Nessuna intesa
sul comando Nato in Libia
BRUXELLES, 24. Ancora nessun accordo sul comando delle azioni militari in Libia nella riunione di ieri tra i 28 ambasciatori dei Paesi della Nato a Bruxelles - oggi è in corso un nuovo incontro al Consiglio Atlantico - e restano irrisolte le questioni sulla relazione tra assicurare il rispetto della no-fly zone sui cieli libici e le operazioni militari per proteggere i civili e l'ampiezza della missione. Ma questo non sembra preoccupare Parigi: "I raid aerei continueranno, colpiremo i mezzi militari e nient'altro", ha annunciato questa mattina il ministro degli Esteri, Alain Juppé. Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha chiesto un embargo petrolifero completo contro la Libia, oltre ad ampie restrizioni al commercio del Paese. "Spero che alla fine troveremo una posizione comune su questo punto", ha detto Angela Merkel durante un intervento al Bundestag riferendosi al Consiglio europeo di oggi e domani a Bruxelles.
La quinta notte di raid della coalizione in Libia sembra aver lasciato intatte le roccaforti militari di Muammar Gheddafi. L'artiglieria del colonnello ha ricominciato a sparare su Misurata, la terza città del Paese quanto a grandezza, prendendo a bersaglio, tra gli altri obiettivi, l'ospedale. A portare terrore e morte dentro la città sono anche i cecchini, che per i ribelli hanno fatto 16 morti. Gli abitanti di Misurata, il cui porto è stato sequestrato dalle forze lealiste, hanno detto che migliaia di lavoratori stranieri sono bloccati nello scalo. La coalizione internazionale ha condotto intensi raid ieri sera e stamani sulla città di Sabha, 750 chilometri a sud di Tripoli, feudo della tribù cui appartiene Gheddafi.
Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha ribadito che le forze di Gheddafi sono state allontanate da Bengasi e per questo il Paese è più sicuro. Nonostante il comandante delle forze britanniche, Greg Bagwell, abbia affermato che le forze aeree libiche non esistono più, e l'ammiraglio statunitense, Gerard Huedber, abbia dichiarato che le forze della coalizione hanno attaccato dall'aria l'esercito di Tripoli che minaccia le città, non sono terminati i combattimenti. Se Misurata è sotto il fuoco di artiglieria e cecchini, infatti, le cose non vanno meglio a Zintan, alla cui periferia i lealisti stanno ammassando truppe e carri armati. Verso le 4.30 del mattino è entrata in azione la contraerea a Jafar e a Tripoli, dopo che ieri le forze della coalizione avevano nuovamente attaccato il bunker del raìs. Sarebbe stata colpita una base militare, ma il Governo libico lamenta almeno 18 vittime tra i civili e ha provveduto a mostrarle ai reporter stranieri, trasferiti per l'occasione in un ospedale.
(©L'Osservatore Romano 25 marzo 2011)
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Una rivoluzione femminile
A tre anni dalla scomparsa, è uscita la prima biografia di Chiara Lubich, scritta da Armando Torno per Città Nuova: un libro che sceglie volutamente un tono non agiografico per descrivere quella che è sicuramente una delle più straordinarie esistenze del Novecento. Una narrazione piana, costruita attraverso le testimonianze delle focolarine e dei focolarini che sono stati più vicini alla loro fondatrice. Un racconto che volutamente mette sullo stesso piano le vicende umane e le esperienze mistiche di Chiara; rispettando, in questo modo, il suo carattere riservato, la sua capacità di stare al centro di tutto ma al tempo stesso di scomparire come persona.
Mi è capitato di incontrarla personalmente una sola volta, l'8 marzo di qualche anno fa, al Quirinale, dove era arrivata per ricevere un'importante onorificenza dal presidente della Repubblica italiana. Era entrata sorridendo, come sempre, senza preoccuparsi se nessuno dei presenti dava segno di riconoscerla e di darle onore. A me, che le ero andata incontro emozionata, ha riservato un sorriso timido e dolce, e ha declinato con semplicità ogni mio tentativo di far sapere ai responsabili del cerimoniale che era arrivata.
La biografia rispetta questo suo atteggiamento umile e ritroso, profondamente disponibile al contatto umano ma del tutto indifferente alla notorietà, e alla ribalta che pure le spettava. A tal punto che si coglie l'importanza di Chiara nella storia del Novecento quasi più dalla cronologia comparata, molto ben fatta, che si trova in appendice al volume e che dà conto della ricchezza delle forme di aggregazione da lei create all'interno del mondo cattolico, della sua straordinaria capacità di costruire momenti di incontro e di vero dialogo con esponenti e fedeli di altre religioni, della fecondità spirituale che ha segnato la sua vita interiore.
Una fecondità che ha sempre condiviso con le sorelle e i fratelli più vicini, e poi con tutti coloro che rivelavano disponibilità all'ascolto, consapevole che i tempi in cui si trovava a vivere richiedevano un'immediata condivisione di quanto lei, strumento di Gesù, arrivava a comprendere illuminata dallo Spirito Santo. Illuminazioni che nascevano dalla lettura continua della Sacra Scrittura: "Ogni volta che Chiara apriva il Vangelo vi scopriva la profondità di quelle parole di vita eterna che mai prima aveva trovato".
In questo modo, Chiara ha anticipato quello che la cultura cattolica avrebbe poi scoperto: l'ingresso nel linguaggio spirituale della parola amore, fino a quel momento riservata più che altro ai discorsi mondani; l'idea della spiritualità dell'unità, che si trasforma in una appassionata forma di dialogo tra le religioni e in una risposta alla "notte culturale" dell'umanità. Senza mai preoccuparsi che fosse ricordato il suo ruolo precorritore.
La proposta di una nuova evangelizzazione, secondo le sue parole, "non significa soltanto che il mondo secolarizzato" ne ha bisogno, ma anche che "l'evangelizzazione va fatta in maniera nuova". E alla ricerca di questa maniera nuova dedica tutte le sue energie: gli incontri, anche quelli apparentemente secondari, si trasformano grazie a lei in nuove vie e nuovi progetti, allargando sempre più la rete dei coinvolgimenti nel suo ideale: la santità a portata di tutti. Il suo movimento si apre a tutti gli ambiti, in un'ottica universale, con particolare attenzione alla cultura e ai media, mentre la sua vita interiore dà un nuovo impulso agli studi teologici.
Ma certamente l'aspetto di novità più forte che ha segnato la sua vicenda è proprio il suo essere donna, una donna che dà un accento fortemente femminile a ogni sua opera: basti pensare al nome più conosciuto del movimento da lei fondato (ufficialmente Opera di Maria) che evoca il focolare, spazio tradizionalmente femminile. Comincia circondandosi di donne, che sanno poi aprirsi alla necessaria presenza maschile, e dà disposizioni che a presiedere il movimento sia sempre una donna.
Anche la spiritualità dell'Opera prende una forma femminile, rappresentando la presenza mistica di Maria nella Chiesa. In questo modo, con la sua straordinaria esperienza, Chiara - che parla alle assemblee dei vescovi, è ascoltata dai Papi, viene accolta con gli onori di un capo di Stato nei Paesi che visita - realizza quello che i tempi richiedono anche alla Chiesa: riconoscere l'importanza del ruolo delle donne.
Ma lo ottiene senza rivendicare diritti, senza nessuna asprezza. Lo ottiene dimostrando di sapersi meritare quell'autorità che le viene riconosciuta, come è stato per le grandi sante nella storia della Chiesa. La sua importanza nel cattolicesimo del Novecento è anche la prova di una rivoluzione femminile compiuta nel silenzio e nella modestia. Rimane il compito di prenderne atto.
di LUCETTA SCARAFFIA
(©L'Osservatore Romano 25 marzo 2011)
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Merkel fa retromarcia
sul nucleare
BERLINO, 24. "Più presto la Germania uscirà dal nucleare e meglio sarà". Con queste poche parole il cancelliere tedesco, Angela Merkel, è intervenuto, ieri, lasciando intendere la possibilità di una brusca frenata dei piani atomici di Berlino.
La dichiarazione di Merkel si aggiunge al blocco di tre mesi del funzionamento delle sette centrali più vecchie e agli stress test sugli attuali impianti europei decisi da Bruxelles. E molti analisti non hanno mancato di sottolineare che le dichiarazioni del cancelliere vanno lette anche in una prospettiva elettorale. Domenica nel Baden-Württemberg si terranno le elezioni e i sondaggi danno i Verdi in sostanziale ascesa. Il partito si assesta al venti per cento su base nazionale, contro il 33 per cento della Cdu. I Verdi, quindi, avrebbero raddoppiato i propri consensi rispetto alle politiche 2009 (circa il più 10,7 per cento). Ma soprattutto - sempre secondo gli analisti - un'eventuale alleanza tra socialdemocratici e Verdi otterrebbe sette punti in più rispetto alla maggioranza (45 contro 38 per cento). Claudia Roth, co-presidente dei Verdi, ha più volte attaccato la politica nucleare della maggioranza. In attesa di domenica, quando si voterà anche nella Renania-Palatinato, i cittadini tedeschi scelgono la piazza, dove sabato manifesteranno di nuovo contro il nucleare: a Berlino, Amburgo, Monaco di Baviera e Colonia, sono attese - secondo la stampa - oltre 100.000 persone.
Il commissario per l'Energia Ue, Gunther Öttinger, ha dichiarato ieri, di fronte alla plenaria del Parlamento europeo, che "una nuova valutazione dei rischi e nuovi standard per la sicurezza sono ineludibili" e questo "indipendentemente che si sia a favore o meno" del nucleare, fonte energetica che "comunque resterà ancora a lungo nel mix europeo in cui attualmente pesa per circa il 30 per cento". Di fronte alle obiezioni di molti parlamentari sulla "volontarietà" dello stress test che dovrà essere compiuto sulle 143 centrali nucleari presenti nella Ue (58 nella sola Francia), Öttinger ha replicato: "Dovremo fare in modo che tutti siano coinvolti, e se i test saranno un successo permetteranno di rafforzare la legislazione europea in vista della revisione che ci sarà nel 2014". Di fronte alle accuse di scarsi investimenti nel settore delle fonti rinnovabili, Öttinger ha reagito sostenendo che "la Commissione farà in modo di rispettare l'obiettivo di avere il 20 per cento di energia da rinnovabili nel 2020, ciò significa che avremo il 35 per cento dell'energia elettrica prodotta con queste fonti e gli Stati membri ci stanno seguendo". Tra 4-5 anni - ha spiegato il commissario Ue all'Energia - "le rinnovabili supereranno tanto il nucleare quanto il carbone e saranno la principale fonte di energia elettrica in Europa".
Nel frattempo, a livello internazionale, la situazione complessiva della centrale nucleare di Fukushima continua a generare "grave preoccupazione" per l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), malgrado i progressi nel ripristino dell'energia elettrica ai diversi reattori. A esprimersi in questi termini, è stato Graham Andrew, consigliere tecnico dell'agenzia. "Non è stato possibile collegare all'elettricità agli strumenti del reattore tre, fumo si è levato da questo reattore, e i tecnici sono stati costretti ad abbandonare il sito" ha riassunto. Negli Stati Uniti la commissione americana per il nucleare, la Nuclear Regulatory Commission, ha votato per rivedere la sicurezza degli impianti nucleari americani. L'autorità ha creato una speciale task force che fornirà aggiornamenti regolari.
(©L'Osservatore Romano 25 marzo 2011)
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Torna il terrore a Gerusalemme
La morte di Elizabeth TaylorCala il sipario sugli occhi viola di Hollywood
Una grande attrice divenuta troppo presto un'icona dello star system
TEL AVIV, 24. L'incubo del terrorismo torna nelle strade di Gerusalemme. Un ordigno ieri è esploso vicino a una fermata di autobus causando la morte di una donna e il ferimento di circa quaranta persone, alcune in modo grave. Nessuna rivendicazione ufficiale al momento. Israele - ha detto il premier Benjamin Netanyahu - "risponderà in maniera energica e responsabile". Il presidente americano, Barack Obama, ha condannato l'attentato, auspicando una una ripresa del dialogo. Netta la condanna anche del presidente dell'Autorità palestinese (Ap), Abu Mazen, e del premier Salam Fayyad, che hanno parlato di "atto vergognoso".
Erano circa le tre del pomeriggio quando un ordigno del peso di circa 1-2 chili, nascosto dentro una piccola borsa abbandonata vicino a una cabina telefonica, è esploso facendo tremare gli edifici della zona. La bomba - secondo le prime ricostruzioni - era stata riempita di palline di acciaio per massimizzarne il potenziale distruttivo. In quel momento, la vicina fermata del bus era affollata di viaggiatori in attesa, tra cui molti giovani. L'esplosione è avvenuta proprio nel momento in cui due bus avevano compiuto la sosta per far salire le persone, secondo quanto riferito dal capo della polizia, Aharon Franco. Le ambulanze hanno subito prelevato i feriti e li hanno trasportati negli ospedali Hadassah Ein Kerem, Hadassa Mount Scopus, Bikur Holim e Shaare Tzedek. Per una donna di 59 anni, tuttavia, non c'è stato nulla da fare: è morta poco dopo malgrado le cure intensive. Altri quattro feriti rimangono ancora in gravi condizioni.
"Ci sono elementi che cercano di violare la quiete, mettere alla prova la nostra fermezza e la capacità di resistenza del nostro popolo" ha dichiarato Netanyahu, che ha riunito un vertice di emergenza subito dopo l'attentato. "Il Governo, le forze armate e la popolazione - ha aggiunto - hanno la ferrea volontà di difendere lo Stato e i suoi cittadini: agiremo energicamente, responsabilmente e con saggezza al fine di preservare la quiete degli ultimi due anni". Il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, ha chiesto alla polizia e ai cittadini di elevare il livello di allerta. A spaventare gli israeliani è soprattutto il fatto che non c'è stata alcuna segnalazione precisa da parte dell'intelligence, come ha notato il primo cittadino. A Gerusalemme non avvenivano attentati di questo tipo dal 2008, quando un estremista palestinese si infiltrò in un collegio rabbinico facendo strage di otto studenti. Il 22 febbraio 2004, un kamikaze palestinese si era fatto saltare in aria su un bus, anche in questo caso provocando la morte di otto persone. Il 29 gennaio 2004 un altro attentato su un autobus aveva fatto altre dodici vittime.
Poche ore prima dell'attentato l'aviazione israeliana è intervenuta per colpire alcuni gruppi di miliziani estremisti attivi nella Striscia. Due giorni fa, nel corso di due raid israeliani a Gaza, sono stati uccisi otto palestinesi, quattro dei quali civili. Questa notte i caccia di Tsahal hanno colpito altri tre obiettivi: un tunnel vicino a Rafah, al confine con l'Egitto; un campo di addestramento di Hamas a sud della città di Gaza; un gruppo di militanti impegnati ad aprire il fuoco contro il territorio israeliano, nella parte settentrionale della Striscia. Un portavoce militare ha detto che le operazioni sono scattate in risposta al lancio di 75 proiettili di mortaio e di tre missili contro il territorio israeliano.
(©L'Osservatore Romano 25 marzo 2011)
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Con Elizabeth Taylor si spegne l'unica stella che rimaneva al firmamento della vecchia Hollywood. Ma quello di "ultima diva del cinema" era un titolo che l'attrice dagli occhi viola si portava dietro da parecchio, e di cui poteva fregiarsi, non senza la fatica del peso, anche al culmine della carriera.
La sua ascesa coincise infatti con il tramonto della "fabbrica dei sogni", e dopo il momento di massimo fulgore quel senso di decadenza sembrò posarsi precocemente su una star che aveva iniziato a calcare le scene fin da bambina, e che, prostrata da una serie impressionante di problemi di salute e incidenti sul set, aveva chiesto forse troppo a se stessa. Tanto che ad appena trentuno anni riceveva, con Cleopatra (Joseph L. Mankiewicz, 1963), una celebrazione dal sapore dell'elegia, mentre il cinema che l'aveva allevata volgeva al termine trasferendosi a Cinecittà per un'ultima deriva dorata.
Poco più tardi, quindi, la sua figura sarebbe stata definitivamente cristallizzata da Warhol in una celebre opera, e quella che era stata un'ottima attrice senza che molti se ne curassero, veniva imprigionata da lì in poi nella fissità per giunta un po' consunta dell'immagine pop.
Nata in un sobborgo di Londra nel 1932 da un padre professore di storia e una madre affermata attrice di teatro, entrambi americani, giunge negli Stati Uniti ancora bambina e comincia subito a recitare. Come fosse un segno del destino, o meglio un marchio di discendenza, anche il successo non tarda ad arrivare, con pellicole per famiglie come Torna a casa, Lassie! (Fred M. Wilcox, 1943) e Gran premio (Clarence Brown, 1944), consolidandosi poi con il ruolo di Amy in Piccole donne (Mervyn LeRoy, 1949) e quello della figlia in Il padre della sposa (Vincent Minnelli, 1950), accanto a Spencer Tracy. La consacrazione arriva invece con Un posto al sole (George Stevens, 1951), che la vede assieme all'amico fraterno Montgomery Clift.
Dopo L'ultima volta che vidi Parigi (Richard Brooks, 1954) comincia il vero momento d'oro. Da qui in avanti la star darà vita a personaggi tanto memorabili quanto problematici, su cui sembrano riflettersi sempre più intensamente la fine di un'era del cinema nonché le volubili passioni personali.
In Il gigante (George Stevens, 1956), cui approda grazie al rifiuto di Grace Kelly e al rapporto di amicizia che la lega a Rock Hudson, offre la sua prova di maturità, caricandosi sulle spalle la parabola discendente di una saga familiare. Nel minore L'albero della vita (Edward Dmytryk, 1957) impersona un altro personaggio sofferto e sottilmente inquietante che le assicura la prima nomination all'Oscar. Quindi ripercorre le orme della madre attrice di Broadway con le memorabili trasposizioni di Tennessee Williams La gatta sul tetto che scotta (Richard Brooks, 1958) e Improvvisamente l'estate scorsa (Joseph L. Mankiewicz, 1959), altre due ottime interpretazioni in ruoli molto diversi fra loro e altre due nomination, anticamera all'Oscar vinto l'anno successivo con Venere in visone (Daniel Mann, 1960).
Curiosamente, il film come l'interpretazione stavolta sono lontani dai suoi momenti migliori, e il premio - che l'attrice ritirerà sulla sedia a rotelle dopo essere stata in pericolo di vita a causa di una polmonite - suona già come un premio alla carriera.
Dopo questi anni febbrili, infatti, la sua vicenda professionale sembra aver detto quasi tutto. La decade successiva sarà rischiarata da pochi ancorché significativi lampi: la passerella di Cleopatra e soprattutto il secondo Oscar vinto per Chi ha paura di Virginia Woolf? (Mike Nichols, 1966), altra trasposizione dal palcoscenico per quella che è unanimemente considerata la sua interpretazione migliore, nei panni - non a caso - di una donna di mezza età, e accanto al grande amore della sua vita, Richard Burton.
Proprio il rapporto burrascoso con Burton, fonte di liti clamorose sui set anche quando uno dei due non era impegnato nella lavorazione del film, così come gli scandali, la ronde di matrimoni, i mille capricci, si sommeranno alla sfolgorante bellezza per sottrarle la considerazione che l'innegabile talento avrebbe invece dovuto garantirle. Gli anni Settanta e Ottanta saranno segnati da abusi e dipendenze che film ormai trascurabili non potranno eclissare, ma da cui l'intramontabile star saprà riscattarsi anche grazie all'impegno sempre più deciso nel campo della beneficenza, spesso in coppia con l'amico Michael Jackson.
Negli ultimi anni il grosso contributo alla lotta all'Aids le riserverà importanti premi e riconoscimenti, ma soprattutto una ritrovata energia.
Permettendole di essere più forte di una salute cagionevole, e dal peso di un'etichetta di leggenda vivente che da sempre le ha gravato sulle spalle.
di EMILIO RANZATO
(©L'Osservatore Romano 25 marzo 2011)
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Un Dna etico
di CARLO BELLIENI
Nata in casa cattolica e aperta al mondo laico, l'Enciclopedia di Bioetica e Scienza Giuridica (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009-2010), diretta da Elio Sgreccia e Antonio Tarantino, porta un segnale importante di innovazione e si presenta come uno strumento utile nel dibattito etico. L'aspetto più nuovo è che ogni voce, di norma, è divisa in quattro sezioni: una etica, una medica, una di diritto romano e una sui diritti positivi moderni. Un peso di rilievo viene quindi dato all'aspetto giuridico dell'opera, e alla possibilità di guardare un argomento da diversi orizzonti, come spiegano nella Premessa dell'opera (programmata in dodici volumi) i direttori, il presidente emerito della Pontificia accademia per la vita, il cardinale Elio Sgreccia, e il professor Antonio Tarantino.
Quale è la funzione di un'enciclopedia di bioetica così fatta? Quella di "superare i rischi delle ideologie", di "rispettare il pluralismo etico e religioso" e di "dire come sono le cose nella loro realtà naturale", spiegano i curatori. Ciò significa che non si tratta di una trattazione dogmatica, ma aperta ai contributi di esperti di varia provenienza, ma con l'attenzione costante alla legge naturale, punto di riferimento di tutta l'opera, di cui è interprete storico il diritto romano; e al bene integrale della persona. Il coordinamento scientifico delle voci mediche è affidato al professor Adriano Bompiani, mentre al professor Pierangelo Catalano sono affidate alcune voci presenti nella sezione di diritto romano.
Cosa ci attendiamo da un'enciclopedia di bioetica? Uno sguardo unitario e una chiave di lettura che, magari al di là della singola argomentazione, mostrino il valore cui l'opera si ispira. Garantisce questo aver avuto come curatore della parte bioetica il presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Ignacio Carrasco de Paula, esperto bioeticista che ha l'arduo compito di far suonare sinfonicamente tante personalità e sensibilità diverse. Serve uno sguardo unitario, perché uno dei principali problemi oggi è che si parla tanto delle conseguenze, dei metodi e dei cavilli, ma ben poco dei rimedi, dove il primo rimedio è ricostruire un Dna etico, quello che il Papa chiama "grammatica morale".
Il problema non è quale metodo fecondativo o eutanasico sia meno gravoso o più contestabile, ma riprendere a dire la verità sull'uomo, e sulle conseguenze di scelte errate.
Purtroppo in quasi tutte le principali riviste internazionali di bioetica hanno diritto di cittadinanza solo autori che hanno afferenza ad una visione utilitarista-consequenzialista o ad una visione principialista dell'etica. La sfida è quella di uscire da questa stretta con una strumento non confessionale ma aperto, in grado di dare una visione delle cose aderente ad una legge naturale, inscritta nel cuore dell'uomo e nel profondo della natura.
(©L'Osservatore Romano 25 marzo 2011)
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La saggezza
della differenza
Il confronto tra le religioni deve puntare a migliorare "la qualità delle differenze" piuttosto che a ottenere accordi su temi specifici se esso vuole giocare ancora un ruolo in un mondo complesso e in continua trasformazione. Questo vale altrettanto per il dialogo fra i cristiani, che oggi non può realizzarsi compiutamente se non attraverso il rapporto con le altre fedi. David F. Ford, dal 1991 Regius Professor of Divinity presso la Cambridge University, la facoltà creata da Enrico VIII nel 1540, è un anglicano formatosi in ambienti sensibili alle questioni interreligiose ed ecumeniche. Nato a Dublino, ha vissuto le alterne vicende dei delicati rapporti fra i cristiani e ha imparato che "il rispetto e l'amicizia nascono più facilmente nelle differenze". Dagli ebrei in particolare ha preso in prestito un metodo, quello del ragionamento sulle sacre scritture, il Textual Reasoning e l'ha applicato al dialogo fra i cristiani e fra questi e i credenti delle altre fedi. Ne è nato lo Scriptural Reasoning, una pratica di confronto sui testi sacri che, partita dagli Stati Uniti, ha avuto un immediato successo in tutto il mondo, suscitando l'interesse tanto del mondo accademico quanto di semplici comunità di fedeli. Ford il prossimo 5 aprile, alle 16, sarà alla Pontificia Università San Tommaso d'Aquino per tenere la tradizionale lecture organizzata ogni anno in collaborazione con il "Centro Giovanni Paolo II per il dialogo interreligioso" e la Russell Berrie Foundation. In quella sede illustrerà come ebrei, cristiani e musulmani possono incontrarsi e parlare insieme di Sacre Scritture, senza l'obbligo di ottenere alcun risultato. In questa intervista a "L'Osservatore Romano" Ford anticipa alcuni dei temi che tratterà.
Professore Ford, potrebbe spiegare in che consiste questo nuovo metodo di dialogo?
Lo Scriptural Reasoning riunisce i membri di differenti religioni e confessioni religiose in piccoli gruppi all'interno dei quali si leggono e si discutono insieme estratti dei rispettivi testi sacri. È una sorta di mutua ospitalità, attraverso la quale ognuno in un certo senso "ospita" gli altri nelle proprie scritture e viene a sua volta ospitato nelle scritture altrui.
Che cosa l'ha spinta a sviluppare questa pratica?
Non è stato il risultato di un percorso coscientemente progettato: è scaturito casualmente da esperienze di amicizia. Il teologo anglicano Dan Hardy e io fummo invitati a prendere parte alla sessione annuale di un gruppo di Textual Reasoning che si riuniva presso l'American Academy of Religion. Si trattava di filosofi e studiosi dei testi ebraici (Tanakh e Talmud) che alimentavano discussioni straordinariamente vivaci riguardo appunto ai testi ebraici classici e alle opere di moderni filosofi ebrei. Alcuni di loro si unirono a noi, dando vita allo Scriptural Reasoning, e poco dopo fummo raggiunti anche da alcuni musulmani. Col senno di poi posso dire che si trattava di riempire una lacuna di cui avevo avvertito l'esistenza durante i quindici anni che avevo trascorso nella città di Birmingham, una città che pure era multietnica e multiconfessionale.
Ma cosa rende lo Scriptural Reasoning diverso dalle forme di dialogo che più o meno assiduamente hanno luogo?
Penso che il suo carattere distintivo si trova in una combinazione di diverse cose. Anzitutto permette che la fede dei partecipanti alla discussione rimanga un elemento centrale. Lo Scriptural Reasoning poi ha a che fare più con la comprensione profonda dell'altro che con la ricerca di qualcosa su cui concordare. Inoltre è un processo a lungo termine, perché la ricchezza dei testi è inesauribile: attorno a questo processo possono così crearsi relazioni e spesso importanti amicizie. Infine non è un mezzo per arrivare a un obiettivo: la lettura delle scritture è una lettura fatta per amore di Dio. In questo modo lo Scriptural Reasoning può generare una sorta di "partenariati tra le differenze" nei quali la comprensione della materia della fede può essere approfondita, per il bene di Dio e dei suoi scopi. Si potrebbe riassumere affermando che esso soddisfa meglio di qualsiasi altra pratica i criteri principali di un buon impegno nel campo del confronto interreligioso: permette ai partecipanti di andare più in profondità nelle fedi altrui e allo stesso tempo consente di approfondire la comprensione della propria fede e di collaborare allo scopo di servire il bene comune.
Per quale livello di dialogo è concepito lo Scriptural Reasoning?
È cominciato come una pratica accademica tra alcuni studiosi; si è diffusa rapidamente ai dottorandi e poi agli altri studenti. Ora è praticato a tutti i livelli: ci sono diverse forme di questa pratica che sono rivolte ai bambini nelle scuole, a gruppi di cittadini, a cappellani, ai leader religiosi. E naturalmente continua a essere usata anche a livello accademico.
Nei rapporti tra i diversi credenti le rivendicazioni economiche e politiche hanno fatalmente una grande importanza. Accade anche nello Scriptural Reasoning?Abbiamo visto questa pratica fiorire in ambienti molto diversi, dal Regno Unito agli Stati Uniti; inoltre sta avendo buoni risultati in Israele e nei territori palestinesi (soprattutto nell'ambito del personale ospedaliero). Tuttavia, in Medio Oriente e in Asia finora è apparsa nell'ambito di alcune conferenze o come evento estemporaneo. Quest'anno però avremo la prima scuola estiva in Medio Oriente, a Dubai, con studenti provenienti da diversi Paesi arabi, e avremo anche a Cambridge un gruppo di studenti dell'Oman. È un metodo che richiede l'alfabetizzazione ma non che i partecipanti abbiano una preparazione universitaria. Soprattutto, si basa sull'amore e l'interesse per le Scritture, che si trova in tutti i diversi contesti sociali ed economici.
Ma come è stato accolto questo metodo nel mondo musulmano?
Ci sono molti partecipanti musulmani, di vari tipi e nazionalità, e diversi leader musulmani hanno dato la loro benedizione. Ci sono, naturalmente, vari modi di interpretare il Corano, e non c'è un solo approccio islamico o un solo rapporto con le scritture. Per alcuni, il Corano si esaurisce in sé, analogamente a quanto accade, forse, per alcuni protestanti. Per altri, la ricezione del Corano è sempre mediata da un'autorevole tradizione di commento, analogamente, forse, ad alcuni cattolici. Le differenze tra gli esponenti di una tradizione religiosa sono spesso in profondità ed è come se parlassimo di differenze tra diverse tradizioni.
Potrebbe illustrare alcuni risultati che ritiene si siano già ottenuti?
Ci sono state molte conversazioni tra ebrei, cristiani e musulmani; la nascita di molte amicizie; corsi accademici; il contributo al processo che ha portato nel 2007 alla lettera degli studiosi musulmani ai cristiani ("A Common Word Between Us and You"); sessioni di studio presso le Conferenze interreligiose internazionali. Il Cambridge Inter-faith Programme, che dirigo, non sarebbe esistito senza questa pratica.
A suo parere, quali sono i punti più critici, quando si affronta la questione del confronto interreligioso?
Nel complesso la questione centrale è se possiamo andare più in profondità nella nostra e nell'altrui fede e anche nella ricerca del bene comune. Problemi specifici variano da contesto a contesto. Si tratta, in effetti, di uno strumento diagnostico volto a esplorare le questioni sulle quali si manifestano differenze.
Anche le differenze su alcuni temi etici? Secondo alcune analisi questo tipo di differenze è quello potenzialmente più pericoloso riguardo al rapporto tra le fedi.
Questo è un metodo finalizzato a consentire il disaccordo. In effetti si potrebbe dire che uno dei suoi compiti principali è migliorare la qualità dei nostri disaccordi. È spesso illuminante discutere le questioni pratiche attraverso la lente delle Scritture: una delle serie di sessioni più feconde cui ho preso parte era incentrata sul benessere, sulla povertà e sul debito. Ovviamente, le cose su cui c'è accordo o convergenza sono le benvenute, ma ho imparato a diffidare delle aspettative di trovare una grande quantità di terreno comune. Spesso questo terreno frana quando è sotto pressione. Ho imparato il valore dello Scriptural Reasoning ragionando come se fosse un modo di esplorare le differenze senza alcuna pressione per risolverle. È strano dirlo, ma rispetto e amicizia possono arrivare senza che ci sia un accordo. Così preferisco parlare di "reciproco" o "condiviso" piuttosto che di "comune" terreno. Sui rapporti ecumenici: nel corso della prossima Settimana Santa centinaia di ex anglicani entreranno nella
Chiesa cattolica romana. Come è vissuto questo avvenimento all'interno della Comunione anglicana e come lo vive lei personalmente?
Si tratta di un altro avvenimento nella lunga storia di passaggi dalla Comunione anglicana alla Chiesa cattolica romana e viceversa. Affrontare la questione dell'ordinazione sacerdotale ed episcopale delle donne nella Chiesa anglicana è stata una buona cosa. Per quanto riguarda le relazioni fra anglicani e cattolici, non credo che questi ultimi avvenimenti possano avere effetti negativi sui rapporti generalmente buoni in tutto il mondo. Ho cercato a lungo più contesti in cui come anglicano potessi andare più in profondità in materia di fede con i cattolici, e ora trovo che questo più frequentemente accade in contesti interreligiosi. Può sembrare strano, ma studiare la Bibbia con i musulmani e gli ebrei può essere di grande aiuto per le relazioni tra i cristiani. Di recente, un'iniziativa stimolante è quella di alcune suore benedettine che stanno esplorando il potenziale della lectio divina nello Scriptural Reasoning.
Come vede il futuro della Comunione anglicana, considerando le differenti posizioni fra anglicani tradizionalisti e liberali?Non penso che i problemi così controversi nella Comunione anglicana dovrebbero dividerci, e conosco molti luoghi dove in effetti ciò non accade. Oltretutto, ci sono molti anglicani, come me, che non si identificano né con l'etichetta di "tradizionalista" né con l'etichetta di "liberale". Per quanto mi riguarda mi piace la definizione usata dal mio maestro "postliberale", Hans Frei, che parlava di "ortodossia generosa". Spero che in futuro si possa essere in grado di applicare la "saggezza della differenza" alla nostra tradizione, così come lo Scriptural Reasoning, nei suoi migliori risultati, consente "una saggezza della differenza" fra ebrei, cristiani e musulmani.
di MARCO BELLIZI
(©L'Osservatore Romano 25 marzo 2011)
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Oggi come pioggia
il Signore scende sulla Vergine
di MANUEL NIN
L'Annunciazione della santissima Madre di Dio e sempre vergine Maria è una delle poche feste che vengono celebrate lungo la Quaresima nelle diverse tradizioni liturgiche, orientali e occidentali. Si tratta di una delle antiche feste cristiane, e ne abbiamo testimonianze precise quando viene introdotta a Costantinopoli attorno al 530. Anche Romano il Melode (VI secolo) ne ha composto due kondàkia. A Roma la festa fu introdotta da Sergio I (687-701), papa di origine siriaca, che ne stabilì una celebrazione liturgica a Santa Maria Maggiore con una processione.
Sin dall'inizio la festa fu celebrata il 25 di marzo e quindi sempre nel periodo quaresimale, tempo che escludeva qualsiasi solennità fino a Pasqua. Il concilio di Costantinopoli del 692, detto "in trullo", prescrive di celebrare con tutta solennità la festa, in qualsiasi tempo e giorno essa avvenga. La festa del 25 marzo è inquadrata tra una vigilia, il 24, e un'apodosi (conclusione), il 26, giorno in cui si celebra anche la memoria dell'arcangelo Gabriele. I testi liturgici dei tre giorni che configurano la festa sono di una grande profondità teologica. Soprattutto, è interessante mettere in luce alcuni aspetti importanti che troviamo in uno dei testi liturgici dell'ufficiatura del mattutino del giorno della vigilia.
Il canone del mattutino è attribuito a Teofane Graptòs, vissuto a Bisanzio tra il 778 e il 845. Coinvolto, come suo fratello Teodoro anche lui innografo, nella crisi iconoclasta, fu strenuo difensore del culto delle icone, e dopo la vittoria iconodula fu arcivescovo di Nicea. È autore di parecchi inni e canoni che oggi si trovano in diverse feste dell'ufficiatura bizantina. Quello del mattutino del giorno 24 è un canone composto da nove odi in corrispondenza coi cantici dell'Antico e del Nuovo Testamento cantati appunto nell'ufficiatura mattutina. All'inizio di ogni strofa si ripete il versetto: "Santissima Madre di Dio, salvaci", a sottolineare quello che il testo poetico poi sviluppa, cioè Maria come strumento di cui Dio si serve per elargire la sua salvezza al genere umano, cioè nell'incarnazione del Verbo. Le due ultime strofe di ogni ode iniziano invece col "Gloria al Padre" e "Ora e sempre". Si tratta di un bel testo in cui l'autore canta il mistero dell'incarnazione del Verbo di Dio nel suo farsi uomo nel seno della Madre di Dio. E quindi anche le diverse immagini bibliche con cui viene contemplata la figura di Maria in rapporto con Colui che in lei si incarna. In diverse delle strofe delle odi l'incarnazione viene presentata come discesa, come abbassamento, come kènosis del Verbo di Dio verso la natura umana caduta: "Rallegrati o universo: fra poco ti accorgerai della discesa del Signore in te. Egli scende dal cielo per diventare corpo nel seno della Vergine santissima. Egli viene a rendere celeste il limo di coloro che sono sulla terra. Chinando i cieli, ora scendi verso di noi, o Verbo per rialzare dalla caduta l'opera della tua destra". L'incarnazione del Verbo di Dio viene anche a togliere la maledizione sulla terra stessa dopo il peccato di Adamo: "Trasali e danza, o terra che produceva penosamente le spine delle passioni. Ecco, ora arriva il coltivatore immortale, Colui che toglie da te la maledizione". Nell'ode ottava troviamo un gioco d'immagini contrapposte per parlare dell'incarnazione del Verbo, cioè l'immagine di oscuramento e manifestazione, di angelo annunziante e Angelo annunziato: "Nube leggera della luce, tu che non hai conosciuto le nozze, dall'alto il sole impenetrabile risplenderà su di te; dopo essersi nascosto in te, si manifesterà al mondo e squarcerà l'oscuramento del male. Il primo liturgo degli angeli proferì con voce gioiosa l'annuncio, o Pura, che l'Angelo del Grande Consiglio si sarebbe incarnato da te".
In molte delle strofe troviamo dei titoli dati alla Madre di Dio e a Cristo stesso che sono in corrispondenza l'uno dall'altro, Maria come strumento e il Verbo di Dio incarnandosi in lei come colui che ne diventa la plenitudine; questi titoli sono presi da immagini e figure veterotestamentarie e letti sempre in chiave cristologica: "Vaso luminoso d'oro puro, preparati a ricevere la manna della vita. Preparati, vello divino, vergine senza macchia. Come la pioggia infatti, Dio scende sopra di te. Candelabro d'oro, ricevi il fuoco della Divinità acceso per te. Esso porta la luce al mondo". Le profezie dei cantici di Abacuc, Isaia e Daniele vengono anch'esse rilette, seguendo la grande tradizione dei Padri, in chiave cristologica come annunzi profetici dell'incarnazione del Verbo di Dio: "Grande palazzo del re, apri le divine porte del tuo udire. Ecco che entrerà Cristo, la Verità, e abiterà in te; il ramo mistico farà sbocciare il fiore divino, la vigna farà crescere il grappolo maturo. Montagna che Daniele vide nello Spirito, rallegrati, o Vergine. Da te infatti si staccherà la pietra spirituale".
L'ode nona, collegata ai cantici di Zaccaria e di Maria nel Vangelo di Luca, si sofferma nel rapporto diretto di amore e di predilezione del Verbo di Dio nella sua incarnazione verso Maria che ne diventa strumento e ricettacolo: "Eva mangiò il frutto, funesto produttore della nostra morte. In te, invece, o Signora, germogliò il frutto benefico dell'immortalità, Cristo, la dolcezza nostra. Cristo si è innamorato della tua bellezza, o Immacolata, e viene ad abitare nel tuo seno per liberare il genere umano dalla deformazione delle passioni e restituirlo alla sua bellezza antica. Terra non seminata, o Pura, tramite la parola, ricevi la Parola celeste come un grano, che produce frutto. Germinerà in te e nutrirà le estremità della terra con il pane della conoscenza".
Il testo del canone si serve ancora di altre immagini che troviamo poi abbondantemente anche nei testi liturgici bizantini lungo la Quaresima: "O Agnella senza macchia, l'Agnello del nostro Dio si affretta a penetrare in te, sua Madre, per portare i nostri peccati. Non temere nulla, o Vergine, il fuoco della Divinità non brucerà il tuo grembo. Infatti, nel passato ti prefigurava, o tutta Pura, il roveto che ardeva senza mai consumarsi".
(©L'Osservatore Romano 25 marzo 2011)
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Lo sgabello del papato
A colloquio con l'arcivescovo maggiore dei siro-malankaresi in visita "ad limina"Ponte ecumenico
tra India e occidente
Pubblichiamo la prima e l'ultima parte dell'intervento sul tema "Dallo Stato pontificio alla Città del Vaticano" dell'arcivescovo - che dal 23 marzo è nunzio apostolico in Indonesia - al colloquio storico tenutosi il 19 febbraio scorso nell'Aula vecchia del Sinodo, nell'ambito delle celebrazioni per il quarantennale dell'Associazione Santi Pietro e Paolo.
di ANTONIO GUIDO FILIPAZZI
Il tema "Dallo Stato pontificio alla Città del Vaticano" può essere declinato considerando il tema della sovranità territoriale della Santa Sede, che appunto fino al 1870 si esprimeva nello Stato pontificio come ora nello Stato della Città del Vaticano.
Gli Stati Pontifici nascono nel secolo VIII a partire dal patrimonio di San Pietro, cioè dall'insieme di territori donati al Romano Pontefice, e assumono nel corso dei secoli sempre di più una fisionomia statuale. Tali territori sono percepiti come il presidio sicuro dell'autonomia e della libertà del Papato, che soprattutto nel secondo millennio aveva ben vivo il ricordo di Avignone, cioè il timore di ritornare in qualche momento a essere il "cappellano" di una corte regia. Quindi la sovranità territoriale, all'interno della Chiesa fino al secolo XIX, non viene sostanzialmente messa in discussione, ma è anzi difesa. Possiamo considerare il manifestarsi della sovranità territoriale del Papa durante tre distinte fasi, che vanno, rispettivamente, dalla fondazione della Guardia Palatina (comprendendo però già i decenni precedenti) fino alla data fatidica del 1870, una seconda fase che va dal 1870 al 1929, e una terza fase che, a cominciare dalle trattative dei Patti Lateranensi, arriva a oggi.
Quando il 6 agosto 1926 Francesco Pacelli fu autorizzato da Pio XI a iniziare le conversazioni con il consigliere Domenico Barone, il Pontefice gli affidò il mandato con la clausola del riconoscimento da parte delle altre nazioni della sovranità assoluta del Papa sul territorio che gli sarebbe stato assegnato. Chiedeva cioè un territorio separato da quello italiano e una vera sovranità territoriale, non ritenendo sufficiente un'area di proprietà della Santa Sede e sottratta alla giurisdizione dello Stato italiano (extraterritoriale). Di fatto, meno di tre anni dopo, il Trattato Lateranense recepiva questa esigenza imprescindibile: "L'Italia riconosce alla Santa Sede la piena proprietà e la esclusiva ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana sul Vaticano, com'è attualmente costituito, con tutte le sue pertinenze e dotazioni, creandosi per tal modo la Città del Vaticano" (articolo 3).
Si trattava, inoltre, di stabilire l'entità del territorio soggetto alla sovranità del Pontefice. Agli inizi delle trattative si ipotizzò di incorporare nel futuro stato Villa Doria-Pamphilj (anche se subito molti dei cardinali consultati in merito fecero presente di ritenere sufficiente un territorio il più ridotto possibile; si temevano infatti le difficoltà nel dover amministrare un'area più ampia e con una popolazione consistente). A quest'ipotesi nel gennaio 1928 il consigliere Barone rispose, offrendo la sola sovranità sul Vaticano e l'extraterritorialità per Villa Doria-Pamphilj. Così Pio XI ritenne preferibile restringersi al solo territorio di quella che nella bozza di Trattato del 2 dicembre 1928 era denominata "Città del Vaticano". Anzi, il 10 febbraio 1929, alla vigilia della firma dei Patti, il Papa decise di escludere dal territorio del nascente Stato il Palazzo del Sant'Uffizio, l'Oratorio di San Pietro, il Museo Petriano e le altre adiacenze, per i quali fu previsto il godimento "delle immunità riconosciute dal diritto internazionale alle sedi degli agenti diplomatici di Stati esteri" (articolo 15 del Trattato del Laterano).
Non si può non convenire con Carlo Alberto Biggini, quando afferma che Pio XI mostrò sulla questione del territorio del suo nuovo Stato "una nobile arrendevolezza" (Storia inedita della Conciliazione). Ciò era motivato dal desiderio sia di "calmare e far cadere tutti gli allarmi e rendere addirittura ingiuste, assolutamente irragionevoli, tutte le recriminazioni fatte o da farsi in nome di una, stavamo per dire, superstizione di integrità territoriale del Paese" (sono noti i timori di Vittorio Emanuele III di cessioni consistenti di territorio al Papa), sia di ottenere, oltre alla piena libertà della Santa Sede, anche una regolazione delle "condizioni religiose in Italia, per sì lunga stagione manomesse, sovvertite, devastate in una successione di Governi settari od ubbidienti e ligi ai nemici della Chiesa" (Discorso di Pio XI ai quaresimalisti, 11 febbraio 1929).
Veniva così creato uno Stato di dimensioni molto ridotte. Come affermò lo stesso Pio XI, "volevamo mostrare in un modo perentorio che nessuna cupidità terrena muove il Vicario di Gesù Cristo, ma soltanto la coscienza di ciò che non è possibile non chiedere; perché una qualche sovranità territoriale è condizione universalmente riconosciuta indispensabile ad ogni vera sovranità giurisdizionale: dunque almeno quel tanto di territorio che basti come supporto della sovranità stessa".
Lo Stato della Città del Vaticano, per la sua conformazione territoriale, è uno Stato-enclave, cioè completamente circondato dal territorio italiano e per molti versi non viabile senza l'impegno internazionalmente assunto dall'Italia di garantirgli tutta una serie di servizi necessari alla sua esistenza e attività (al riguardo basta leggere l'articolo 6 del Trattato Lateranense, secondo il quale l'Italia deve provvedere alla Città del Vaticano un'adeguata dotazione di acque, la comunicazione con le ferrovie dello Stato italiano e il collegamento dei servizi telegrafici, telefonici, radiotelegrafici, radiotelefonici e postali nella Città del Vaticano con l'Italia e con l'estero).
Quanto alle dimensioni ridotte del nuovo Stato, esse vengono in qualche modo compensate dalle garanzie personali e reali che il Trattato Lateranense riconosce alla Santa Sede. Quest'ultima può così disporre di varie aree in Roma nelle quali collocare la sede dei suoi organismi senza mettere in pericolo l'indipendenza della sua azione di governo della Chiesa universale.
Attualmente si sta delineando un quadro in parte nuovo rispetto a quello sancito dal Trattato del 1929. Infatti, il processo d'integrazione europea ha fatto sì che quando si varcano i confini dello Stato della Città del Vaticano, ci si trova non più solo in Italia, ma si entra anche nel territorio dell'Unione europea. E ciò comporta una rimodulazione di quei rapporti che garantiscono la vita e l'attività dello Stato della Città del Vaticano. Basti ricordare, ad esempio, che il 17 dicembre 2009 è stata sottoscritta una Convenzione monetaria non più con l'Italia, ma tra lo Stato della Città del Vaticano e l'Unione europea. Si è quindi in qualche modo aperta una fase nuova, per certi versi non ancora del tutto definita nelle sue caratteristiche, per la sovranità della Santa Sede e anche per la sua sovranità territoriale, cioè per lo Stato vaticano. Nel 1962 - riprendendo un'espressione usata da Papa Ratti nel 1929 a proposito del territorio riconosciuto al Pontefice ("quel tanto di territorio che basti come supporto della sovranità stessa; quel tanto di territorio, senza del quale questa non potrebbe sussistere, perché non avrebbe dove poggiare") - l'allora cardinale Giovanni Battista Montini, in un discorso pronunciato alla vigilia dell'apertura del concilio Vaticano II (10 ottobre 1962), distingueva "la secolare istituzione pontificia" e lo "sgabello terreno sul quale appoggiava da tanti secoli i suoi piedi". Si tratta di un'immagine molto significativa, perché esprime bene i rapporti che intercorrono fra la Santa Sede con quella sovranità territoriale, che pur ridotta, talvolta delicata nel suo esercizio, è tuttavia finora il presidio sicuro della libertà della missione affidata da Cristo al Successore di Pietro.
(©L'Osservatore Romano 25 marzo 2011)
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di NICOLA GORI
La loro presenza in India risale ai tempi della predicazione dell'apostolo san Tommaso. Sono perfettamente inseriti nella società, anche se non mancano situazioni di conflitto. Sono una sorta di ponte tra la Chiesa cattolica e le Chiese orientali non cattoliche, oltre a essere un laboratorio quotidiano di dialogo interreligioso. Sono i cattolici di rito siro-malankarese, i cui vescovi sono in questi giorni a Roma per la visita ad limina. Li guida l'arcivescovo maggiore Baselios Cleemis Thottunkal, cui abbiamo posto alcune domande.
Qual è la peculiarità spirituale e liturgica della vostra Chiesa?
La nostra è una Chiesa maggiore arcivescovile in comunione con il Papa. È una Chiesa apostolica fondata da san Tommaso. Nel 1653 questa comunità si suddivise in due: malankarese e malabarese. Fu una questione di patrimonio liturgico e di autonomia. Un gruppo, quello malankarese, lottò per l'autonomia e per la tutela autentica della sua tradizione liturgica. Purtroppo, nel corso di tale processo, perse la comunione con la Chiesa cattolica. Tuttavia, negli anni Trenta del secolo scorso, sotto l'egida dell'arcivescovo Mar Ivanios, venne di nuovo unito alla Sede di Roma. L'11 giugno 1932, Papa Ratti stabilì la gerarchia cattolica siro-malankarese in India attraverso il decreto Christo Pastorum Principi. Riconoscendo poi la maturità raggiunta dalla comunità malankarese, Giovanni Paolo II, nel 2005 l'ha elevata allo status di Chiesa arcivescovile maggiore. La nostra liturgia risale a quella di san Giacomo di Gerusalemme. Abbiamo un approccio molto speciale per via del modo di pensare orientale e in particolare indiano, secondo cui Dio è un essere supremo e nella sua misericordia ci ha creati a sua immagine e somiglianza come suo popolo. E quell'approccio spirituale, liturgico, ecclesiale e tutta la nostra tradizione liturgica insistono sul fatto che bisogna essere in comunione con tutte le Chiese.
I fondamentalisti indù accusano la Chiesa di conversioni forzate. Cosa fare per cambiare questa impressione?
La Chiesa in India si trova nel contesto di una società pluralista dal punto di vista, culturale, linguistico ed economico. Dobbiamo considerare il pluralismo come realtà seria che si rispecchia nella vita quotidiana. Gli induisti sono i più generosi e ospitali. Non è una mia idea personale. È proprio la tradizione, la storia dell'India. Gli induisti apprezzano sempre la bontà degli altri. I primi cristiani in India erano induisti e hanno apprezzato molto il Vangelo. Hanno tratto insegnamento da san Tommaso apostolo. Partecipo personalmente ad alcune delle più importanti cerimonie induiste. Come in tutte le comunità religiose anche in quella induista ci sono diverse opinioni e qualche piccolo gruppo fondamentalista. Senza l'ospitalità e senza la comprensione della stragrande maggioranza degli induisti come avrebbe potuto sopravvivere la comunità cristiana in India, dato che rappresenta solo il 2,5 per cento della popolazione? Questi gruppi fondamentalisti pensano che noi vogliamo allontanare gli induisti dalla loro religione e ritengono che la conversione non sia possibile. La conversione, invece, è possibile ovunque perché scegliere è un diritto fondamentale di ogni persona umana. Gesù Cristo è la nostra guida. Non costringiamo nessuno. Stiamo soltanto diffondendo la buona novella. Se qualcuno ne viene attratto, nessuno può fermarlo. È un diritto fondamentale dell'uomo. Non c'è spazio per conversioni forzate, che attraggono le persone con il denaro o con la promessa di opportunità di vita. Queste sono tutte modalità umane di invito, ma non sono in linea con il Vangelo. Gesù ci dice: andate e annunciate. E noi non smetteremo mai di farlo in modo evangelico, con preghiere e apostolato, istituzioni educative e servizi sanitari. Quindi la questione delle conversioni forzate è fuori luogo.
Sono improntate alla cordialità o a una certa tensione le relazioni con gli indù e i musulmani?
Nel Kerala, abbiamo un buon rapporto con gli indù e con i musulmani. Abbiamo avuto molti incontri. Vengo invitato come ospite ufficiale anche alle celebrazioni più importanti di entrambi. A nostra volta, noi li invitiamo durante le solennità pasquali. Trovandomi nella capitale del Kerala, a volte organizzo incontri interreligiosi. So che esistono tensioni, ma questi incontri sono di grande aiuto. Molti indiani considerano il cristianesimo una religione straniera. Come risponde a questa affermazione? Penso che ciò sia dovuto all'ignoranza. Non siamo stranieri, siamo indiani. Siamo nati in India, lavoriamo e moriamo come indiani, esattamente come i nostri predecessori. Inoltre, il cristianesimo in India è tanto antico quanto il cristianesimo stesso. Anche prima che il Vangelo fosse predicato in alcuni Paesi europei, l'India aveva già ricevuto il vangelo da san Tommaso. Questo è un fatto storico.
Qual è l'impegno della Chiesa nei confronti dei dalit, cioè i senza casta convertiti al cristianesimo?
La Chiesa in India ha molte responsabilità non solo per la vita ecclesiale e spirituale, ma anche per le esigenze dei fedeli nelle loro varie dimensioni. Ci sono persone con difficoltà economiche che bisogna inserire nella società, dando loro delle opportunità. Però abbiamo persone che non vedono rispettati i loro diritti proprio perché si sono convertite al cristianesimo. È un atteggiamento discriminante. Se una persona gode della libertà di scegliere la propria religione, essendo l'India un Paese laico, come si può poi negare che queste persone convertite siano trattate come i connazionali di altre religioni? Se un induista diventa cristiano non gli viene più garantita alcuna promozione sociale. La Chiesa sta cercando, per quanto possibile, di far ottenere ai cristiani lo stesso rango degli altri. È un compito difficile. Per inserire queste persone nella società dobbiamo emanciparle attraverso l'istruzione e con altri mezzi, affinché possano raggiungere un livello minimo di dignità e partecipare alla vita politica e sociale del Paese. Stiamo cercando di spingere il Governo a garantire loro giustizia.
I rapporti ecumenici e l'anelito all'unità della Chiesa è la missione specifica delle comunità orientali cattoliche?
Le nostre Chiese sono considerate costruttrici di ponti fra la Chiesa di Roma e le chiese non cattoliche. La Chiesa siro-malankarese è nota in particolare come ponte fra le Chiese ortodosse e la Chiesa cattolica. Per questo il nostro apostolato è stato recepito sia dai cattolici sia dai non cattolici. Questo siamo chiamati a vivere, manifestare e testimoniare.
(©L'Osservatore Romano 25 marzo 2011)
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