giovedì 2 gennaio 2020

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO Basilica Vaticana Mercoledì, 1° gennaio 2020

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020


«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria – dice il testo – custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!


Regionali, l'appello della Chiesa calabrese: 'no a pratiche illecite e voto di scambio'


“Ogni appuntamento elettorale è occasione di forte partecipazione democratica ed esercizio di cittadinanza attiva.
In particolare, in vista delle prossime elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale e l’elezione del nuovo presidente della Giunta regionale, nel mentre si richiamano tutti e ciascuno ad assolvere con coscienza e libertà il proprio dovere di elettore, la Conferenza episcopale calabra auspica che forze politiche, movimenti ed associazioni sappiano orientare le loro scelte ai principi del bene comune e del senso di responsabilità, necessari e richiesti a gran voce da una terra martoriata – in specie nelle classi più povere – dalla pervasiva presenza della criminalità organizzata, dal dilagare della corruzione, dalla mancanza di infrastrutture, dalla ripresa dell’emigrazione, dalla scelta di un esodo senza ritorno dei giovani, dalla disoccupazione e, negli ultimi tempi, anche dalla grave crisi che attanaglia sempre più la sanità, vero problema tra i problemi, costringendo sempre più calabresi a cercare fuori regione anche i presìdi terapeutici.
A fronte di una situazione delicata, che richiede passione e determinazione, ma anche trasparenza, rinnovamento, lungimiranza e prospettive di medio e lungo periodo, la Cec confida che si riscoprano i valori della competenza, dell’esperienza e del servizio, assolutamente fondamentali nella politica, sostenendo con battaglie autentiche e credibili la legalità, l’occupazione, la tutela delle fasce deboli e delle famiglie bisognose e, tra le altre cose, l’ulteriore valorizzazione del porto di Gioia Tauro, delle meravigliose coste, del patrimonio boschivo e dei nostri considerevoli tesori storicoculturali.

Per questo occorre rifuggire da pratiche deprecabili, oltre che illecite, a partire dal voto di scambio, sotto ogni sua forma, esercitando con matura espressione il proprio consenso: tutto ciò servirà a ricucire i rapporti tra politica e cittadini ed arginare la diffusione di fenomeni degenerativi di antipolitica, dannosi per la tenuta ed il funzionamento delle Istituzioni e l’integrità del tessuto sociale.
Affidiamo queste nostre considerazioni a tutti i calabresi perché il benessere spirituale e socioeconomico della nostra amata Regione sia frutto della loro responsabilità, mentre auguriamo fin d’ora alla compagine che amministrerà la nostra terra l’esercizio di un mandato esemplare e apprezzato.
Con coraggio e fiducia, sempre avanti”.
Gli Arcivescovi e i Vescovi
della Calabria


mercoledì 1 gennaio 2020

LA PACE COME CAMMINO DI SPERANZA: DIALOGO, RICONCILIAZIONE E CONVERSIONE ECOLOGICA MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA CELEBRAZIONE DELLA LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 1° GENNAIO 2020


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

FRANCESCOPER LA CELEBRAZIONE DELLA
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2020

LA PACE COME CAMMINO DI SPERANZA:
DIALOGO, RICONCILIAZIONE E CONVERSIONE ECOLOGICA



1. La pace, cammino di speranza di fronte agli ostacoli e alle prove
La pace è un bene prezioso, oggetto della nostra speranza, al quale aspira tutta l’umanità. Sperare nella pace è un atteggiamento umano che contiene una tensione esistenziale, per cui anche un presente talvolta faticoso «può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino».[1] In questo modo, la speranza è la virtù che ci mette in cammino, ci dà le ali per andare avanti, perfino quando gli ostacoli sembrano insormontabili.
La nostra comunità umana porta, nella memoria e nella carne, i segni delle guerre e dei conflitti che si sono succeduti, con crescente capacità distruttiva, e che non cessano di colpire specialmente i più poveri e i più deboli. Anche intere nazioni stentano a liberarsi dalle catene dello sfruttamento e della corruzione, che alimentano odi e violenze. Ancora oggi, a tanti uomini e donne, a bambini e anziani, sono negate la dignità, l’integrità fisica, la libertà, compresa quella religiosa, la solidarietà comunitaria, la speranza nel futuro. Tante vittime innocenti si trovano a portare su di sé lo strazio dell’umiliazione e dell’esclusione, del lutto e dell’ingiustizia, se non addirittura i traumi derivanti dall’accanimento sistematico contro il loro popolo e i loro cari.
Le terribili prove dei conflitti civili e di quelli internazionali, aggravate spesso da violenze prive di ogni pietà, segnano a lungo il corpo e l’anima dell’umanità. Ogni guerra, in realtà, si rivela un fratricidio che distrugge lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana.
La guerra, lo sappiamo, comincia spesso con l’insofferenza per la diversità dell’altro, che fomenta il desiderio di possesso e la volontà di dominio. Nasce nel cuore dell’uomo dall’egoismo e dalla superbia, dall’odio che induce a distruggere, a rinchiudere l’altro in un’immagine negativa, ad escluderlo e cancellarlo. La guerra si nutre di perversione delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della differenza vista come ostacolo; e nello stesso tempo alimenta tutto questo.
Risulta paradossale, come ho avuto modo di notare durante il recente viaggio in Giappone, che «il nostro mondo vive la dicotomia perversa di voler difendere e garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia, che finisce per avvelenare le relazioni tra i popoli e impedire ogni possibile dialogo. La pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale; sono possibili solo a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana di oggi e di domani».[2]
Ogni situazione di minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento sulla propria condizione. Sfiducia e paura aumentano la fragilità dei rapporti e il rischio di violenza, in un circolo vizioso che non potrà mai condurre a una relazione di pace. In questo senso, anche la dissuasione nucleare non può che creare una sicurezza illusoria.
Perciò, non possiamo pretendere di mantenere la stabilità nel mondo attraverso la paura dell’annientamento, in un equilibrio quanto mai instabile, sospeso sull’orlo del baratro nucleare e chiuso all’interno dei muri dell’indifferenza, dove si prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi dello scarto dell’uomo e del creato, invece di custodirci gli uni gli altri.[3] Come, allora, costruire un cammino di pace e di riconoscimento reciproco? Come rompere la logica morbosa della minaccia e della paura? Come spezzare la dinamica di diffidenza attualmente prevalente?
Dobbiamo perseguire una reale fratellanza, basata sulla comune origine da Dio ed esercitata nel dialogo e nella fiducia reciproca. Il desiderio di pace è profondamente inscritto nel cuore dell’uomo e non dobbiamo rassegnarci a nulla che sia meno di questo.

2. La pace, cammino di ascolto basato sulla memoria, sulla solidarietà e sulla fraternità

Gli Hibakusha, i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, sono tra quelli che oggi mantengono viva la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde nell’agosto del 1945 e le sofferenze indicibili che ne sono seguite fino ad oggi. La loro testimonianza risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione: «Non possiamo permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto accaduto, quella memoria che è garanzia e stimolo per costruire un futuro più giusto e fraterno».[4]
Come loro molti, in ogni parte del mondo, offrono alle future generazioni il servizio imprescindibile della memoria, che va custodita non solo per non commettere di nuovo gli stessi errori o perché non vengano riproposti gli schemi illusori del passato, ma anche perché essa, frutto dell’esperienza, costituisca la radice e suggerisca la traccia per le presenti e le future scelte di pace.
Ancor più, la memoria è l’orizzonte della speranza: molte volte nel buio delle guerre e dei conflitti, il ricordo anche di un piccolo gesto di solidarietà ricevuta può ispirare scelte coraggiose e persino eroiche, può rimettere in moto nuove energie e riaccendere nuova speranza nei singoli e nelle comunità.
Aprire e tracciare un cammino di pace è una sfida, tanto più complessa in quanto gli interessi in gioco, nei rapporti tra persone, comunità e nazioni, sono molteplici e contradditori. Occorre, innanzitutto, fare appello alla coscienza morale e alla volontà personale e politica. La pace, in effetti, si attinge nel profondo del cuore umano e la volontà politica va sempre rinvigorita, per aprire nuovi processi che riconcilino e uniscano persone e comunità.
Il mondo non ha bisogno di parole vuote, ma di testimoni convinti, di artigiani della pace aperti al dialogo senza esclusioni né manipolazioni. Infatti, non si può giungere veramente alla pace se non quando vi sia un convinto dialogo di uomini e donne che cercano la verità al di là delle ideologie e delle opinioni diverse. La pace è «un edificio da costruirsi continuamente»,[5] un cammino che facciamo insieme cercando sempre il bene comune e impegnandoci a mantenere la parola data e a rispettare il diritto. Nell’ascolto reciproco possono crescere anche la conoscenza e la stima dell’altro, fino al punto di riconoscere nel nemico il volto di un fratello.
Il processo di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta. In uno Stato di diritto, la democrazia può essere un paradigma significativo di questo processo, se è basata sulla giustizia e sull’impegno a salvaguardare i diritti di ciascuno, specie se debole o emarginato, nella continua ricerca della verità.[6] Si tratta di una costruzione sociale e di un’elaborazione in divenire, in cui ciascuno porta responsabilmente il proprio contributo, a tutti i livelli della collettività locale, nazionale e mondiale.
Come sottolineava San Paolo VI, «la duplice aspirazione all’uguaglianza e alla partecipazione è diretta a promuovere un tipo di società democratica […]. Ciò sottintende l’importanza dell’educazione alla vita associata, dove, oltre l’informazione sui diritti di ciascuno, sia messo in luce il loro necessario correlativo: il riconoscimento dei doveri nei confronti degli altri. Il significato e la pratica del dovere sono condizionati dal dominio di sé, come pure l’accettazione delle responsabilità e dei limiti posti all’esercizio della libertà dell’individuo o del gruppo».[7]
Al contrario, la frattura tra i membri di una società, l’aumento delle disuguaglianze sociali e il rifiuto di usare gli strumenti per uno sviluppo umano integrale mettono in pericolo il perseguimento del bene comune. Invece il lavoro paziente basato sulla forza della parola e della verità può risvegliare nelle persone la capacità di compassione e di solidarietà creativa.
Nella nostra esperienza cristiana, noi facciamo costantemente memoria di Cristo, che ha donato la sua vita per la nostra riconciliazione (cfr Rm 5,6-11). La Chiesa partecipa pienamente alla ricerca di un ordine giusto, continuando a servire il bene comune e a nutrire la speranza della pace, attraverso la trasmissione dei valori cristiani, l’insegnamento morale e le opere sociali e di educazione.

3. La pace, cammino di riconciliazione nella comunione fraterna

La Bibbia, in modo particolare mediante la parola dei profeti, richiama le coscienze e i popoli all’alleanza di Dio con l’umanità. Si tratta di abbandonare il desiderio di dominare gli altri e imparare a guardarci a vicenda come persone, come figli di Dio, come fratelli. L’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé. Solo scegliendo la via del rispetto si potrà rompere la spirale della vendetta e intraprendere il cammino della speranza.
Ci guida il brano del Vangelo che riporta il seguente colloquio tra Pietro e Gesù: «“Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» (Mt 18,21-22). Questo cammino di riconciliazione ci chiama a trovare nel profondo del nostro cuore la forza del perdono e la capacità di riconoscerci come fratelli e sorelle. Imparare a vivere nel perdono accresce la nostra capacità di diventare donne e uomini di pace.
Quello che è vero della pace in ambito sociale, è vero anche in quello politico ed economico, poiché la questione della pace permea tutte le dimensioni della vita comunitaria: non vi sarà mai vera pace se non saremo capaci di costruire un più giusto sistema economico. Come scriveva Benedetto XVI, dieci anni fa, nella Lettera Enciclica Caritas in veritate: «La vittoria del sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture assistenziali di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto mondiale, a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e comunione» (n. 39).

4. La pace, cammino di conversione ecologica

«Se una cattiva comprensione dei nostri principi ci ha portato a volte a giustificare l’abuso della natura o il dominio dispotico dell’essere umano sul creato, o le guerre, l’ingiustizia e la violenza, come credenti possiamo riconoscere che in tal modo siamo stati infedeli al tesoro di sapienza che avremmo dovuto custodire».[8]
Di fronte alle conseguenze della nostra ostilità verso gli altri, del mancato rispetto della casa comune e dello sfruttamento abusivo delle risorse naturali – viste come strumenti utili unicamente per il profitto di oggi, senza rispetto per le comunità locali, per il bene comune e per la natura – abbiamo bisogno di una conversione ecologica.
Il recente Sinodo sull’Amazzonia ci spinge a rivolgere, in modo rinnovato, l’appello per una relazione pacifica tra le comunità e la terra, tra il presente e la memoria, tra le esperienze e le speranze.
Questo cammino di riconciliazione è anche ascolto e contemplazione del mondo che ci è stato donato da Dio affinché ne facessimo la nostra casa comune. Infatti, le risorse naturali, le numerose forme di vita e la Terra stessa ci sono affidate per essere “coltivate e custodite” (cfr Gen 2,15) anche per le generazioni future, con la partecipazione responsabile e operosa di ognuno. Inoltre, abbiamo bisogno di un cambiamento nelle convinzioni e nello sguardo, che ci apra maggiormente all’incontro con l’altro e all’accoglienza del dono del creato, che riflette la bellezza e la sapienza del suo Artefice.
Da qui scaturiscono, in particolare, motivazioni profonde e un nuovo modo di abitare la casa comune, di essere presenti gli uni agli altri con le proprie diversità, di celebrare e rispettare la vita ricevuta e condivisa, di preoccuparci di condizioni e modelli di società che favoriscano la fioritura e la permanenza della vita nel futuro, di sviluppare il bene comune dell’intera famiglia umana.
La conversione ecologica alla quale facciamo appello ci conduce quindi a un nuovo sguardo sulla vita, considerando la generosità del Creatore che ci ha donato la Terra e che ci richiama alla gioiosa sobrietà della condivisione. Tale conversione va intesa in maniera integrale, come una trasformazione delle relazioni che intratteniamo con le nostre sorelle e i nostri fratelli, con gli altri esseri viventi, con il creato nella sua ricchissima varietà, con il Creatore che è origine di ogni vita. Per il cristiano, essa richiede di «lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo».[9]

5. Si ottiene tanto quanto si spera[10]

Il cammino della riconciliazione richiede pazienza e fiducia. Non si ottiene la pace se non la si spera.
Si tratta prima di tutto di credere nella possibilità della pace, di credere che l’altro ha il nostro stesso bisogno di pace. In questo, ci può ispirare l’amore di Dio per ciascuno di noi, amore liberante, illimitato, gratuito, instancabile.
La paura è spesso fonte di conflitto. È importante, quindi, andare oltre i nostri timori umani, riconoscendoci figli bisognosi, davanti a Colui che ci ama e ci attende, come il Padre del figlio prodigo (cfr Lc 15,11-24). La cultura dell’incontro tra fratelli e sorelle rompe con la cultura della minaccia. Rende ogni incontro una possibilità e un dono dell’amore generoso di Dio. Ci guida ad oltrepassare i limiti dei nostri orizzonti ristretti, per puntare sempre a vivere la fraternità universale, come figli dell’unico Padre celeste.
Per i discepoli di Cristo, questo cammino è sostenuto anche dal sacramento della Riconciliazione, donato dal Signore per la remissione dei peccati dei battezzati. Questo sacramento della Chiesa, che rinnova le persone e le comunità, chiama a tenere lo sguardo rivolto a Gesù, che ha riconciliato «tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,20); e chiede di deporre ogni violenza nei pensieri, nelle parole e nelle opere, sia verso il prossimo sia verso il creato.
La grazia di Dio Padre si dà come amore senza condizioni. Ricevuto il suo perdono, in Cristo, possiamo metterci in cammino per offrirlo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Giorno dopo giorno, lo Spirito Santo ci suggerisce atteggiamenti e parole affinché diventiamo artigiani di giustizia e di pace.
Che il Dio della pace ci benedica e venga in nostro aiuto.
Che Maria, Madre del Principe della pace e Madre di tutti i popoli della terra, ci accompagni e ci sostenga nel cammino di riconciliazione, passo dopo passo.
E che ogni persona, venendo in questo mondo, possa conoscere un’esistenza di pace e sviluppare pienamente la promessa d’amore e di vita che porta in sé.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2019
Francesco




[1] Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi (30 novembre 2007), 1.
[2] Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki, Parco “Atomic Bomb Hypocenter”, 24 novembre 2019.
[3] Cfr Omelia a Lampedusa, 8 luglio 2013.
[4] Discorso sulla Pace, Hiroshima, Memoriale della Pace, 24 novembre 2019.
[5] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 78.
[6] Cfr Benedetto XVI, Discorso ai dirigenti delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, 27 gennaio 2006.
[7] Lett. ap. Octogesima adveniens (14 maggio 1971), 24.
[8] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 200.
[9] Ibid., 217.
[10] Cfr S. Giovanni della Croce, Notte Oscura, II, 21, 8.

"Guardiamo insieme al domani. Il futuro è già qui". Il discorso integrale di Mattarella

Questa sera, care concittadine e cari concittadini, entriamo negli anni venti del nuovo secolo.
Si avvia a conclusione un decennio impegnativo, contrassegnato da una lunga crisi economica e da mutamenti tanto veloci quanto impetuosi.
In questo tempo sono cambiate molte cose attorno a noi, nella nostra vita e nella società.

Desidero, anzitutto, esprimere a tutti voi l’augurio più cordiale per l’anno che sta per iniziare.

Si tratta, anche, di un’occasione per pensare – insieme - al domani. Per ampliare l’orizzonte delle nostre riflessioni; senza, naturalmente, trascurare il presente e i suoi problemi, ma anche rendendosi conto che il futuro, in realtà, è già cominciato.         

Mi è stata donata poco tempo fa una foto dell’Italia vista dallo spazio.
Ve ne sono tante sul web, ma questa mi ha fatto riflettere perché proviene da una astronauta, adesso al vertice di un Paese amico.
Vorrei condividere con voi questa immagine.

Con un invito: proviamo a guardare l’Italia dal di fuori, allargando lo sguardo oltre il consueto.
In fondo, un po’ come ci vedono dall’estero.

Come vedono il nostro bel Paese, proteso nel Mediterraneo e posto, per geografia e per storia, come uno dei punti di incontro dell’Europa con civiltà e culture di altri continenti. Questa condizione ha contribuito a costruire la nostra identità, sinonimo di sapienza, genio, armonia, umanità. E’ significativo che, nell’anno che si chiude, abbiamo celebrato Leonardo da Vinci e, nell’anno che si apre, celebreremo Raffaello. E subito dopo renderemo omaggio a Dante Alighieri.

Incontro sovente Capi di Stato, qui in Italia o all’estero.
Registro ovunque una grande apertura verso di noi, un forte desiderio di collaborazione. Simpatia nei confronti del nostro popolo. Non soltanto per il richiamo della sua arte e dei paesaggi, per la sua creatività e per il suo stile di vita; ma anche per la sua politica di pace, per la ricerca e la capacità italiana di dialogo nel rispetto reciproco, per le missioni delle sue Forze Armate in favore della stabilità internazionale e contro il terrorismo, per l’alto valore delle nostre imprese e per il lavoro dei nostri concittadini. 

Vi è una diffusa domanda di Italia.

Abbiamo problemi da non sottovalutare.

Il lavoro che manca per tanti, anzitutto. Forti diseguaglianze. Alcune gravi crisi aziendali. L’esigenza di rilanciare il nostro sistema produttivo. Ma abbiamo ampie possibilità per affrontare e risolvere questi problemi. E per svolgere inoltre un ruolo incisivo nella nostra Europa e nella intera comunità internazionale.

L’Italia riscuote fiducia.

Quella stessa fiducia con cui si guarda, da fuori, verso il nostro Paese deve indurci ad averne di più in noi stessi, per dar corpo alla speranza di un futuro migliore.
Conosco le difficoltà e le ferite presenti nelle nostre comunità. Le attese di tanti italiani.   
Dobbiamo aver fiducia e impegnarci attivamente nel comune interesse. Disponiamo di grandi risorse. Di umanità, di ingegno, di capacità di impresa. Tutto questo produce esperienze importanti, buone pratiche di grande rilievo. Ne ho avuto conoscenza diretta visitando i nostri territori.

Vi è un’Italia, spesso silenziosa, che non ha mai smesso di darsi da fare.
Dobbiamo creare le condizioni che consentano a tutte le risorse di cui disponiamo di emergere e di esprimersi senza ostacoli e difficoltà.  Con spirito e atteggiamento di reciproca solidarietà. Insieme.

In particolar modo è necessario ridurre il divario che sta ulteriormente crescendo tra Nord e Sud d’Italia. A subirne le conseguenze non sono soltanto le comunità meridionali ma l’intero Paese, frenato nelle sue potenzialità di sviluppo.

Naturalmente, per promuovere fiducia, è decisivo il buon funzionamento delle pubbliche istituzioni che devono alimentarla, favorendo coesione sociale. Questo è possibile assicurando decisioni adeguate, efficaci e tempestive sui temi della vita concreta dei cittadini.
La democrazia si rafforza se le istituzioni tengono viva una ragionevole speranza.

E’ importante anche sviluppare, sempre di più, una cultura della responsabilità che riguarda tutti: dalle formazioni politiche, ai singoli cittadini, alle imprese, alle formazioni intermedie, alle associazioni raccolte intorno a interessi e a valori.
La cultura della responsabilità costituisce il più forte presidio di libertà e di difesa dei principi, su cui si fonda la Repubblica. Questo comune sentire della società – quando si esprime – si riflette sulle istituzioni per infondervi costantemente un autentico spirito repubblicano.La fiducia va trasmessa ai giovani, ai quali viene sovente chiesta responsabilità, ma a cui dobbiamo al contempo affidare responsabilità. Le nuove generazioni avvertono meglio degli adulti che soltanto con una capacità di osservazione più ampia si possono comprendere e affrontare la dimensione globale e la realtà di un mondo sempre più interdipendente.

Hanno – ad esempio – chiara la percezione che i mutamenti climatici sono questione serissima che non tollera ulteriori rinvii nel farvi fronte. Le scelte ambientali non sono soltanto una indispensabile difesa della natura nell’interesse delle generazioni future ma rappresentano anche un’opportunità importante di sviluppo, di creazione di posti di lavoro, di connessione tra la ricerca scientifica e l’industria.

Torniamo con il pensiero alle popolazioni delle città minacciate, come Venezia, dei territori colpiti dai sismi o dalle alluvioni, delle aree inquinate, per sottolineare come il tema della tutela dell’ambiente sia fondamentale per il nostro Paese.

I giovani l’hanno capito. E fanno sentire la loro voce proiettati, come sono, verso il futuro e senza nostalgia del passato.

Ogni società ha sempre bisogno dei giovani. Se possibile ancor di più oggi che la durata della vita è cresciuta e gli equilibri demografici si sono spostati verso l’età più avanzata.

Questa nuova condizione impone di predisporre nei confronti degli anziani – parte preziosa della società – maggiori cure e attenzioni. Occorre, al tempo stesso, investire molto sui giovani.

Diamo loro fiducia, anche per evitare l’esodo verso l’estero. Diamo loro occasioni di lavoro correttamente retribuito. Favoriamo il formarsi di nuove famiglie.

Dobbiamo riporre fiducia nelle famiglie italiane. Su di esse grava il peso maggiore degli squilibri sociali. Hanno affrontato i momenti più duri, superandoli. Spesso con sacrificio.

Fornire sostegno alle famiglie vuol dire fare in modo che possano realizzare i loro progetti di vita. E che i loro valori – il dialogo, il dono di sé, l’aiuto reciproco – si diffondano nell’intera società rafforzandone il senso civico.

E’ una virtù da coltivare insieme, quella del civismo, del rispetto delle esigenze degli altri, del rispetto della cosa pubblica.
Argina aggressività, prepotenze, meschinità, lacerazioni delle regole della convivenza.

Una associazione di disabili mi ha donato per Natale una sedia. Molto semplice ma che conserverò con cura perché reca questa scritta: “Quando perdiamo il diritto di essere differenti, perdiamo il privilegio di essere liberi”.

Esprime appieno il vero senso della convivenza.

Due mesi fa vicino Alessandria, tre Vigili del Fuoco sono rimasti vittime dell’esplosione di una cascina, provocata per truffare l’assicurazione. Nel ricordare – per loro e per tutte le vittime del dovere – che il dolore dei familiari, dei colleghi, di tutto il Paese non può estinguersi, vorrei sottolineare che quell’evento sembra offrire degli italiani due diverse immagini che si confrontano: l’una nobile, l’altra che non voglio neppure definire.

Ma l’Italia vera è una sola: è quella dell’altruismo e del dovere. L’altra non appartiene alla nostra storia e al sentimento profondo della nostra gente. Quella autentica è l’Italia del Sindaco di Rocca di Papa, Emanuele Crestini. Nell’incendio del suo municipio ha atteso che si mettessero in salvo tutti i dipendenti, uscendone per ultimo. Sacrificando così la propria vita.

Senso civico e senso della misura devono appartenere anche a chi frequenta il mondo dei social, occasione per ampliare le conoscenze, poter dialogare con tanti per esprimere le proprie idee e ascoltare, con attenzione e rispetto, quelle degli altri.

Alle volte si trasforma invece in strumento per denigrare, anche deformando i fatti.  Sovente ricorrendo a profili fittizi di soggetti inesistenti per alterare lo scambio di opinioni, per ingenerare allarmi, per trarre vantaggio dalla diffusione di notizie false.

Il mosaico che compone la società italiana ha tante tessere preziose.
Penso – tra le altre – al mondo delle nostre università, ai centri di ricerca, alle prestigiose istituzioni della cultura.

Ho conosciuto e apprezzato in tante occasioni l’attività che si svolge in questa costellazione di luoghi del pensiero, dell’innovazione, della scienza. Si tratta di un patrimonio inestimabile di idee e di energie per costruire il futuro.
E’ essenziale che sia disponibile per tutti. Che sia conosciuto, raccontato, condiviso. Che siano rimossi gli ostacoli e reso più agevole il rapporto tra istituzioni culturali e società e l’accesso al sapere.

In questo senso un ruolo fondamentale è assegnato ai media e in particolare al nostro servizio pubblico.
Abbiamo bisogno di preparazione e di competenze.
Ogni tanto si vede affiorare, invece, la tendenza a prender posizione ancor prima di informarsi.

La cultura è un grande propulsore di qualità della vita e rende il tessuto sociale di un Paese più solido.

Ringraziamo Matera che ha fatto onore all’Italia e al suo Mezzogiorno, in questo anno in cui è stata Capitale della cultura europea. 
Con questo spirito rivolgo gli auguri a Parma che, con il suo straordinario patrimonio umano e artistico, da domani sarà Capitale italiana della cultura per il 2020.

Un saluto particolarmente grato e sentito rivolgo a Papa Francesco, Vescovo di Roma, che esercita il suo alto magistero con saggezza e coraggio e che mostra ogni giorno di amare il nostro Paese, a partire da coloro che versano in condizioni di bisogno e da chi, praticando solidarietà, reca beneficio all’intera comunità civile.

Nel rinnovare gli auguri a quanti sono in ascolto in Italia e all’estero, a tutti i nostri concittadini, a quanti il nostro Paese ospita, vorrei rivolgere un saluto particolare a coloro che, in queste giornate festive, assicurano – come sempre – il funzionamento dei servizi necessari alla nostra vita comune. Rivolgo gli auguri alle donne e agli uomini delle Forze Armate, delle Forze dell’Ordine, a tutti coloro che, con vari ruoli e compiti, operano a beneficio della Repubblica e di tutti noi cittadini.

Per tutti, saluto Luca Parmitano – il primo astronauta italiano al comando della stazione spaziale internazionale – impegnato nella frontiera avanzata della ricerca nello spazio, in cui l’Italia è tra i principali protagonisti.

Da lassù, da quella navicella – come mi ha detto quando ci siamo collegati – avverte quanto appaiano incomprensibili e dissennate le inimicizie, le contrapposizioni e le violenze in un pianeta sempre più piccolo e raccolto.

E mi ha trasmesso un messaggio che faccio mio: la speranza consiste nella possibilità di avere sempre qualcosa da raggiungere.
E’ questo l’augurio che rivolgo a tutti voi !

Buon 2020 !

martedì 31 dicembre 2019

L’AURORA LUMINOSA DEL NUOVO ARCIVESCOVO DELL’ARCIDIOCESI DI CROTONE - SANTA SEVERINA - MONS. ANGELO RAFFAELE PANZETTA di Salvatore Barresi – Diacono - sociologo economista

È nato a Pulsano (TA), Arcidiocesi di Taranto, il 26 agosto 1966; ordinato presbitero il 14 aprile 1993; ordinato vescovo il 27 dicembre 2019. I Vescovi sono investiti da Cristo in persona del compito di guide del popolo di Dio. Il Concilio Vaticano II afferma che con la consacrazione episcopale si raggiunge la pienezza del sacramento dell’ordine, ovvero il vertice del sacerdozio, e con essa la missione di santificare, insegnare e governare. Per questa ragione a ogni Vescovo viene simbolicamente affidato un territorio pastorale sotto la sua responsabilità. Di quel territorio il Vescovo sarà reggente e pastore.

Mons. Panzetta sarà l’Arcivescovo della Arcidiocesi di Crotone - Santa Severina dal 5 gennaio 2020, una diocesi che ha una tradizione leggendaria dove Dionigi areopagita, discepolo di san Paolo, il quale intorno al 97, approdato a Crotone, vi predicò il Vangelo e divenne il primo vescovo della città, fu il primo ad operare la conversione della città. Una diocesi che conta 82 Parrocchie, su una estensione di 1.885 kmq, con circa 195 mila abitanti; una realtà con 100 Presbiteri, 22 Religiosi, 23 Diaconi permanenti, 6 Comunità religiose maschili e 20 Comunità religiose femminili; un Monastero.

Il Vescovo Mons. Panzetta ha ricevuto il suo mandato tramite l’imposizione delle mani e con essa l’ufficio di santificare, insegnare e governare il popolo di Dio. Tra questi doveri quello di insegnare è fondamentale. Rifacendosi agli Apostoli, loro predecessori, il Vescovo deve annunciare la Parola di Dio, diffondere il messaggio evangelico e aiutare gli uomini a conseguire una Fede piena, consapevole e forte. Come recita il Codice di Diritto Canonico al canone 369, la Diocesi è la porzione del popolo di Dio che viene affidata alla cura pastorale di un Vescovo con la cooperazione del presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da lui riunita nello Spirito Santo mediante il Vangelo e l'Eucarestia, costituisca una Chiesa particolare in cui è veramente presente e operante la Chiesa di Cristo una, santa, cattolica e apostolica.

Ma chi è il nuovo Arcivescovo di Crotone? È un figlio della terra del sud, figlio di un ex operaio dell’Italsider di Taranto (ex ILVA, l’acciaieria più grande d’Europa, oggi Arcelor-Mittal), di anni 53, con un curriculum di tutto rispetto quale Docente di Teologia Morale e Preside della Facoltà Teologica Pugliese, ed ha al suo attivo diverse pubblicazioni su riviste specializzate. Un uomo, un prete dal profilo discreto dal sorriso sobrio e rassicurante, ed una carismatica dialettica, Mons. Angelo Panzetta è un uomo dalla sorprendente umanità, vanta un eccezionale curriculum vitae, che gli ha consentito di essere preposto all’Arcivescovato di Crotone – Santa Severina, compito di cui è stato investito da Papa Francesco.

Un uomo predestinato che è arrivato al servizio vescovile chiamato per vocazione da Dio fin dalla sua tenera età; quando, per prendersi beffa del suo parroco, in compagnia dei suoi amici più stretti, dormì tutta la notte sull’altare della chiesa parrocchiale. Dio chiama secondo un suo disegno. Con il profumo di Cristo e l’odore delle pecore, il vescovo Mons. Panzetta, arriva a Crotone pieno di speranza e di fiducia in Dio, adottando il modello ministeriale di Papa Francesco, cioè in continuazione della vita e dell’azione di Cristo; “svuotarsi” da se stessi per lasciare che Cristo, Buon pastore e Sacerdote delle nostre anime, riempia pienamente quel vuoto.


Bisogna uscire da sé per conformarsi a Cristo. Non sarà facile, ma con l’aiuto di Dio, Mons. Angelo Panzetta saprà, sicuramente, rivalutare questa terra diocesana martoriata, con l’olio della gioia, con il profumo di Cristo che guarisce e conforta e rallegra il cuore, e che deve giungere attraverso il vescovo «nelle “periferie” dove c’è sofferenza, dove c’è cecità che desidera vedere, dove ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni».

Il Vescovo è una figura importante per il cristiano; è una figura essenziale per la chiesa crotonese che attende una nuova rinascita; Mons. Angelo Panzetta, come ha fatto da sacerdote dovrà «dare la vita per le pecore» e «perdere la vita». Soltanto così potrà condurre i fedeli a lui affidati alla vita vera, la vita «in abbondanza» (Giovanni, 10, 10); «dare la vita» è la caratteristica essenziale del vero pastore. Gesù lo ripete per tre volte nel Vangelo e alla fine conclude dicendo: «per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso» (Giovanni, 10, 17-18). La figura e il servizio del Vescovo sono fondamentali per la vita ecclesiale e sociale di un territorio e, partendo dal passo evangelico di Gv.21,15-19, dove la missione pastorale che Gesù affida a Pietro non va intesa in senso esclusivo, ma è estesa sicuramente a tutti i capi della Chiesa.

In particolare, ogni vescovo non cessa di rivivere in prima persona questa scena evangelica. Il rapporto pastore-gregge è un tema biblico ricchissimo che percorre l'Antico e il Nuovo Testamento. Come non ricordare Ez.34 e il Sal. 23? «Il Signore è il mio pastore. Non manco di nulla!». In questa luce siamo in grado di cogliere il significato e la portata dell'incarico pastorale che Gesù affida: «Pasci le mie pecorelle». Il compito di un Vescovo è prima di tutto quello di annunciare il Vangelo. La figura del Vescovo deriva in tutti i sensi dagli apostoli, i compagni di Gesù, coloro i quali vissero al suo fianco il breve tempo della sua vita mortale e che da lui ricevettero il compito di predicare la Parola e testimoniare il Suo messaggio nel mondo.

Se il modello pastorale di Mons. Panzetta sarà quello di Papa Francesco, allora sarà quello di dare la vita per Cristo e per le pecore, uscire da sé stessi, fidarsi pienamente della parola di Gesù dal momento stesso dell’imposizione delle mani e dell’unzione fino all’ultimo sospiro della vita. Non sarà un intermediario, un gestore, ma un pastore con «l’odore delle pecore». L’Arcivescovo Panzetta sarà il presule di una realtà, di un territorio diocesano fermo, seduto, bloccato che non costruisce senso di comunità da molti anni. Una società fragile, debole, frastagliata, che non ha sviluppato appieno il senso della dignità e dell’appartenenza. Una società che vive un blocco politico e culturale ormai da più di un ventennio. Tutti i dati, poco gratificanti, confermano che Crotone e la sua provincia, non è solo l’ultima città del Paese, ma anche tra le ultime delle Regioni d’Europa; Crotone “malata”, afflitta da un’infinità di problemi che la politica non appare in grado di affrontare.

Assediata dalla problematica dello sviluppo mancato e della riconversione industriale che non ha mai visto gli albori; assediata dalla mancanza di lavoro, nascondendo l’esodo delle nuove generazioni che stanno abbandonando la propria terra; le morti silenziose di cancro frutto di un intossicamento collettivo perpetrato ai danni di una collettività che disconosceva i danni di 70 anni di industria chimica e metallurgica. Un compito pastorale arduo ma bello perché, per i credenti, è fonte di gioia profonda riconoscere nella persona del Vescovo il Signore Gesù; scoprire, essere consapevoli che nel rapporto col Vescovo hanno la grazia incalcolabile di vivere un rapporto vero con Cristo: «Nella persona dei Vescovi, assistiti dai sacerdoti e dai diaconi, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo pontefice sommo... per mezzo dell'eccelso loro ministero predica la parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede.... Dirige e ordina il popolo del N.T. nella sua peregrinazione verso l'eterna beatitudine», come recita la Lumen Gentium n. 21. Questi pastori, scelti a pascere il gregge del Signore, sono ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio (Cfr 1 Cor 4,1)...»

Esiste una nuova “questione Crotone”. È il nuovo Arcivescovo lo sa bene. Quali sono le possibili vie d’uscita per restituire dignità e splendore a una realtà tra le più belle della Calabria? I cattolici crotonesi sono una delle risorse e delle speranze di questa realtà, e il nuovo vescovo dovrà stimolarli a sviluppare di più un senso comunitario, affinché possano dar vita nelle parrocchie ad associazioni, gruppi, volontariato a servizio del bene comune. Pur con tutti i limiti evidenti che mostra la Chiesa crotonese, non mancano infatti le parrocchie chiuse in se stesse, un cattolicesimo un po’ egoista o borghese, sacerdoti invecchiati; la venatura comunitaria che attraversa il cattolicesimo locale può ancora fare la differenza. In positivo. Si tratterebbe semmai di chiamare i cattolici che vivono in diocesi a un rinnovato senso di responsabilità civica e di protagonismo sociale e politico che può portare grande valore aggiunto alla città.

Mons. Panzetta sa bene che i fedeli sono di Cristo, sua proprietà. Non sono di questo o di quel vescovo, di questo o di quel prete. E' Cristo, il Signore, il Pastore del gregge. Gesù non lo affida ad altri abdicando alla propria responsabilità. Non cede il suo compito ad altri. Ma partecipa il suo servizio ad altri, i quali lo rappresenteranno, agiranno in suo nome: non nel senso che agiranno al posto di Cristo, ma nel senso che Lui continua ad agire oggi attraverso di loro; nel senso che essi sono sacramento di Cristo, cioè segno e strumento della sua presenza e della sua azione nella Chiesa e nel mondo.

E' Lui l'agente principale, che essi rendono presente e visibile (Cfr "in persona Christi"). “Sono felice - ha detto il nuovo arcivescovo di Crotone - Santa Severina nel discorso di ringraziamento durante la sua ordinazione vescovile - di essere stato chiamato al ministero episcopale in questa stagione della vita della Chiesa caratterizzata da tanta complessità ma anche da molte opportunità per chi vuole rendere testimonianza della speranza che è fiorita nella Pasqua di Cristo”.


Sa bene, Monsignor Angelo Raffaele Panzetta, che il compito affidato da Papa Francesco è arduo per questo le sue parole: “Vengo come testimone di speranza”, sono piene di “passione positiva per il futuro”. Consapevole delle difficoltà che lo attendono, Monsignor Panzetta si è detto “certo di poter contare sulla collaborazione leale di un presbiterio consistente, generoso e qualificato. E nel popolo, che si caratterizza per quella bellezza spirituale che risiede una vita nella fede, nella carità e nella speranza, nonostante le difficoltà sociali che sembrano talvolta insormontabili”. Monsignor Panzetta ha lanciato un messaggio di speranza: “la nomina del nuovo vescovo è un evento di grazia, dono di Dio per la Chiesa e per i crotonesi”, e un messaggio di cambiamento: “Io verrò nella nostra diocesi, cercherò di essere un vescovo dono, cercherò di esserlo con tenacia, senza risparmio. Sono stato un prete felice e vorrei essere un vescovo felice, per poter portare ovunque la gioia del Vangelo”.