserci un periodo transitorio di tre anni. Sembrerebbe oramai accolta, invece, la richiesta italiana di prendere in considerazione gli altri fattori rilevanti nella stima della situazione economica di un Paese (dal debito privato di famiglie e imprese all'andamento della spesa per le pensioni, all'esposizione delle banche).
Infine, i leader dell'Eurozona hanno accolto favorevolmente la decisione del Portogallo di varare nuove misure di austerity. Si tenta così di allontanare l'ipotesi di un piano di salvataggio per Lisbona, negli ultimi giorni tornata nel mirino dei mercati insieme alla Spagna.
(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2011)
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Costa d'Avorio in agonia
di PIERLUIGI NATALIA
Il rischio di un'imminente agonia, nelle sue popolazioni e nel suo sistema economico e sociale, incombe sulla Costa d'Avorio, lacerata da una crisi istituzionale in conseguenza della quale sembra ormai più un fatto che una prospettiva la ripresa della guerra civile, seppure non ancora nella paventata vasta scala, tra i sostenitori di Alassane Ouattara, vincitore delle elezioni presidenziali dello scorso 28 novembre, e quelli del presidente uscente Laurent Gbagbo, che rifiuta di cedere il potere. Ad Abidjan, la principale città del Paese, si sono fatti più frequenti i posti di blocco e le perquisizioni di civili da parte dei cosiddetti Giovani patrioti, le forze irregolari che sostengono Gbagbo. Intanto, secondo quanto riferito da fonti concordi, dopo il fallimento dell'ultimo tentativo di mediazione dell'Unione Africana si moltiplicano le notizie e le testimonianze sul trasferimento di armi alla Guardia presidenziale, il corpo che Gbagbo ritiene più fidato.
Nella riunione di giovedì 10 ad Addis Abeba, il Consiglio per la pace e la sicurezza dell'Unione africana ha ribadito di riconoscere come presidente legittimo Ouattara e ha dato a Gbagbo due settimane di di tempo per esprimersi sull'ipotesi di un governo di unità nazionale aperto a tutti i partiti. La proposta, però, è stata già respinta da Gbagbo. Questi sembra deciso ad affidarsi alla forza. Colpi d'artiglieria registrati già nella notte tra giovedì e venerdì nel settore di Yamoussoukro, la capitale politica che divide il nord in prevalenza abitato da sostenitori di Ouattara dal sud dove si concentrano le forze fedeli a Gbagbo, appaiono un avallo dell'intenzione di quest'ultimo di non tenere in nessun conto i moniti della comunità internazionale. Diversi osservatori sottolineano che il ricorso all'artiglieria da parte di Gbagbo dimostra una completa e volontaria sfida a quanto emerso dalla riunione ad Addis Abeba.
Nel documento diffuso dall'Unione africana si afferma che "senza una soluzione rapida della crisi la Costa d'Avorio rischia di precipitare in una violenza generalizzata che avrebbe conseguenze incalcolabili per il Paese, per la regione e per l'intero continente". Le prime e già gravi conseguenze in questione più che un pericolo sono una situazione in atto. Sul piano economico, il sostanziale blocco delle esportazioni di cacao, principale voce dell'economia ivoriana, incomincia a far precipitare il Paese in un impoverimento brusco e drammatico, difficilmente sostenibile da una popolazione già stremata.
Contemporaneamente, c'è da settimane un'emergenza profughi tale da confermare lo scenario appunto di guerra civile. All'inizio della settimana, l'alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr) ha valutato già a 450.000 le persone costrette ad abbandonare le proprie case in Costa d'Avorio a causa della crescente insicurezza e degli scontri tra le forze contrapposte. Fonti dell'Unhcr hanno riferito che sono 75.000 i rifugiati nella confinante Liberia, metà dei quali giunti dopo il 24 febbraio scorso, quando gli scontri armati hanno incominciato a intensificarsi nell'ovest del Paese. A questi si aggiungono altrettanti sfollati nelle regioni occidentali e tra i duecentomila e trecentomila persone nella medesima condizione nella zona di Abidjan, dove le truppe fedeli a Gbagbo, appoggiate da milizie locali e da mercenari stranieri, stanno intensificando gli attacchi ai sostenitori di Ouattara. A sua volta, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni ha annunciato ieri di aver dovuto ritirare a causa degli scontri armati il proprio personale straniero dalle località occidentali di Duekoue e Guiglo (ovest), pur lasciandovi il personale locale.
Da parte sua, la Federazione internazionale dei diritti dell'uomo (Fidh) ha sottolineato le responsabilità di Gbagbo in crimini contro l'umanità commessi nel Paese, stimando che da novembre sarebbero state uccise almeno quattrocento persone, alle quali si teme che vadano aggiunti 68 dispersi. "La politica di tensione, di odio decisa e intrapresa da Laurent Gbagbo per pesare sulla mediazione diplomatica e far accettare il suo colpo di Stato de facto, si traducono nei fatti in gravi violazioni dei diritti dell'uomo qualificabili come crimini contro l'umanità", afferma la Fidh in un rapporto pubblicato questa settimana, dopo una missione nel Paese.
(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2011)
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E zoppicando partì alla ventura
di ALAIN BESANÇON Come definire questo libro straordinario? Una biografia, un'agiografia, una meditazione spirituale? È tutto ciò allo stesso tempo, ma è la meditazione a sostenere l'intero racconto.
In Inigo, portrait di François Sureau (Paris, Gallimard, 2010, 154 pagine) la biografia si riduce a due anni della vita di sant'Ignazio, dalla battaglia di Pamplona alla partenza da Manresa, ossia dal 1521 al 1523. Ignazio (Inigo), cadetto di una rispettabile famiglia dei Paesi Baschi, poco ricca, poco illustre, si è messo al servizio della corona di Spagna, con il titolo di paggio del viceré di Navarra. Ha condotto la vita di un cortigiano. Abbastanza dissipata, ma né più né meno di quanto si confaceva alle usanze del suo stato. Sarà in seguito che si renderà conto di quanto si è allontanato da Dio.
In quella corte si è distinto per la pertinenza dei giudizi e l'intelligenza dei consigli che ci si aspettava da lui. Si trova nella fortezza di Pamplona quando questa viene attaccata dall'esercito del re di Francia, molto più potente. Inigo, contro ogni buon senso, consiglia di resistere e convince il governatore a farlo. È accettare una battaglia eroicamente persa.
François Sureau, che conosce la vita e l'onore militari, lo descrive in modo splendido. Si diletta nel mostrarci il mondo dei soldati, il Tercio (l'invincibile fanteria di Castiglia), i mercenari, i lanzichenecchi, i cavalieri. Poi racconta con precisione professionale le operazioni di assedio, l'artiglieria che abbatte le mura, l'apertura di una breccia, l'assalto respinto, poi vittorioso. Il racconto è bellissimo. Mi ricorda le pagine classiche della letteratura militare francese, il Mérimée di L'enlèvement de la redoute, l'Hugo del Cimetière d'Eylau.
Ignazio, che è alla sua prima esperienza di battaglia, mostra di avere la stoffa di un grande capitano. Una palla di cannone gli rompe una gamba, frattura aperta per la quale, a quanto pare, Ignazio deve morire. Non muore, ma deve rinunciare alla vita militare e alla vita di corte. Riportato con grande sforzo nel suo castello natale, si rende conto che la sua tibia si sta rinsaldando male. Ordina a dei medici incompetenti di rompergli nuovamente la gamba. È un massacro, ma non si lascia sfuggire neanche un lamento. Rischia nuovamente di morire.
Costretto a letto, ripercorre la sua vita. Gli danno dei libri, dei romanzi cavallereschi, Amadigi di Gaula l'entusiasma, come in seguito lo inebrierà Don Chisciotte, ma anche la Legenda Aurea e la Vita di Cristo di Ludolphe le Chartreux.
Il suo esame di coscienza ha inizio, doloroso, pieno dello spettacolo dei suoi peccati passati e delle sue mancanze presenti. S'innamora di Gesù Cristo. Si congeda dal viceré e parte, zoppicando, alla ventura, perché non sa che cosa vuole, o piuttosto perché non sa che cosa Dio vuole da lui.
Da questo momento la biografia si trasforma in agiografia. François Sureau si conforma al canone della vita dei santi. Solo Dio sa quanti libri hanno raccontato la nascita d'Ignazio alla vita di santità. Il cammino è stato per lui eccezionalmente erto. Si spoglia dei suoi vestiti da cavaliere, del suo atteggiamento da cortigiano, si mette l'abito del pellegrino, presto assume l'aspetto di un vagabondo straccione e irsuto, ma non sa ancora dove andare.
Trova aiuto spirituale nell'abbazia di Montserrat, presso un monaco francese dotato di grande tatto, ma continua a cercare la sua strada. A Manresa si sfinisce con digiuni, penitenze, schiacciato dai suoi errori, tormentato dagli scrupoli. È accolto in ospedale dove gli vengono affidati i compiti più umili. Supplica Dio di illuminarlo.
Ma Dio tace. Tace al punto che Ignazio non può più pregare, non può più credere, non può più addirittura pensare né parlare. Come tanti santi, è piombato in una tenebra così spessa da essere al limite della disperazione. È tentato di abbandonare tutto, di tornare sconfitto a Loyola. E poi un bel giorno viene liberato. Diviene allora sant'Ignazio, sempre soldato, grande capitano, ma in vista del Regno. Diviene il Generale dell'Ordine che, secondo le sue minuziose istruzioni, ricostruirà la Chiesa cattolica, e le cui lettere, dieci mesi dopo essere state spedite, vengono lette in Giappone da Francesco Saverio in ginocchio.
Visti dall'esterno, l'apertura d'Ignazio e gli inizi della Compagnia ricordano un romanzo cavalleresco. Eppure François Sureau ha cancellato tutto ciò che poteva dare un tono pittoresco o un carattere barocco a questa avventura. Preferisce l'Ignazio grigio, sobrio fino all'estremo, gentile senza orpelli, che muore nella sua cella. Il suo fine non è di raccontare ancora una volta la vita di questo santo, ma di scoprire l'interiorità invisibile di un'anima che, prima di trovare la pace, ha attraversato, senza darlo a vedere, molte prove e tormenti. È di seguire per quanto possibile un itinerario spirituale segreto.
François Sureau ha messo il suo talento di scrittore ai piedi del maestro, come se cercasse di santificare il proprio atto letterario. Ciò ricorda Chateaubriand che pretendeva di aver scritto la Vita di Rancé come una penitenza imposta dal suo direttore. Ma Sureau, che non pretende nulla di simile, è più rigoroso, più onesto, più puro. Il suo stile teso, semplice, è allo stesso tempo aperto e segreto, sapendo che sarà veramente chiaro solo per i lettori decisi a seguire i suoi passi.
Di fatto l'intero libro è un "esercizio" conforme agli esercizi di sant'Ignazio. Se ne esce edificati, se si accetta di esserlo. Questo tipo di opera è rara ovunque, in Francia più che altrove. Lascia lo spirito soddisfatto e il cuore gioioso.
(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2011)
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Una voce rose e fiori
di GIULIA GALEOTTI Era poco più di un anno fa: il 18 febbraio 2010 l'emiliana Nilla Pizzi salì sul palco del festival di Sanremo per duettare con la "cantantessa" siciliana Carmen Consoli. Cinquantacinque anni separavano le date di nascita delle due donne, un mezzo secolo durante il quale la musica italiana è cambiata radicalmente, eppure il duetto di Grazie dei fiori fu un successo enorme.
Nata nel 1919, la ventiduenne Nilla Pizzi fu la prima cantante a vincere Sanremo, proprio con Grazie dei fiori, che raggiungerà la cifra - astronomica per l'epoca - di trentacinquemila dischi. Era il lontano 1951, e l'evento divenne l'emblema di un'Italia riuscita a rinascere dalla guerra.
Gli esordi di Nilla risalgono al 1937, quando vinse un concorso dell'Eiar, l'ente radiofonico dell'epoca. Inciso il suo primo disco per Parlophon quattro anni dopo, fu poi esclusa dalla radio a seguito della stroncatura che le inflisse il maestro Tito Petralia: la sua voce era decisamente troppo sensuale per il pudico regime fascista.
La carriera artistica di Nilla, morta a Milano a 91 anni, non è stata tutta rose e fiori. Dopo l'enorme successo degli anni Cinquanta, infatti, con il Sessantotto la cantante è divenuta l'archetipo per eccellenza da abbattere. Un autentico antimodello, espressione di un mondo e di un cantare demodé, ridicolo, sorpassato. Per questo ha fatto notizia il riconoscimento che lo scorso anno Mina, altra mitica voce della canzone italiana, le tributò pubblicamente. "Ho imparato molto dalla sua voce, ed è giusto ammetterlo, finalmente", scrisse su "La Stampa".
Grande Ufficiale della Repubblica italiana (2002) e vincitrice del Premio alla carriera a Sanremo (2003), con Nilla Pizzi, a pochi giorni dalle celebrazioni per i centocinquanta anni della nascita dello Stato italiano, si spegne una parte colorata, sorridente e combattiva della vita del Paese.
(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2011)
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ritorna sul grande schermo la figura dell'esorcista
Ci si creda o no il diavolo esiste
di GAETANO VALLINI "Tutto qui?" domanda deluso il seminarista Michael Kovak al termine del primo esorcismo al quale assiste. "Che cosa credevi di vedere: teste che ruotano e zuppa di piselli?" risponde l'anziano padre Lucas, dal quale è stato inviato per imparare, ma soprattutto per vincere il suo scetticismo e, ancora di più, per ritrovare la fede. Una battuta che cerca di sottrarre il film Il rito dall'ingombrante, ma ineludibile, paragone con L'esorcista, il capolavoro di William Friedkin (1973) al quale, tuttavia, rende l'omaggio di sottili citazioni.Nella pellicola diretta da Mikael Håfström non mancano del resto scene inquietanti, con i posseduti dal demonio che sputano enormi chiodi, assumono pose innaturali e si deformano ruggendo frasi in lingue e voci diverse. Certo, quarant'anni dopo, non fanno più lo stesso terrificante effetto sul pubblico. Ma è il prezzo che si deve pagare al genere horror di cui il filone demoniaco è un sottogruppo molto frequentato, anche se raramente con risultati interessanti.
Hollywood ogni tanto sente il bisogno di cimentarsi in storie in cui contrapporre direttamente il bene e il male, nel titanico e apocalittico scontro tra divino e demoniaco. Spesso però, cinematograficamente parlando, l'interpretazione dei fatti è molto libera, si punta sull'orrore, sempre in eccesso visto che al botteghino paga, lasciando così in secondo piano l'oggettività di una realtà - la possessione - già di suo agghiacciante. Allora, facendo la tara di ciò che è palesemente irreale, e che comunque qui resta meno esasperato che altrove, nonché di alcuni immancabili stereotipi e di altrettanto perdonabili incongruenze, Il rito riesce a mantenere una sufficiente credibilità. Se non altro nella psicologia dei personaggi, con i loro tanti dubbi e le loro certezze. E qualche concessione alla modernità. Come quando nel bel mezzo di un esorcismo, a padre Lucas squilla il telefonino. E il prete addirittura risponde.
Ispirato alle esperienze di un sacerdote americano, padre Gary Thomas - la cui storia è stata raccontata dal giornalista Matt Baglio nel libro Il rito. Storia vera di un esorcista di oggi (Sperling & Kupfer) - il film segue le vicende del seminarista Michael Kovak (Colin O'Donoghue), inviato dai superiori a Roma per studiare l'esorcismo nonostante i suoi dubbi su questo rituale e, perfino, sulla sua stessa fede. Figlio di un impresario di pompe funebri (Rutger Hauer), il giovane non vede altra alternativa all'intraprendere lo stesso mestiere del padre se non quella di entrare in seminario nonostante non senta la vocazione. Con l'apparentemente impenetrabile corazza dello scetticismo, anche a Roma Michael non esita a sfidare l'insegnante invitandolo a rivolgersi alla psichiatria, anziché alla pratica dell'esorcismo, per trattare quanti si ritengono posseduti.
Persino quando è mandato come apprendista da padre Lucas (Anthony Hopkins) - un anziano esorcista dai metodi non proprio ortodossi e da un carattere brusco, al limite dell'ambiguo - e assiste ai primi riti il seminarista resta scettico. Salvo ricredersi quando gli indemoniati che incontra cominciano a raccontargli episodi di cui lui solo è a conoscenza.Guidato dall'esperto sacerdote, Michael (nome decisamente evocativo) inizia la sua personale discesa agli inferi che lo porterà a confrontarsi con una forza malefica tanto potente da travolgere lo stesso prete (Hopkins torna a incarnare il male dopo Il silenzio degli innocenti). Ogni certezza crolla e l'unica possibilità che resta è iniziare ad avere fede. D'altra parte padre Lucas aveva detto subito: "Scegliere di non credere nel diavolo non ti proteggerà da lui".
E forse sta proprio in questa frase il senso della storia: proporre la presenza del maligno contrapponendole la forza della fede. Il diavolo esiste, che ci si creda o meno, e opera subdolamente per avere il sopravvento.
Una realtà che alla Chiesa certo non sfugge. Gesù scacciava i demoni, insegnando agli apostoli a fare lo stesso nel suo nome, nella certezza che il male non avrà l'ultima parola (non praevalebunt). Semmai tale realtà sembra sfuggire a una società sempre più secolarizzata per la quale il peccato non esiste e parlare di diavolo e demoni vuol dire superstizione e oscurantismo, un ritorno al medioevo insomma. E così assume valore il dubbio di padre Lucas: "La cosa interessante degli scettici è che sono sempre in cerca di prove. La domanda è: se le trovassero, cosa cambierebbe sulla terra?".
Pur con tutti i cliché del genere, il film di Håfström è certo lontano dall'intensità narrativa ed emotiva del modello finora insuperato di Friedkin, ma è onesto e rispettoso. La Chiesa non viene rappresentata da figure che tuonano anatemi o dispensano dogmatiche certezze, presentate invariabilmente come antipatiche e irritanti, dunque insopportabili. E la stessa figura di sacerdote è delineata con tratti positivi. Anzi, proprio negli Stati Uniti Il rito è stato visto quasi come una sorta di spot a favore del sacerdozio. Nulla di nuovo, però: all'epoca anche L'esorcista fu accolto con un certo interesse dagli ambienti cattolici.
Alla fine il dubbioso e scettico seminarista Michael sceglie scientemente di essere prete. Il male non ha prevalso. La sua vicenda testimonia il potere della fede. L'ultima scena lo vede entrare nel confessionale. Rimettere i peccati è la sua nuova prima linea, la linea di fuoco della quotidiana, silenziosa lotta contro il maligno che abita il mondo.
(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2011)
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L'Evento che spiega l'uomo all'uomo
di ANGELO SCOLA Pubblichiamo un estratto della relazione - dal titolo L'insegnamento di Karol Wojty?a. Giovanni Paolo II e l'uomo postmoderno - pronunciata dal cardinale patriarca di Venezia al convegno organizzato sabato 12 marzo, nel capoluogo lagunare, dall'Istituto superiore di scienze religiose "San Lorenzo Giustiniani", inserito nello Studium Generale Marcianum.
La proposta di Dio formulata da Giovanni Paolo II, soprattutto nelle tre encicliche trinitarie, risponde al desiderio di Dio dell'uomo postmoderno. Un desiderio insopprimibile anche quando viene sepolto sotto le macerie dell'odierno clima nichilistico. La via maestra scelta dal Papa polacco è quella della contemporaneità di Gesù Cristo.
Sin dall'inizio del suo pontificato, Giovanni Paolo II ha formulato con forza una decisiva lettura del concilio Vaticano II basata sull'icastica affermazione: "Redentore dell'uomo, Cristo è il centro del cosmo e della storia" (Redemptor hominis, 1). Con questa enciclica egli propone programmaticamente tale prospettiva per permettere una comprensione esatta del nucleo costitutivo dell'esperienza cristiana, intesa come pienezza dell'esperienza comune, integrale ed elementare dell'uomo.
L'affermazione iniziale è ulteriormente approfondita dai paragrafi 6-9, che sostengono non solo il primato di Cristo redentore ma il primato di Cristo tout court. Cristo è il Capo per mezzo del quale esistono tutte le cose. In Lui, l'uomo è pensato, voluto e creato e non solo redento. Il Papa riprende a questo punto il passo di Gaudium et spes, 22 che ha ispirato tutta la sua vita di uomo e di sacerdote, affermando che gli uomini "proprio nel Figlio primogenito sono stati, fin dall'eternità, predestinati a divenire figli di Dio e chiamati alla grazia, chiamati all'amore". E tale rivelazione dell'amore e della misericordia "ha nella storia dell'uomo una forma e un nome: si chiama Gesù Cristo". Giovanni Paolo II ci guida così nel passaggio da Gesù al Padre attraverso la strada che Cristo stesso ci ha mostrato per rivelarci la Trinità: da Gesù al Padre nello Spirito.
Questo tema viene ulteriormente indagato nella seconda enciclica del trittico trinitario: Dives in misericordia, che, approfondendo il cristocentrismo, scardina la falsa contrapposizione fra teocentrismo e antropocentrismo proposta da "varie correnti del pensiero umano" (1). Ciò è possibile perché Gesù, la misericordia incarnata, rivelando Dio nell'impenetrabile mistero del Suo essere, ne mostra anche chiaramente l'amore per l'uomo. È nell'orizzonte del Logos-Amore, come non cessa anche oggi di affermare Benedetto XVI, che il desiderio di Dio incontra un'adeguata risposta. In questo Dio infatti, la ragione, la fede e la vera religione scoprono il loro nesso profondo e fecondo. Il manifestarsi della misericordia del Padre in Cristo spiega il senso esatto del mistero della creazione, consentendo anche di lumeggiare il mistero dell'elezione di ogni uomo in Gesù Cristo.
Il percorso che dall'evento Gesù Cristo conduce alla vita intima della Trinità si completa nella terza enciclica trinitaria di Giovanni Paolo II, la Dominum et vivificantem, in cui è descritto il dialogo vitale che lo Spirito consente tra la Trinità e l'uomo. Questa enciclica mostra la portata estrema della pretesa di Gesù Cristo, descritto come immagine perfetta del Padre e quindi come la figura dell'uomo, perché questi, a sua volta, è creato a immagine di Dio. Per la grazia dello Spirito, l'uomo scopre "in se stesso l'appartenenza a Cristo" e attraverso questa appartenenza comprende meglio il senso della sua dignità.
In che modo allora la centralità storica e cosmica di Cristo alfa e omega può ancora incontrare l'interesse dell'uomo odierno? Cosa offre Cristo alla sua ragione iper-esigente e alla sua libertà spesso insoddisfatta? Gli offre una risposta esauriente all'enigma da cui è costituito senza annullarne la libertà dal momento che Cristo non pre-decide il dramma del singolo. Secondo la riflessione teologica sulla singolarità di Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato, rivelandosi a un tempo non solo come redentore universale ma anche come capo della creazione, si attesta come l'Evento che spiega l'uomo all'uomo. In tale Evento la libertà infinita del Deus Trinitas si piega, attraverso il Logos-Amore, sulla libertà finita dell'uomo, liberandola.
L'affermazione di Cristo, nostro contemporaneo, come attestazione della possibilità di nominare Dio oggi, presuppone una lettura della sua Persona in quanto Persona salvifica, come emerge dal trittico trinitario di Giovanni Paolo II. Una lettura siffatta permette di rendere conto dell'interesse per la sua venuta nel mondo.
Nella persona storica di Gesù Cristo si trovano veramente unificate e proiettate, nell'escatologia del mondo nuovo/cieli nuovi, tutte le dimensioni antropologiche. Emerge così anche l'interesse per l'uomo nuovo senza il quale l'interesse per Cristo è nominale e, nello stesso tempo, si evidenzia l'interesse per Cristo senza il quale l'interesse per l'uomo resta ultimamente vuoto. La questione dell'interesse per, che riprende il tema della con-venientia di Tommaso, è pedagogicamente assai attuale e quindi decisiva per la nuova evangelizzazione.
(©L'Osservatore Romano 13 marzo 2011)
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